Parla Vali Nasr, autore de «la rivincita sciita» e gia' consulente della Casa Bianca

«L'Iran, bersaglio nascosto di Annapolis»

«Teheran assente alla conferenza sul Medio Oriente ma nel mirino di Stati Uniti e dei Paesi arabi presenti»

L’Iran, grande assente alla conferenza di Annapolis, è stato in realtà più presente che mai: sullo sfondo, come bersaglio. Degli Stati Uniti che puntano a creare un fronte anti-iraniano in Medio Oriente. Ma anche degli arabi, accorsi numerosi al vertice soprattutto perché preoccupati dalla rinascita sciita nella regione, che vede Teheran capofila. E' questo lo scenario descritto da Vali Nasr, iraniano trapiantato negli Usa, docente di politica internazionale alla Tufts University in Massachusetts. Nasr, uno dei massimi esperti di questioni mediorientali (è stato anche consulente della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato, del National Security Council e del Dipartimento della Difesa proprio su questi temi ed è membro del prestigioso Council of foreign relations) è diventato noto in tutto il mondo con «La rivincita sciita», un testo che spiega come «il futuro del Medio Oriente dipende da come verrà risolto il conflitto tra il vecchio establishment arabo sunnita e l’emergente potere sciita, tra l’Arabia Saudita e l’Iran come naturali pesi massimi di ciascuno schieramento».

Se gli sciiti sono come dice lei «gli outsider che sconvolgeranno il Medio Oriente», come valuta l’esclusione dell’Iran da Annapolis? «L’Iran non è stato invitato nemmeno alla conferenza di Madrid del 1992. C’è una resistenza nel mondo arabo e in Israele a includere Teheran. Ma considerando l’espansione dell’influenza iraniana nell’area non credo che tagliarlo fuori sia di qualche utilità. Il punto è che per gli Stati Uniti Annapolis era l'occasione per creare una larga alleanza anti-iraniana in Medio Oriente. Ma questa strategia non farà altro che rendere ancora più marcate le differenze tra Washington e Teheran».

D'altra parte l'Iran non intende rinunciare alle sue ambizioni nucleari Occorre tener presente che la bomba nucleare iraniana sarà anche una bomba «sciita» contro quella «sunnita» in possesso del Pakistan, il cui programma nucleare ha avuto il maggior sostegno finanziario dall'Arabia Saudita, perenne bestia nera di Teheran. La rinascita sciita, partita in Iraq con la sconfitta dei sunniti di Saddam, è destinata a rafforzare l’espansione dell’influenza regionale dell’Iran e la sua aspirazione allo status di "grande potenza”. In Libano, nel Bahrein e in mille altri angoli del mondo musulmano gli sciiti sono alla ricerca di una più adeguata rappresentanza politica».

Ma il fronte arabo è più unito dopo Annapolis, secondo lei? «Il fronte arabo, ad eccezione della Siria, è compatto contro l'Iran. L'apparente mobilitazione per la causa palestinese agevola il consolidamento di questo fronte: gli Stati che hanno partecipato ad Annapolis ora possono dire alla popolazione che stanno facendo di più per i palestinesi rispetto all'Iran e a Hezbollah. E controbilanciare l'effetto dell'ultima guerra del Libano che la scorsa estate ha trasformato Hezbollah e il suo protettore, Teheran, in paladini della causa palestinese. La capacità di resistenza degli sciiti agli attacchi israeliani aveva scippato ai movimenti radicali sunniti il loro punto principale di propaganda - la resistenza allo stato di Israele. E ora questi ultimi hanno tentato di riprenderselo, con scarsi successi vista l'alta partecipazione alle manifestazioni anti-Annapolis che si sono svolte nei Paesi arabi. Cortei che hanno dimostrato la scollatura che c'è tra quei governi e la popolazione».

Per lo storico israeliano Benny Morris, il vero dilemma di Israele è se bombardare o no l’Iran. La prospettiva di ritrovarsi nel giro di qualche anno a dover convivere con gli ayatollah fondamentalisti in possesso dell’atomica avrebbe fatto passare in secondo piano il problema della convivenza con i palestinesi. E’ d’accordo? «Penso che la questione palestinese sia importante per la sicurezza di Israele e per l’immagine degli Usa ma la questione decisiva è l’equilibrio del potere tra Iran e Israele. E’ la questione iraniana che minaccia più direttamente la sicurezza di Israele non quella palestinese. Il futuro della regione dipende dalla questione iraniana e non da quella palestinese»

Ma davanti alla minaccia iraniana, con il Libano al collasso e la guerra civile in Iraq, Bush ha preferito “cavalcare” la causa israelo-palestinese. Secondo lei perché? «Washington pensa che la causa palestinese possa unire gli Arabi intorno agli Usa contro l’Iran e anche aiutare a risolvere altre questioni come il Libano indebolendo Hezbollah. Inoltre la conferenza può far fare qualche progresso su un tema di grande impatto emotivo e dare un senso di successo immediato che Iraq, Libano o Iran non saprebbero dare».

Lei è uno scettico della prima ora sull’esito della conferenza. Si è ricreduto? «Per niente. Il risultato positivo di questa conferenza è stato far ripartire un processo fermato sei anni fa. Resta il fatto che oggi arabi e israeliani sono troppo distanti per arrivare a un accordo a breve. L’incontro è servito a rompere il ghiaccio, niente di più. Hanno detto tutti che vogliono la pace ma questo non significa che abbiano fatto progressi per raggiungerla».

Alessandra Muglia

Il Corriere della Sera, 28 novembre 2007


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