Nel cinquantenario della morte di Giuseppe Stalin

Antistalinismo o anticomunismo ?

Le esperienze rivoluzionarie del passato sono bagaglio imprescindibile per ogni movimento che tenda al superamento-eliminazione della struttura socio-economica capitalistica. Marx, Engels, Lenin, Stalin presero atto della sconfitta del primo tentativo, per sé embrionale, di rovesciamento della società borghese, la Comune di Parigi, ne videro e criticarono i limiti, non ne ignorarono e certo non ripudiarono gli elementi di violenza (come sempre, superata da quella "capillare" del sistema e da quella dei restauratori): ma la considerarono primo, ineliminabile gradino della lotta rivoluzionaria del proletariato con l’impianto, per quanto breve, di un potere opposto a quello della borghesia e non si sognarono in alcun modo di rinnegarla, di ignorarla, di cancellarne la memoria, di non farne oggetto di studio, ed anzi addirittura di guardare ad essa con disprezzo.

Tutto il contrario avviene nei confronti della gigantesca esperienza aperta dalla Rivoluzione di Ottobre, che ha dominato il XX secolo, con risultati e acquisizioni colossali nella trasformazione del mondo, un rovesciamento di rapporti economico-sociali, o almeno un suo potente avvio, realizzato in tanta parte della terra con influssi pervasivi anche sul mondo capitalistico, con l’emancipazione e la sottrazione di masse sterminate alla miseria materiale e culturale, con la sconfitta del colonialismo e il mutamento della carta geografica mondiale nel senso dell’indipendenza dei popoli e del limite imposto all’imperialismo, ed anche, perché non ricordarlo?, con un solido contrappeso, sul piano dell’arte e della cultura, alle tendenze decadenti e formalistiche della borghesia nell’epoca dell’imperialismo. Mai i diritti economici e sociali delle masse proletarie e dei popoli liberati dalle grinfie dell’imperialismo hanno conosciuto affermazioni così chiare, forti, reali, con irradiazioni "forzate" anche a favore dei lavoratori del sistema capitalistico; mai un freno alla guerra imperialista era stato imposto con tanta fermezza, dopo la gloriosa vittoria sul nazifascismo che ha il suo emblema in Stalingrado e il suo capo in Giuseppe Stalin. Un grande studioso di letteratura, di recente scomparso, Giuseppe Petronio (Liberazione del 15 gennaio 2003), ci dice: "Il comunismo, checché se ne pensi, è stato, nel bene e nel male, una tragedia, nel senso alto della parola: un uragano che ha investito l’intero pianeta, ha coinvolto nazioni e individui, ricchi e poveri, colti e analfabeti e, dove è passato, niente è più come prima. Ha abbattuto troni e imperi, distrutto regimi e modi di produzione millenari. Ha impresso un corso nuovo alla storia e alla cultura, ha generato ideologismi e sofismi, ma anche idee geniali, che possiamo accettare o rifiutare, ma che nessuno può permettersi di ignorare". E si tratta ovviamente del grande movimento del XX secolo, incarnato in Stati e partiti.

Ebbene, i "comunisti" di oggi (quelli ufficiali), quelli che affermano di volere un altro mondo, disconoscono, cancellano, vilipendono tutto ciò. E’ vero che nessuno di loro è un Marx, un Engels, un Lenin, uno Stalin: ma non sono neppure, non vogliono essere nani che poggiano sulle spalle di giganti, secondo una nota immagine. Per ragioni di opportunismo politico e di accomodamento intellettuale si rifugiano nel senso comune imposto dall’ideologia dominante, al quale forniscono forte alimento per parte loro, e denigrano, o magari solo radiano dalla storia, quel poderoso movimento di trasformazione reale della vicenda storica dell’umanità che ha avuto concreto inizio (ma solo inizio) con la Rivoluzione di Ottobre, ma in tanto ha inciso sulla realtà planetaria, in quanto vi è stata l’edificazione del socialismo, o di una prima fase, in Unione Sovietica e poi in una comunità di Stati socialisti: un’ondata immane che, nonostante la sconfitta sanzionata nel 1989-91, ha messo in moto e trasformato masse umane, rapporti di potere e di forza, idee suscitatrici di nuove rivoluzioni, fine del colonialismo (politico). Un sommovimento che fa sentire i suoi effetti, la sua "spinta propulsiva" pure nelle condizioni della tragica, in larga misura autoprovocata, disfatta anche - nonostante tutto e nonostante loro stessi - in coloro che, speriamo in buona fede ma allora in colpevole superficialità, si proclamano comunisti ma rinnegano la propria storia e le proprie radici reali.

Se tutto questo è vero, alla vicenda del "socialismo reale" andrebbero riservate l’attenzione anche critica e lo studio e almeno il rispetto dedicati alla Comune parigina. Invece, nella migliore delle ipotesi, si salvano il momento (romantico…) della fiammata iniziale, la Rivoluzione di Ottobre, e la figura di Lenin - pur in realtà distaccandosene - e si butta a mare la vicenda successiva incentrata su Stalin, quella invece che ha dato corpo alla rottura rivoluzionaria e al gigantesco processo reale che abbiamo poveramente delineato. Lenin come icona, dunque, accettabile o tollerabile perché protagonista di un "assalto al cielo" utopico e eroico, immune, si pensa, da una violenza "organizzata" e continuativa. Mentre un’analisi seria dimostra che Lenin non disdegnò i metodi duri e repressivi (una citazione dallo scritto che menzionerò più avanti: "Nell’esercito rosso… venivano prese misure rigide, severe, dure fino alla fucilazione... I piccoli borghesi scrivevano e strillavano: ‘Ecco, i bolscevichi hanno introdotto le fucilazioni’. Noi dobbiamo dire: ‘Sì, le abbiamo introdotte e lo abbiamo fatto del tutto deliberatamente’. - Dobbiamo dire che o devono perire quelli che volevano rovinarci e che riteniamo debbano perire, e allora resterà viva la nostra Repubblica sovietica, o, al contrario, rimarranno vivi i capitalisti e perirà la repubblica. In un paese caduto in miseria, o periranno quelli che non riescono a mettersi al passo, o perirà tutta la repubblica degli operai e dei contadini. E qui non c’è e non ci può essere scelta così come non c’è posto per nessun sentimentalismo. Il sentimentalismo è un delitto non minore del panciafichismo in guerra. Chi si permette qualche deroga alla disciplina, permette al nemico di introdursi fra noi". Quante anime belle e quanti anti-Stalin in nome di Lenin sono qui ben serviti! Anche a noi piacerebbe che le cose andassero diversamente, ma è il nemico che detta le modalità di una guerra). Del pari Lenin gettò persino le fondamenta di istituzioni a tal fine (così i campi famigerati come gulag) e fu non meno "spietato" del suo successore nei confronti di chi ponesse in pericolo gli esiti rivoluzionari. Qualche lucido storico, persino di matrice trotzkista, non esita a riconoscere che Lenin, fallita la rivoluzione in Occidente, o avrebbe dovuto mollare tutto o fare quello che è stato costretto a fare Stalin nel perseguimento, tatticamente flessibile ma sul fondo intransigente, della costruzione del socialismo e nella difesa senza remissioni della vicenda rivoluzionaria contro nemici esterni o, più pericolosi, interni allo stesso Partito.

Ciò che non si vuole vedere è che non si tratta di "perdonare" a Lenin certe durezze perché determinate da una fase "attiva", e combattuta anche con le armi, della rivoluzione e dei suoi seguiti immediati (guerra civile, intervento straniero…), le quali sarebbero inescusabili in Stalin, chiamato a dirigere una fase di "normale amministrazione". Con Stalin continua la rivoluzione, attraverso la trasformazione dei rapporti economico-sociali e quindi l’aspra lotta di classe, ma ci si muove in una generale situazione di vera e propria "guerra" continua, anche se sino al 1941 non formalmente guerreggiata, per tutta l’azione, interna e dal di fuori, di minaccia, di sabotaggi, attentati sanguinosi provocati dalla reazione interna e internazionale e dal porsi, almeno oggettivo, in un contesto così grave e impervio, di certe "opposizioni" nella funzione di quinte colonne, attuali o potenziali, del nemico di classe: il tutto nella prospettiva di una incombente guerra, nel senso vero e proprio del termine (aggressione nazista del 1941), da Stalin lucidamente prevista per tempo, pur nel costante tentativo di sventarla o ritardarla. Certo l’aura romantica dei primi anni rivoluzionari è più difficile da cogliersi per il periodo staliniano, anche se in realtà per chi sa vedere l’epopea di quegli anni è indiscutibile. Ma, appunto, bisogna saper vedere la sostanza.

Stalin: edificazione socialista dopo la presa del potere, continuazione della rivoluzione e della lotta di classe, possibilità del riemergere di contraddizioni anche antagonistiche nella società e quindi di restaurazione capitalistica finché dura l’imperialismo; intransigente vigilanza contro l’imperialismo e i suoi complici o anche solo obiettivi fautori; necessità assoluta di non perseguire solo la crescita e lo sviluppo delle forze produttive, quasi come problema puramente organizzativo e tecnico, bensì di mantenere il nesso dialettico con i rapporti di produzione e quindi tutta la connessa problematica politica e culturale. E’ tutto questo che viene meno dopo la sua morte e che purtroppo non viene riconosciuto o almeno ben affermato neppure da intellettuali che non ripudiano l’esperienza sovietica.

Manca, anche fra tanti che hanno superato e persino combattono la demonizzazione di Stalin (ormai accettata invece come senso comune ossessivo, finanche fra i più che si richiamano al comunismo, quasi circondati da una mefitica atmosfera che tutto inquina e viene "naturalmente" aspirata), manca la coscienza del mutamento negativo che si è sviluppato nella società sovietica e negli altri paesi socialisti, a partire dai gruppi dirigenti e dai Partiti comunisti (con le note eccezioni) dopo la morte di Giuseppe Stalin e che ha avuto sanzione formale con il XX Congresso del PCUS del 1956 e quindi con il XXII del 1961.

E allora riflettiamo su quanto espresso da Eric Hobsbawm nella sua ultima opera, Anni interessanti (qui non importa che le conseguenze tratte dallo storico inglese per sé non siano condivisibili): "Ci sono due sequenze di ‘dieci giorni che sconvolsero il mondo’ nella storia del movimento rivoluzionario dell’ultimo secolo: i giorni della Rivoluzione di Ottobre… e quelli del XX Congresso del PCUS (14-15 febbraio 1956). Entrambi la dividono repentinamente e irrevocabilmente in un ‘prima’ e in un ‘dopo’… semplificando al massimo: la Rivoluzione d’Ottobre creò un movimento comunista mondiale, il XX Congresso lo distrusse".

Per un concorso di fattori, su cui l’approfondimento è ancora necessario, i fenomeni paventati da Stalin (ad es., Lettera a Ivanov del 1938; Problemi economici del socialismo in URSS del 1952), e cioè dislocamenti delle classi sociali tuttora esistenti in URSS, con riflesso nello stesso Partito, portarono, in quanto non contrastati o addirittura favoriti a livello politico dopo Stalin, a un diverso equilibrio rispetto a quello raggiunto in precedenza: a detrimento delle posizioni e concezioni centrate sul primato della classe operaia, con spostamento verso i contadini e dunque in qualche modo gli elementi piccolo-borghesi. Questo generò il riaffiorare di concezioni borghesi che trovarono alimento nella perdurante lotta di classe a livello internazionale nel contesto dell’imperialismo e dettero nutrimento alle differenze di classe interne. L’aspetto ideologico fu rappresentato da quello che chiamiamo revisionismo moderno (o revisionismo al potere, inaugurato già da Tito in Jugoslavia), con la cancellazione o la torsione di elementi fondamentali: abbandono della dittatura del proletariato e di una concezione del Partito centrata sulla classe operaia per arrivare al Partito (e allo Stato) di tutto il popolo; passaggio dalla coesistenza pacifica leniniana a competizione fra i due sistemi mondiali; quello dal riconosciuto attivo esercizio della lotta di classe per trasformazioni rivoluzionarie successive e continue (che non significa di necessità sempre con uso della violenza) a evoluzione esclusivamente pacifica (addirittura per la via parlamentare nei paesi capitalistici); prevalenza dell’elemento economicistico; allentamento della vigilanza rivoluzionaria, e per necessità anche repressiva, verso chi poneva in pericolo le conquiste rivoluzionarie per passare addirittura alla "criminalizzazione" di tali pratiche e soprattutto del dirigente che aveva costruito l’Unione Sovietica, dato avvio all’edificazione concreta del socialismo e vinto il nazifascismo: Stalin.

E’ chiaro che qui non vi fu solo, dopo la morte di Stalin, un mutamento di direzione politica: vi fu il sopravvento di forze, annidate nello stesso PCUS e ora favorite dalle condizioni del rilassamento post-bellico e dell’avvenuta ricostruzione, che consentirono lo smottamento di classe che si è indicato e che, nel corso degli anni, ha portato a quel contrasto tra rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive che ha generato prima stagnazione e quindi, anche per il concorso attivo dell’imperialismo, l’implosione della struttura socialista e la (forse non integralmente compiuta) restaurazione del capitalismo, con un potere politico controrivoluzionario e restauratore (forse, oggi, in situazione di instabilità e incerto equilibrio).

L’indicazione di Stalin, nei Problemi economici, circa la possibilità che una non corretta gestione del nesso fra rapporti di produzione e forze produttive portasse a contraddizioni antagonistiche (profilo esaminato in particolare da Mao tze tung), è stata disattesa. Stalin indicava una linea suscettibile certo di rallentamenti, parziali deviazioni e comunque non immediata, per una graduale contrazione dei rapporti mercantili, l’estensione della pianificazione centrale, la generalizzazione della proprietà di tutto il popolo. Tutto ciò è stato disatteso e rovesciato da Krusciov in poi e naturalmente, più ancora che per gli aspetti formali ed ufficiali dichiarati (già in sé perigliosi), con un lavorio nelle viscere e nelle basi del Partito e della società che ha portato a rivivificare le tendenze borghesi residue e a dar loro sostanza concreta in strati sociali determinati. Invece dell’avvicinamento costante fra le classi, il loro nuovo divaricarsi: pure, come indicato nella menzionata lettera a Ivanov, con il collegamento, anche solo culturale, con la borghesia internazionale dell’imperialismo.

Quando in un paese che ha imboccato la via socialista si privilegia lo sviluppo delle forze produttive senza cura del nesso con i rapporti di produzione e la correlativa battaglia politico-culturale, si verifica pressoché inevitabilmente quella divaricazione che Stalin aveva paventato e contro cui aveva messo in guardia, nella sua polemica con Iaroscenko. Si è sempre realizzato, quell’obiettivo, con l’esaltazione di elementi e meccanismi della struttura capitalistica sopravviventi o ripristinati nel socialismo. Lenin, nello scritto La nuova politica economica e i compiti dei Centri di educazione politica del 1921, non esita a parlare, a proposito della NEP a pochissimi anni dalla Rivoluzione, di "ritirata strategica" e di "restaurazione" capitalistica o almeno di "vero e proprio ritorno al capitalismo" (per taluni importanti aspetti) e poneva il problema: "Chi vincerà: il capitalismo o il potere sovietico?". Il ricorso ai Centri di educazione politica doveva sostenere ideologicamente tra le masse la nuova politica e al tempo stesso arginare questa in modo da non farla travalicare dai suoi obiettivi "transitori" e quindi da bloccare ogni restaurazione capitalistica. Precisa Lenin: "Il problema è tutto qui: chi arriverà prima? Riusciranno i capitalisti ad organizzarsi per primi? In questo caso cacceranno i comunisti, e questo sarà la fine di tutto. Bisogna veder le cose come sono: chi avrà il sopravvento? Oppure il potere statale proletario, appoggiandosi ai contadini, dimostrerà di essere capace di tenere ben ferme le redini al collo dei signori capitalisti, per guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio". E ancora: "Per vincere dobbiamo ricorrere all’ultima fonte di forza rimasta, che è la massa degli operai e dei contadini, il loro livello di coscienza, il loro grado di organizzazione. O il potere proletario organizzato, gli operai d’avanguardia e una piccola parte di contadini d’avanguardia comprenderanno questo compito e sapranno organizzare intorno a sé un movimento di popolo, e allora usciremo vincitori. O non sapremo fare questo e allora il nemico, meglio armato dal punto di vista tecnico, inevitabilmente ci sconfiggerà". Tutto questo vuol dire che "lo Stato proletario" deve restare al timone della NEP per raggiungere gli "obiettivi transitori" di questa.

"Transitori", e quindi da chiudersi non appena possibile, come fece Stalin quando constatò che la NEP aveva esaurito la propria funzione ed impediva il progresso del socialismo. I dieci anni previsti per lo scoppio della guerra richiedevano lo sforzo sovrumano della collettivizzazione delle campagne e dell’industrializzazione che furono le basi ineludibili per la vittoria nella Grande Guerra Patriottica (questa, nelle condizioni della NEP, sarebbe stata ingestibile!).

I problemi e talune insufficienze del gruppo dirigente rivelatisi alla morte di Stalin e che purtroppo sfociarono nel prevalere di una linea opportunistica di destra (da ricollegarsi a quella di Bucharin, ma anche per certi versi a quella di "sinistra" di Trotzki, per quanto in modo dissimulato), non possono celare che la linea adottata fu quella del lento e graduale smantellamento dell’opera di Stalin, una linea di disfatta sempre combattuta e comunque negativamente additata da Stalin. Certo, la linea opposta tratteggiata dal grande georgiano sarebbe stata ardua e avrebbe richiesto un gruppo dirigente di ferro. Ma nessuna soluzione di ingegneria costituzionale o istituzionale e nessun ripristino di una NEP o simile avrebbero dato soluzione positiva (e del resto di blandi e mimetizzati elementi in direzione "liberalizzatrice" dell’economia, con avvicinamento mascherato a soluzioni jugoslave, in realtà si trattò). Non va mai dimenticato che qualunque soluzione o scelta sarebbe avvenuta nel contesto di perdurante lotta di classe, interna e internazionale. Credo che, nel valutare le attuali "evoluzioni" della Cina popolare - alla quale la solidarietà antimperialistica deve essere comunque riservata -, le considerazioni svolte, con i richiami a Lenin e a Stalin (e a Mao tze tung), vadano sempre tenute presenti. Puntare tutto sul solo o assolutamente prevalente sviluppo delle forze produttive può rivelarsi gravido di serie conseguenze, in direzione di una restaurazione del capitalismo non nel senso (limitato e controllato, anche ideologicamente, come si è visto, ad es. con i Centri di educazione politica) di Lenin, ma integrale e fuori da ogni limite, con il ripristino di un potere borghese, con la lotta di classe che entra pure "ufficialmente" nel Partito e con contraddizioni che possono farsi non dominabili. Se si abbandona il criterio della centralità del proletariato, della necessità di trasformazioni rivoluzionarie successive verso il comunismo per privilegiare stabilità e sicurezza anzitutto, nei fatti, per gli elementi capitalistici (anche attraverso il "diritto borghese"), la drammatica domanda di Lenin (e di Stalin e di Mao), "chi vincerà?" tra socialismo e capitalismo, si carica di risvolti inquietanti.

Aldo Bernardini


Ritorna alla prima pagina