«In Kosovo c'è solo odio»

Intervista a Peter Handke

 

«Senza il coinvolgimento nelle ferite dei Balcani non sarei un vero scrittore» «Niente diritti umani, né garanzie democratiche. Ai serbi rimasti non è permesso neanche il culto dei morti, vivono nel terrore. E l'Ue, guidata dallo sloveno Janez Janza, primo criminale del dramma jugoslavo, riconoscerà l'indipendenza, altrimenti gli albanesi minacciano una nuova guerra»

Tomaso Di Francesco


Guardingo ma sincero, Peter Handkeci riceve nella sua casa all'estrema periferia di Parigi. Diafano, alto e ossuto, con la camicia bianca che indossa e con cui ci viene incontro nonostante il freddo, sembra uno degli angeli del «Cielo sopra Berlino», il film di Wim Wenders di cui ha scritto la sceneggiatura. Da molti anni vive lì, è spuntato da quelle parti come uno dei funghi che cerca nel bosco vicino casa nelle sue lunghe passeggiate. È il più politicamente scorretto degli scrittori, praticamente perseguitato dalle istituzioni culturali del mondo, come quando due anni fa in Germania venne annullato il conferimento del premio «Heinrich Heine» o subito dopo in Francia la Comédie française ha fatto togliere dal cartellone una sua commedia. Inoltre solo due mesi fa Handkeha vinto una causa per diffamazione contro il Nouvel Observateur che aveva scritto, mentendo, che lui aveva deposto una rosa rossa sulla tomba di Milosevic. Qual è la sua colpa? Peter Handkeè accusato di essere filoserbo, adesso, durante i sanguinosi bombardamenti «umanitari» della Nato sull'ex Jugoslavia e nel periodo della guerra interetnica. Lo incontriamo mentre si prepara a partire per un nuovo «viaggio in inverno» in Serbia dove parteciperà al Festival delle Scuole di cinematografia che si svolge nella città del cinema voluta da Emir Kusturica a Mokra Gora, mentre infuria lo scontro sullo status del Kosovo e tutti aspettano le elezioni presidenziali a Belgrado del 20 gennaio prossimo.

Il neopremier kosovaro albanese Hashim Thaqi ha annunciato che tra qualche settimana proclamerà l'indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Ma esistono in Kosovo, dopo otto anni di occupazione Nato e amministrazione Unmik-Onu, le condizioni previste per una indipendenza, vale a dire garanzie democratiche, rispetto delle minoranze e dei diritti umani?

Io non conosco queste condizioni. Ero in Kosovo ad aprile e ci sono stato altre quattro volte recentemente. Sono rimasto veramente impressionato da quel che ho visto nell'enclave di Veliha Hoca, un villaggio con una grande chiesa ortodossa, e poi a Orahovac. Sono due enclave vicine e là si capisce come vivono i serbi, come sono occupati, espropriati di ogni possedimento, costretti a uscire solo alle quattro di mattina, sempre terrorizzati. La Suddeutsche Zeitung, parlando di un'enclave serba, ha scritto incredibilmente: «I serbi pretendono di avere paura». Ecco l'ideologia, il giudizio precostituito. No, i serbi non «pretendono di avere paura», semplicemente vivono nel terrore e hanno subìto tante uccisioni in questo periodo. Lì non ci sono più cimiteri serbi fuori dei villaggi come ovunque in Serbia. A Orahovac i cimiteri sono stati spostati al centro dei villaggi, dentro l'enclave e gli autobus che ogni tanto arrivano da Mitrovica devono stare attenti a non distruggere le nuove tombe. Perfino l'ordinario culto dei morti è impossibile, chi lo esercita può venire ucciso e le stesse lapidi vengono spesso distrutte. Ho visto solo odio in Kosovo. È la Nato ad aver creato questa situazione tragica e insopportabile, la Nato che ha bombardato tutta l'ex Jugoslavia. E ora la Nato e l'Unione europea insistono che bisogna concedere l'indipendenza perché, altrimenti, sennò gli albanesi kosovari uccidono ancora e minacciano una nuova guerra. Ma come si fa a meritare l'indipendenza non per un diritto ma perché si minaccia violenza e un'altra guerra? Quale argomento democratico è questo che viene portato da Europa e Stati uniti? Tantopiù che non hanno mai smesso in questi otto anni di uccidere e terrorizzare. Basta vedere solo un simbolo serbo, un autobus o un pullman che si avvicina ai monasteri più belli d'Europa come Decani o Gracanica, che anche i bambini, in modo automatico, lanciano pietre. I serbi sono ridotti a un gregge di pecore smarrite e impaurite. Hanno parlato della violenza dei serbi contro gli albanesi, ma hanno taciuto in tutti questi anni centinaia e centinaia di uccisioni e la distruzione dei monasteri. Hanno raccontato che i serbi volevano cacciare due milioni di albanesi, per quello è stata giustificata la guerra di bombardamenti aerei. Hanno fatto un gran teatro intorno alla frontiera buono per le troupe televisive del mondo, per la propaganda della Nato. Quei rifugiati, per gran parte in fuga per la paura dei bombardamenti aerei, si sono sistemati appena al di là della frontiera macedone e sono tutti rientrati dopo due mesi. Così hanno inventato una nuova maledetta guerra di foto e servizi tv. Sono stato nel 1996 a Decani a fare una lettura e davanti al monastero allora non c'erano le truppe italiane che ora lo proteggono, lì vicino c'era una sola trattoria serba e non volevano andarsene. Dentro c'erano tracce di un attacco dell'Uck dove era stata uccisa una donna albanese: cinque minuti prima sulla strada le case albanesi avevano spento all'improvviso le luci. Anche i serbi hanno commesso crimini, ed è stata una vergogna per quel popolo e chi lo dirigeva. Ma nessuno descriveva una guerra interetnica, nessuno parlava di questi attacchi armati contro i serbi e gli stessi albanesi moderati da parte dei «guerriglieri della libertà». A pochi giorni dalla guerra della Nato Le Monde e anche molti giornali di sinistra, titolavano «Terrore in piena Europa, 50mila vittime». C'erano tante vittime, ma dell'una e dell'altra parte e molte di albanesi moderati uccisi dall'Uck. Alla fine il Tribunale dell'Aja ha trovato la sepoltura di duemila corpi, perlopiù caduti in combattimento. Ma non le cinquantamila o le «cinquecentomila» vittime con cui titolò nel 1999 il New York Times.

La stessa Corte suprema di Pristina il 6 settembre 2001 ha riconosciuto in una sentenza importante che ci furono violenze dei miliziani serbi ma non un «genocidio», dichiarando nel dispositivo processuale di avere le prove che la fuga di ottocentomila albanesi era motivata dalla paura dei bombardamenti della Nato, che infatti fecero massacri - gli «effetti collaterali» - tra la stessa popolazione albanese. Poi c'è il leader Uck Ramush Haradinaj: la stessa Carla Del Ponte ha detto che è un «macellaio in divisa» e lo ha incriminato per stragi contro serbi e rom del 1998 (prima della messa in scena di Racak). E adesso l'Unione europea è pronta a riconoscere l'indipendenza etnica del Kosovo sotto la guida di Janez Jansa, ora premier della Slovenia presidente di turno Ue, che vanta una «conoscenza del problema»...

Fa bene Janez Jansa a vantare collegamenti con l'Uck, lui è tra i più grandi criminali che i Balcani abbiano mai conosciuto. Lui che si gloria della «guerra patriottica», che non ha esitato ad uccidere a freddo 20 soldati di leva jugoslavi - molti sloveni - che aspettavano su un camion militare, assassinati come cani. Con la motivazione di costruire una nuova Mitteleuropa. Che è una straordinaria regione culturale, poetica e musicale, ma usare la motivazione della musica come base di un'aggressione armata mi pare sia perlomeno un'offesa all'esistenza di Schubert. Janez Jansa è stato l'avanguardia della tragedia jugoslava, che io ho tentato di denunciare subito nel 1991.

Non le sembra che l'Unione europea, responsabile insieme ai vari nazionalismi armati della distruzione della Federazione jugoslava già nel 1991 con i riconoscimenti di indipendenze proclamate su base etnica - «slovenicità» e «croaticità» - ora torni sul luogo del delitto riconoscendo un'altra indipendenza etnica, quella del Kosovo?

Non si salva nessuno. Forse l'Austria, ma è sempre un sapere revanscista. Come per la Germania. E' la consapevolezza della diplomazia, che Fernand Braudel chiamava «lunga durata», perché resta la coscienza della prima e della seconda guerra mondiale. Il resto, francesi e inglesi, sono stati completamente ignoranti dei Balcani. Come tutti gli esperti guerrafondai arrivati in tv a dire «sentite me, io sono l'esperto». Sono la peste dei Balcani.

Eppure tutti questi «esperti» e questi media hanno finora taciuto l'odissea di un milione di profughi serbi, cacciati dalle Krajine croate, dalla Bosnia Erzegovina e dal Kosovo. Profughi che non torneranno più nelle terre d'origine e che costituiscono un dramma per la nuova Serbia. Perché questo silenzio? E tantomeno si parla dei rom kosovari dispersi ormai nelle baraccopoli dei Balcani e in quelle d'Europa...

Nei miei «viaggi in inverno», sono stato molte volte negli hotel che ospitano i profughi, a Nikotin, Friska Gora, Bor, Nis. Ho scritto un grande reportage chiedendo fra l'altro ai giornalisti di raccontare i profughi serbi. Quando entri in uno di quegli hotel vedi gente seduta in terra sulle sue gambe, tutto il giorno inebetita, finché non decide di bere alcool. Con le donne anziane che cercano di salvare la loro dignità e quella dei bambini intorno. Aspettano di morire o di fuggire, vivono come gli emigrati del secolo scorso in America. E nonostante questo ci sono dei giovani che dipingono, per mangiare e per descrivere esistenzialmente quello che sono diventati. Se fossi un giornalista vivrei mesi con quella gente, come faceva Ryszard Kapuscinski. Non lo fa nessuno. In Germania ci sono borse di studio in alcune città per i giovani scrittori perché come ospiti descrivano quelle realtà per un anno. Ho proposto: mandiamoli un mese tra i profughi serbi. Nessuno scrittore si è fatto avanti, preferiscono avere duemila euro di premio per parlare di cucina. Comincio a detestare i giovani scrittori.

Lei è stato accusato d'avere portato una rosa rossa sulla tomba di Milosevic e di avere approvato il massacro di Srebrenica?

È una menzogna assoluta. Il Tribunale di Parigi ha condannato il Nouvel Observateur per diffamazione per queste affermazioni: m'avevano attribuito che io avevo dichiarato d'essere felice solo vicino a Milosevic. Chi mi conosce sa che odio tutti gli uomini di potere. Ma naturalmente tutti i giornali francesi hanno oscurato la condanna. Hanno fatto la campagna contro di me arrivando al risultato della Comédie française che ha annullato un mio lavoro in programma, e poi hanno taciuto che non era vero quello che avevano detto. Amo profondamente la Francia di George Bernanos, di François Mauriac, e soprattutto di Albert Camus ma la cultura di questa Francia è veramente vergognosa. Ci sono ormai le caricature della letteratura e della filosofia come André Gluksmann, Bernard-Henri Lévy, e le macchiette del diritto internazionale e dell'umanitario come Bernard Kouchner, diventato nel frattempo ministro degli esteri. Quanto a Srebrenica hanno fatto la caricatura delle mie parole. Io ho condannato i crimini commessi dai serbi, ho ricordato però che tutto è incomprensibile se non si ricordano le stragi, anche di donne, vecchi e bambini - non come a Srebrenica - perpetrate prima dalle milizie bosniaco musulmane guidate dal comandante di Srebrenica Naser Oric nei villaggi intorno a Srebrenica, a Kravica, a Bratunac. Fatte con l'autorizzazione del presidente Izetbegovic. Era una feroce guerra interetnica e interreligiosa da denunciare tutta quanta.

Non pensa di avere sbagliato ad andare nel 2006 al funerale di Milosevic morto nel carcere dell'Aja?

Non ero invitato e potevo starmene a casa. No, mi sono detto, devo andarci anche se sarà dannoso per me. E infatti hanno subito fatto tsunami contro di me falsando ogni mia parola. Sono riconoscente ai miei libri, ma sono fiero di questa scelta. E' una testimonianza che aiuta anche la nuova Serbia, quella che ora si batte perché il Kosovo non venga sottratto alla sua sovranità, storia e cultura. Così come sono fiero di essere andato prima all'Aja, non per riverire Milosevic, non mi interessava nulla di lui come uomo di potere. So che anche i serbi hanno commesso crimini, che non difendo. Insisto a denunciare la natura di una guerra complessivamente fratricida. Sono andato all'Aja perché era ancora in carcere accusato di tutto e come unico colpevole della guerra dei Balcani che ha visto, dal 1991 al 1995 e poi dal 1996 al 2002, ben sette fronti di guerra, e alcuni con Milosevic non ancora al potere o non più al potere, quando non addirittura coinvolto a sancire la pace, com'è accaduto a Dayton per la Bosnia Erzegovina, con tanto di ringraziamenti Usa. Sono andato all'Aja soprattutto perché penso che il politico in carcere sia molto più interessante di quando comanda. Del resto ero in buona compagnia con l'ex ministro della giustizia statunitense, Ramsey Clark.

Che accadrà, subito nei Balcani, con la proclamazione d'indipendenza del Kosovo?

Non so quanto reggerà l'artificio della Bosnia Erzegovina, né che cosa accadrà nella zona serba di Kosovska Mitrovica, così ben tenuta e produttiva rispetto al disastro economico del resto del Kosovo dove regnano disoccupazione, mafia e dominio degli «aiuti internazionali». E che accadrà in Macedonia con l'esistenza di ben due stati albanesi nell'area? Penso alle gravi responsabilità dell'albanese Ismail Kadaré, non un grande, un buon scrittore. Ma soprattutto un ipernazionalista che ha soffiato sul fuoco della guerra etnica. L'ho incontrato e gli ho detto del mio amore per lo scrittore jugoslavo Ivo Andric e del suo coraggio di uomo libero. Mi ha risposto con una menzogna: non dovevo amare Andric perché era «contro gli albanesi».

Perché uno scrittore come lei, che continua il lavoro sul dolore di vivere che è stato di Franz Kafka, mostra di essere così implicato nelle ferite dei Balcani?

La mia vita di scrittore vivrebbe davvero piccole emozioni senza questa passione. Scrivere è una professione molto nobile, ma se non mi fossi così coinvolto, mischiato nel conflitto jugoslavo non avrei meritato d'essere ancora uno scrittore. Sono fiero di avere scritto sui profughi serbi. Penso che la letteratura, come dico di Erri De Luca, deve essere misericordiosa. Sennò non avrei alcun diritto ad essere scrittore.

«Merita il Nobel»
Narratore «scorretto», tra avanguardia e ritorni

È nato a Griffen, in Austria, nel 1942 da madre slovena. Scrittore, drammaturgo e poeta, è impegnato negli anni Sessanta con l'avanguardia. Scrive «L'ambulante», «Insulti al pubblico», «Kaspar». Poi con «L'angoscia del portiere prima del calcio di rigore», ('70), torna a una narrativa meno sperimentale. Collabora con Wim Wenders, che trae un film dal suo «Tre Lp americani», sceneggiando «Il cielo sopra Berlino». Tra i suoi romanzi: «Infelicità senza desideri» ('72) «Breve lettera di un lungo addio» ('72), L'ora del vero sentire ('75), «La donna mancina» ('76). Nel '95 esce il saggio «Un viaggio in inverno» contro i pregiudizi antiserbi, e nel '99 un saggio per la guerra in Kosovo. Nel 2004 quando a Elfriede Jelinek venne dato il Nobel, la scrittrice austriaca dichiarò: «Non io ma Peter Handke l'avrebbe meritato».

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