L’Autorità (Anti-)Palestinese

Joseph Massad

Al-Ahram, settimanale, 15 - 21 giugno 2006, numero 799,  http://weekly.ahram.org.eg/2006/799/op11.htm

Tradotto dall'inglese da Manno Mauro, e revisionato da Davide Bocchi, membri di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (tlaxcala@tlaxcala.es). Questa traduzione è in Copyleft.

Il vero scontro oggi nella società palestinese è tra coloro che lottano per conservare i privilegi di classe ottenuti da Oslo e i loro oppositori che difendono i principi della causa palestinese

Una delle misure più importanti che gli architetti israeliani e palestinesi degli accordi di Oslo presero allo scopo di garantire la sopravvivenza strutturale di ciò che è noto come il «processo di pace» di Oslo  fu la creazione di strutture, istituzioni e classi, che fossero direttamente connesse con questo processo, e potessero sopravvivere al collasso degli accordi di Oslo mantenendo in piedi il «processo» generato dagli accordi. Questa garanzia fu fissata dalle leggi e tenuta in vita dai fondi internazionali basati sulla continuazione del «processo di Oslo», fintantoché questo processo continuava a servire gli interessi israeliani e americani come pure quelli della corrotta elite palestinese che in quel processo si era lasciata coinvolgere.

Le cinque principali classi create dagli architetti di Oslo per assicurare la continuazione del processo sono:

Una classe politica, divisa tra coloro che sono stati eletti per servire il «processo di Oslo», all’assemblea legislativa o nel ramo esecutivo (cioè essenzialmente la posizione del presidente dell’Autorità Palestinese), e coloro che sono scelti per servire chi è stato eletto, cioè i rappresentanti dei ministeri o dell’Ufficio del presidente.

Una classe di funzionari di polizia, consistente in decine di migliaia di persone, la cui funzione è quella di difendere il processo di Oslo contro quei palestinesi che cercano di minarlo. Questa classe è divisa in un certo numero di articolazioni di sicurezza e di intelligence, tutte in competizione le une con le altre, tutte in competizione per dimostrare che sono quanto di più efficiente ci sia nel neutralizzare qualsiasi minaccia al processo di Oslo. Sotto l’autorità di Arafat, alcuni membri di questa classe inaugurarono il loro servizio sparando e uccidendo 14 palestinesi ritenuti nemici del «processo» a Gaza, nel 1994 – un risultato che fece loro guadagnare il rispetto iniziale degli americani e degli israeliani, i quali insistevano che quella classe di poliziotti doveva usare più repressione di quanto aveva fatto prima per essere più efficace.

Una classe di burocrati legata ai politici con la funzione di articolazione amministrativa. Un ceto di decine di migliaia di funzionari incaricati di eseguire gli ordini dell’assemblea legislativa e del ramo esecutivo, cioè degli incaricati di servire il «processo».

Una classe di aderenti alle ONG: un altro ceto burocratico e tecnico il cui finanziamento dipende completamente dal modo in cui servono il processo di Oslo e ne assicurano il successo attraverso la pianificazione e i servizi.

Una classe di uomini di affari, palestinesi della diaspora e del paese – inclusi tra questi, in particolare, ci sono, membri della classe politica, dei funzionari di polizia e burocrati – i cui guadagni vengono dagli investimenti finanziari fatti nel processo di Oslo e da accordi di profitto che l’Autorità Palestinese (A. P.)  rende possibili.

Mentre la classe legata alle ONG, per lo più, non riceve denaro dall’A. P., dato che beneficia di donazioni governative e non governative che sono strutturalmente legate al processo di Oslo, le classi di politici, di funzionari di polizia e burocrati ricevono tutte le loro entrate, legittime e illegittime, direttamente dall’A. P.. Facendo in modo che lo stipendio di decine di migliaia di palestinesi dipendesse direttamente dal processo di Oslo, gli architetti degli accordi avevano puntato grosso a favore della sopravvivenza del processo stesso, anche se, e soprattutto se, questo processo avrebbe finito per non produrre nessun risultato politico. Per l’elite palestinese che si prese l’incarico di dirigere l’A. P., il compito principale, per tutto il tempo dagli accordi ad oggi, è stato di fare in modo che il processo continuasse (con o senza risultati) e che essa stessa restasse a guardia di tutte le istituzioni che garantiscono la sopravvivenza del «processo». Ciò che questa elite non ha saputo prevedere è che prima o poi essa poteva perdere il potere a favore di Hamas, che ha sempre apertamente avversato il processo di Oslo e che nel 1994, come era logico, veva boicottato le elezioni manipolate e controllate da Fatah. Le elezioni del 2006, che Fatah era sicura di vincere, hanno costituito un terremoto politico che mette in pericolo tutte le garanzie strutturali e con esse lo stesso «processo» la cui protezione dovevano assicurare.

Se quando il movimento palestinese era diretto dall’Olp l’obiettivo per cui lottavano i palestinesi era la «causa», con l’Autorità Palestinese, l’obiettivo a cui dedicarsi diventò il «processo». E’ in questo contesto che i benefici finanziari che si ottengono nel momento in cui si entra in una delle suddette classi finiscono per assicurare che i palestinesi rimangano impegnati a portare avanti il processo. Il panico che di recente abbiamo visto manifestare dalle classi dei politici, dei funzionari di polizia e dei burocrati è direttamente collegato alla loro percezione secondo la quale se non capovolgono la situazione determinata dalla vittoria di Hamas, finiranno per perdere i benefici che finora hanno conseguito. Si è visto in concreto che perfino degli intellettuali e dei tecnici membri del ceto delle ONG hanno cominciato a spiegare che la vittoria di «Hamas» non è stata così travolgente come si credeva; costoro si sono impegnati in analisi meticolose su ogni distretto elettorale, e hanno addirittura cominciato a fornire consigli e suggerimenti ai membri delle classi legate all’A. P. per aiutarli a indebolire Hamas. La classe degli uomini d’affari palestinesi a sua volta ha tenuto una riunione a Londra essenzialmente con lo scopo di far pressione su Hamas perché appoggi il «processo».

E così, non appena Hamas ha vinto le elezioni, i membri della classe politica hanno iniziato ad incontrarsi apertamente e segretamente con funzionari americani e israeliani per programmare insieme il sabotaggio dei vincitori delle elezioni. Questi programmi presto dovrebbero coinvolgere paesi arabi confinanti, impegnati come l’A. P. a servire gli interessi americani e israeliani. La classe politica dell’A. P. non si preoccupa più se il suo gioco diventa di pubblico dominio; questo spiega l’arresto spettacolare di un funzionario di Hamas per essere riuscito a portare a Gaza donazioni straniere, un delitto per cui non sarebbe certo stato arrestato se avesse seguito la corrotta tradizione dei dirigenti di Fatah e dell’A. P. che regolarmente rubano fondi pubblici palestinesi e li portano fuori da Gaza, piuttosto che dentro! La classe dei funzionari di polizia si è scatenata per re-imporre il suo potere, dimostrando così di essere niente altro che una banda di delinquenti pronti a reprimere, al servizio del processo di Oslo, tutti i palestinesi .

La burocrazia si è rifiutata di cooperare con i dirigenti di Hamas è ha cominciato a minacciarli rifiutandosi addirittura di farli entrare negli stessi uffici ministeriali che spettano loro di diritto. L’ultimo assalto agli uffici del primo ministro e alla sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah, e la loro distruzione col fuoco, è una chiara dimostrazione che queste tre classi create dall’A. P. faranno qualsiasi cosa pur di non perdere i benefici finanziari di Oslo.

Tutte le storie di decine di migliaia di impiegati palestinesi che non ricevono i loro stipendi per due mesi sarebbero state più commoventi per una popolazione palestinese se questa avesse avuto uno stipendio regolare. Dal momento che la maggioranza dei palestinesi, dall’inizio della seconda Intifada ad oggi, ha avuto entrate minime, quando le ha avute, la situazione degli impiegati dell’A. P. è stata vista, giustamente, come non eccezionale o più tragica di quella del resto della popolazione. In realtà è proprio lo scendere sullo stesso piano della maggioranza della popolazione palestinese (che con Oslo ha perso) che sembra irritare le classi legate all’A.P. che invece da Oslo hanno tratto beneficio. Queste ultime sono quindi determinate ad impedire ad ogni costo la perdita dei loro privilegi di classe.

La vittoria elettorale di Hamas sta quindi aiutando a unificare Fatah, partito che prima delle elezioni era lacerato da divisioni e lotte intestine, a tal punto che solo nel gennaio scorso si diceva tra alcuni elementi del partito che se Mahmoud Abbas avesse rimandato le elezioni, lo avrebbero assassinato. Abbas, che contrariamente ad Arafat, non ha molti sostenitori tra la gente o nel partito stesso, si ritrova con le mani più libere di assecondare i voleri degli americani o degli israeliani se questi gli assicurano la continuazione del «processo». Fatah ora si sta unendo intorno ad Abbas, proprio come egli si stringe a Fatah. Infatti Abbas ha di recente fatto pace con ciò che è rimasto dell’OLP – che proprio lui, come Arafat prima di lui, aveva contribuito a smantellare – vale a dire ha ricucito il rapporto con Farouq Qaddumi e Suha Arafat dopo mesi di rancori. Rimane poco chiaro tuttavia se l’A.P. ricomincerà a pagare a Suha e a sua figlia gli assegni multimiliardari in dollari che pagava prima. Anche il sedizioso Mohamed Dahlan, che vuole per sé tutta la torta, sta correndo al soccorso di Abbas.

E così, mentre da una parte egli consolida e accentra l’autorità nelle sue mani dalla prima volta da quando è al potere,  dall’altra ha creato recentemente una guardia pretoriana per rinforzare la sua sicurezza in quanto supremo guardiano (o dobbiamo dire padrino?) del «processo». Israele si è subito affrettato di mandare armi nei territori occupati per attrezzare questa nuova forza repressiva. Come risulta chiaro dalle dichiarazioni pubbliche di Abbas, le uniche volte che protesta contro gli israeliani è quando Ariel Sharon e in seguito Ehud Olmert minacciano di porre fine al «processo» con azioni unilaterali. Altrimenti, Abbas si è mostrato molto disponibile per qualsiasi proposta israeliana e americana.

Hamas, da parte sua, ha adottato una tattica che ci ricorda Salvador Allende. Come Allende, Hamas continua a insistere sulle regole democratiche, dal momento che i suoi oppositori malavitosi e banditeschi non pongono limiti alle loro azioni cospiratorie e traditrici. E’ certamente vero che l’assalto agli uffici di Ismail Haniyeh non ha l’ampiezza dell’attacco alla Moneda dell’11 settembre del 1973, ma i delinquenti vogliono per ora dimostrare che sono pronti a fare quello che fece Pinochet, per servire gli interessi di Fatah e quelli di Israele. Malgrado tutto ciò, Hamas sembra mostrare una strana reticenza. Hamas potrebbe, per esempio, arrestare l’intera alta dirigenza  (e buona parte di quella intermedia) di Fatah e dell’A.P. con l’accusa di corruzione e tradimento nazionale, fatti dei quali ci sono ampie prove documentarie, processandola in modo aperto e onesto. Potrebbe mobilitare la popolazione contro queste figure corrotte con dimostrazioni di piazza e attraverso i Media. Il fatto che non abbia intrapreso questa strada, sta a dimostrare che il suo impegno è quello di preservare una parvenza di pace e di rifiutarsi di rispondere alle provocazioni tese a scatenare una guerra civile che l’ormai sconfitta Autorità Palestinese vuole provocare come possibile via per  ripristinare il «processo».

Mentre l’Autorità Palestinese e le classi che ne hanno tratto beneficio combattono una battaglia per tenere in vita il «processo», gli israeliani hanno abbondantemente dimostrato che per quanto li riguarda il «processo» è finito da molto tempo. Per loro il processo di Oslo è stato solo un passo necessario ma storicamente limitato, finalizzato a cooptare la dirigenza palestinese, rafforzare la presa di Israele sulle terre rubate ai palestinesi ed infine normalizzare lo status diplomatico del paese con i paesi arabi e nel mondo in generale. Dal momento che gli israeliani hanno raggiunto tutti questi obiettivi, il processo non gli serve più. In questo momento, la loro perdurante campagna di bombardamenti per assassinare civili e politici sia favorevoli sia contrari al «processo», nella Cisgiordania e a Gaza, non mostra segni di voler diminuire di intensità. E’ ormai chiaro che dal momento che il processo di Oslo non ha fatto altro che portare disgrazie su disgrazie ai palestinesi, l’unica ragione per il suo mantenimento è quella di tenere in vita le classi e i ceti sociali legati all’A.P. che ne sono i principali e unici beneficiari.

Che nessuno si inganni, questa è la posta in gioco della battaglia che si sta svolgendo a Gaza e in Cisgiordania. Ciò che si sta decidendo è il destino di nove milioni di palestinesi.

J. Massad è professore associato di politica araba e storia del pensiero moderno alla Columbia University. Il suo libro, The Persistence of the Palestinian Question , è stato recentemente pubblicato da Routledge.

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