I SUICIDI DI MASSA :
LE RISPOSTE ALLA GLOBALIZZAZIONE E ALLA GUERRA

150 mila contadini indiani si sono tolti la vita in otto anni. Salgono a undicimila i militari americani suicidi in Iraq

di Lucio Manisco

21 novembre 2007

La globalizzazione porta sviluppo tecnologico e ricchezza, la guerra produce libertà, democrazia e benessere. Assiomi fantomatici del genere accettati come verbi rivelati da venti anni a questa parte vengono ora tragicamente e definitivamente demoliti da inconfutabili dati statistici sui suicidi di massa che l’una e l’altra provocano in un pauroso crescendo. Il ministero degli interni indiano ha comunicato che dal 1997 al 2005, 150 mila contadini si sono tolti la vita, due terzi negli stati agricoli di Maharashtra, Andhra Pradesh, Karnataka e Madhya Pradesh. Lo stesso ministero ha aggiunto che la tendenza ha subito una accelerazione dopo il 2005 e che i totali riguardano solo i proprietari di piccoli lotti agricoli e non i braccianti e le donne. Sempre la stessa fonte ha posto in evidenza l’uso dei pesticidi come metodo prescelto dai contadini per darsi la morte. Le cause più ovvie di una esasperazione portata al gesto ultimativo sono l’azzeramento degli investimenti governativi, il dilagare dello “agro business” e delle monoculture, il crollo dei prezzi e l’aumento dei costi, l’indebitamento accompagnato dal taglio dei piccoli crediti bancari, le importazioni sotto costo del cotone e di altri prodotti dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea grazie ai sussidi governativi degli esportatori, la crescente carenza di irrigazione dovuta non solo a cause climatiche ma al crescente consumo di questa risorsa vitale dovuto a industrializzazione, inurbanamento e vere e proprie malefatte delle multinazionali. Contrasta con questa desertificazione umana del settore agricolo il portentoso sviluppo tecnologico dell’India indicato come modello per l’intero mondo industrializzato da Federico Rampini ne “La Speranza Indiana”. Di questi modelli ne abbiamo avuti parecchi nell’ultimo quarto di secolo: basti pensare ai casi del Giappone e delle tigri asiatiche degli anni ottanta, oggi comodamente relegati in soffitta.

Veniamo ora alla guerra perpetua al terrorismo e a ben selezionati regimi dittatoriali che dovrebbe restituire a questi paesi democrazia e benessere: la verità è che sul campo i crociati della libertà non credono alla santità della loro missione, soffrono come bestie e ricorrono anche loro al suicidio come soluzione finale delle loro pene. Negli ultimi giorni, in seguito a un’inchiesta delle rete televisiva CBS, si è appreso che i militari americani suicidi sui campi di battaglia iracheno e afgano, o dopo il loro rimpatrio, nel solo 2005 sono stati 6.256 che vanno aggiunti ai 3.865 caduti sotto fuoco nemico per un gran totale di 10.121. Con il crescendo registrato negli ultimi due anni questo totale dovrebbe aver superato i 15.000. Ma sono in molti a dubitare dei dati forniti dal Pentagono e di quelli rivelati dalla CBS: in questo macabro bilancio non figurano i reduci che si sono tolti la vita a due anni dal loro rimpatrio come del resto non figurano dopo lo stesso periodo i militari deceduti per malattie o mutilazioni sui campi di battaglia. Prevale invece nelle analisi del Pentagono grande ottimismo per una modesta riduzione dei caduti dopo l’invio di altri 36 mila soldati a partire dal gennaio del corrente anno. Del “nation building”, dell’avvento della democrazia, della libertà e di nuovo benessere in Iraq ed Afghanistan non mette conto parlare.

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