La Palestina può attendere

Ali Rashid

Il Manifesto 29 novembre 2007


Sono stati versati fiumi di inchiostro per dare l'illusione, a una vasta opinione pubblica mondiale, che l'amministrazione Bush, alla guida di tutta la comunità internazionale, si stia impegnando finalmente in qualcosa di utile: la soluzione della questione palestinese.

In tutti gli incontri diplomatici, a qualsiasi livello e per qualsiasi motivo, si sente parlare della necessità di trovare una soluzione giusta per la questione. Una soluzione in grado di portare stabilità e sviluppo, ridurre tensioni e divisioni, combattere il terrorismo, favorire il dialogo tra le religioni e le civiltà, ridurre il prezzo del petrolio, attraverso un processo che dia stabilità al Medio Oriente. E con Medio Oriente si intende ormai una vasta zona che ingloba aree che storicamente non hanno mai fatto parte di esso, una regione che si estende per comprendere tutti gli scenari di conflitto e, per essere più precisi, l'area dove gli Stati Uniti, nel loro progetto di dominio totale, intendono riconsolidare il potere e rimettere le mani.

Durante i sette anni della sua presidenza, Bush non ha voluto occuparsi mai di Palestina e ha dato il proprio sostegno incondizionato a Israele, che ha deliberatamente affossato sul nascere ogni tentativo di soluzione, semplicemente perché i suoi piani erano piani di guerra e non di pace. Non sono mai stato contrario a qualsiasi tentativo che aiuti un processo di pacificazione tra israeliani e palestinesi, e non vorrei sembrarlo neanche questa volta, ma dire che oggi siamo più vicini alla pace di ieri è un insulto. Ad Annapolis, quello che doveva essere una conferenza è stato declassato da subito a incontro e, solo per dare un poco di lustro, è stato chiamato vertice. La soluzione per la questione palestinese è rinviata nel tempo. Le dichiarazioni che la riguardano parlano di intenzioni, senza scadenze e senza un progetto definito nei tempi e nei contenuti, se non in modo molto vago, parlano di desideri espressi da Bush e Olmert che altro non sono se non riflessi di un desiderio inappagato, di passioni vacue che potrebbero essere oggetto di psicoanalisi più che di analisi.

Comunque, e a prescindere dalle intenzioni dei partecipanti, che obiettivamente non sono tutte uguali, la Palestina, o meglio la sua Ombra e ciò che resta di essa, rimane lì, all'orizzonte, ad attendere l'anima incorrotta, a testimonianza della decadenza del nostro mondo e della miseria del suo ceto politico, costretta a ritornare al centro quando si parla di pace e ad affogare nel suo sangue, come è avvenuto da sempre, quando si fa la guerra. Le mezze figure che abbiamo visto occupare la scena ad Annapolis non hanno l'autorevolezza, né la storia, né la forza e nemmeno la presunzione che permetterebbero loro di compiere un'impresa così ardua ed esaltante, con qualche attenuante per Abu Mazen, che si trova a tentare di gestire l'ingestibile e non solo per colpa sua. Forse è vero, non poteva non andare e comunque, di nuovo, come un notaio si è limitato ad elencare le cose minime, di cui è impossibile non parlare.

La Palestina, dunque, deve ancora attendere. La pace che incalza è stata surrogata da un processo di pace interminabile e inconcludente, senza punti di riferimento certi, come quelli che, malgrado tutto, ha ribadito il ministro degli esteri dell'Arabia Saudita, interessata più di Bush e per questioni che riguardano la sua stessa stabilità oltre a quella di altri paesi presenti. E cioè che la pace nella regione non è compatibile con la continuazione dell'occupazione dei territori arabi. Questa sarebbe la base minima e se Israele non compie questo passo, altro che «concessione dolorosa», dimostrerà tutta la propria incompatibilità con la pace stessa.

Mentre viene rinviata nel tempo la pace, con questo summit sembrano arrivare a un punto avanzato i preparativi per la prossima guerra. Condoleeza Rice nel suo discorso ha affermato che questo incontro apre le porte alla normalizzazione dei rapporti tra Israele da una parte e il mondo arabo dall'altra, obiettivo che considera un interesse nazionale per gli Stati uniti. Bush ha parlato dell'isolamento dell'Iran, che è stato escluso, e di forte sostegno internazionale. Per chi ha un po' di memoria, è un film già visto. Si tratta di un brutta copia della conferenza di Madrid che aveva prodotto tanta illusione di pace e due cose concrete: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi e una grande e drammatica guerra. Anche ora una guerra, e subito, perché la nuova coalizione dei «volenterosi» è già pronta, serve una grande messa in scena per ricaricare la consumata e inattendibile diplomazia americana, creare il nuovo nemico e far pagare i costi dei conflitti ai paesi arabi che hanno accumulato in questi anni un'ingente liquidità monetaria, indispensabile per salvare l'economia Usa dalla recessione. Esattamente come la prima guerra del Golfo, da questo punto di vista un vero capolavoro. Tutto subito e in nome della pace in Palestina.

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