La sinistra imperialista e il Libano

Per chi avesse letto l'ignobile articolo di Guido Caldiron di giovedì 3 marzo su Liberazione, che esalta i ragazzi di Beirut che manifestano contro i siriani, consigliamo la lettura dell'articolo di Stefano Chiarini che riportiamo di seguito. Ci sembra che la definizione di "sinistra imperialista" debba ormai entrare nel gergo politico dei compagni.

Prove Usa di guerra civile

Stefano Chiarini

Il Manifesto, 2 marzo 2005

Il presidente siriano Bashar al Assad in una intervista rilasciata ieri al settimanale Time ha sostenuto che le truppe siriane saranno fuori dal Libano «molto presto e forse nel giro di pochi mesi. Non oltre. La questione è tecnica, non politica. Ne devo parlare con l'inviato dell'Onu Terji Roed-Larsen, che sarà qui a marzo... dopo il ritiro dobbiamo proteggere le nostre frontiere: dobbiamo parlare delle nostre frontiere, perché quando Israele ci invase giunse molto vicina a Damasco». Il presidente siriano, a poche ore dalla consegna agli Usa del fratellastro di Saddam, Sabawi e di altri 29 esponenti dell'ex regime iracheno, e dalle dimissioni del premier libanese Karame, e a poche settimane dall'offerta ad Israele di riprendere le trattative sul ritiro delle forze di Tel Aviv dal Golan occupato, ha lanciato così un nuovo segnale di disponibilità ad una trattativa per una soluzione di pace regionale. Non sembra però che questo possa bastare a Bush, a Sharon e a Blair dal momento che il loro obiettivo non è una pace regionale, un Medioriente senza armi di distruzione di massa, ma piuttosto la balcanizzazione, dopo l'Iraq, anche dello stato unitario siriano, l'annessione definitiva ad Israele delle alture del Golan e della West Bank, un trattato di pace separato tra il Libano e Israele (come quello strappato al governo Gemayel dopo l'invasione del 1982), l'abolizione del carattere «arabo» del paese dei cedri (una delle bandiere questa delle destre cristiano-maronite), ed infine cancellare la variante dei profughi palestinesi dall'equazione mediorientale.

Per far questo gli Usa non cercano alcun accordo ma intendono spazzare via ogni ostacolo e distruggere qualsiasi forma e organizzazione della resistenza libanese, come gli Hezbollah (riusciti a cacciare dal Libano sia le truppe americane e francesi che quelle israeliane) e di quella palestinese, negando ai primi la possibilità di difendere la fascia di confine con Israele che controllano dal maggio del 2000 e ai secondi di potersi autogestire politicamente e socialmente e difendere con le armi i campi nei quali vivono in condizioni sub-umane oltre 350.000 profughi. Il disarmo degli Hezbollah - una forza «nazionale» libanese con oltre 14 deputati al parlamento e centinaia di amministrazioni locali - sarebbe infatti la precondizione per poter imporre al Libano una «pax israeliana» mentre quello della resistenza palestinese aprirebbe la strada alla distruzione dei campi profughi da sempre testimonianza del torto storico fatto al popolo palestinese. Non solo. L'eliminazione degli Hezbollah e della resistenza palestinese tenderebbe anche a dimostrare che davanti agli sciiti -in Libano e in Iraq e forse a Tehran- non resta altra via che quella della intesa con gli Usa, con la rinuncia a qualsiasi progetto «nazionale» o di «riscatto sociale», e che i palestinesi non avrebbero altra possibilità se non la resa all'apartheid di Sharon e la rinuncia ad uno stato sovrano nella West Bank e nella striscia di Gaza - con capitale Gerusalemme est - e al «diritto al ritorno» per i profughi. Strumento principe dell'operazione americana contro il Libano e la Siria è la strumentalizzazione delle differenze etniche e religiose (istituzionalizzate dai francesi in Libano dopo il 1850 e dagli Usa in Iraq nel 2003) con il rischio di gettare di nuovo il Libano nell'inferno della guerra civile «congelata» nel 1990: destre cristiano-maronite da una parte e sciiti dall'altra con i feudatari drusi oscillanti tra i due campi e i sunniti ultradivisi al loro interno. Le carte sono già sul tavolo e gli incidenti a Tripoli tra i seguaci di Karame e di Hariri, le accuse ai palestinesi di «quinta colonna dei siriani», i roghi delle bidonville dove vivono gli oltre 700.000 immigrati siriani addetti ai lavori più umili e sottopagati, stanno lì a testimoniare che le polveri sono già tremendamente asciutte.

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