Non c'è posto nella fortezza Israele per i non-ebrei
Un bando israeliano ai matrimoni chiude le porte ai palestinesi

Jonathan Cook

Counterpunch, 19 Maggio 2006


Approvando un efficace bando ai matrimoni tra israeliani e palestinesi questa settimana, la Suprema Corte di Israele ha chiuso ancora di più le porte di quella fortezza ebraica che lo stato di Israele sta rapidamente diventando. La decisione dei giudici, secondo le parole del solitamente moderato quotidiano del paese, Haaretz, è stata «vergognosa». La più alta corte del paese ha stabilito, con una sottilissima maggioranza, che un emendamento alla Legge sulla Nazionalità, approvato nel 2003, il quale impedisce a palestinesi di vivere in Israele con un marito o una moglie israeliani – ciò che in linguaggio legale è definito «ricongiungimento familiare» -- non viola i diritti inscritti nelle Leggi Fondamentali del paese.

Ed anche se lo facesse, ha aggiunto la corte, il danno causato alle famiglie separate è inferiore ai benefici di una maggiore «sicurezza». Israele, concludono i giudici, ha sufficienti giustificazioni per chiudere le porte della residenza a tutti i palestinesi in modo da bloccare l'entrata a quei pochi che potrebbero usare il matrimonio come mezzo per lanciare attacchi terroristici. Le richieste di ricongiungimento familiare in Israele vengono immancabilmente da palestinesi dei territori occupati che sposano palestinesi, spesso amici o parenti, con cittadinanza israeliana. Un cittadino di Israele su cinque è di origine palestinese, una minoranza che riuscì a restare all'interno dello Stato ebraico durante la guerra del 1948 dalla quale nacque Israele e a cui ci si riferisce di solito col termine di arabi israeliani.

Siccome non c'è principio di uguaglianza nella legge di Israele, i gruppi per i diritti umani che sfidarono l'emendamento del governo del 2003 furono costretti a sostenere che esso violava la dignità delle famiglie. Coppie miste di israeliani e palestinesi non solo non hanno la possibilità di vivere insieme in Israele, ma viene loro negata anche una vita coniugale nei territori occupati, dai quali i cittadini israeliani sono banditi dai regolamenti militari. La maggior parte dei giudici, comunque, è sembrata incapace di afferrare questo semplice questione. In una delle prime udienze, il giudice Michael Cheshin pretese che le coppie miste che volevano mettere su famiglia “avrebbero dovuto andare a vivere a Jenin”, città palestinese nella West Bank, assediata dai mezzi corazzati israeliani. Lo stesso Cheshin ha dimostrato ancora una volta, la settimana scorsa, di avere una logica degna di un altro mondo, quando ha giustificato il punto di vista di maggioranza dei suoi colleghi: “A fondamento di questo provvedimento c'è il diritto dello Stato di non permettere ai residenti in un paese nemico di entrare nel suo territorio in tempo di guerra”. Il problema è però che i palestinesi non sono un'altro «paese», sia esso nemico o non; sono invece un popolo che ha vissuto sotto occupazione militare israeliana per quasi quattro decenni. Quale forza occupante, Israele è responsabile del loro benessere, sebbene esso sia riuscito a scaricare felicemente questo fardello su attori internazionali con tasche più capaci. E l'idea che i palestinesi, che non hanno esercito, stiano conducendo una guerra contro Israele, una delle potenze militari più forti del mondo, porta il senso della parola guerra nel regno del doublespeak [1]. I palestinesi stanno resistendo all'occupazione israeliana -- alcuni con la violenza, altri senza -- come hanno il diritto di fare in base al diritto internazionale. Pochi osservatori in Israele, comunque, credono che il governo abbia approvato la Legge del 2003 per ragioni di sicurezza. Dei 6.000 palestinesi a cui è stato accordato il diritto di residenza in Israele durante il periodo di Oslo, a un piccolissimo numero – a solo 25 di essi -- è stato contestato il suddetto diritto per motivi di sicurezza; questo risulta dalle cifre che il governo ha accettato, con riluttanza, di pubblicare durante l'esame della questione. Quante di queste 25 persone siano effettivamente risultate implicate in attacchi non è dato sapere. La vera ragione della legge deve essere cercata altrove. Essa nasce dallo stesso impulso che ha portato Israele al «disimpegno» dal milione e 300.000 abitanti palestinesi di Gaza lo scorso anno e che ora spinge il governo a «consolidare» i grossi blocchi delle sue colonie in Cisgiordania dietro il muro il cui unico scopo è di annettere terra palestinese ma non i palestinesi.

Il bando ai matrimoni e la fissazione delle frontiere finali sono frutto di un'unica visione di principio: la conservazione di Israele come stato ebraico con una “massiccia maggioranza ebraica”, secondo la sintetica formula che l'ex primo ministro Ariel Sharon pronunciò prima del ritiro da Gaza. Anteriormente alla sua modifica, il provvedimento riguardante il ricongiungimento familiare della Legge sulla Nazionalità, offriva ai palestinesi dei territori occupati l'unico modo per diventare cittadini israeliani. Ma se Israele sta costruendo i suoi muri per edificare uno Stato ebraico più grande, una vera e propria fortezza etnica, è difficile che lasci socchiusa la porta sul retro in modo che i palestinesi conseguano ciò che gli israeliani vedono come un «diritto al ritorno» in Israele, attraverso il matrimonio. Il ministro degli interni si è impegnato al massimo per alimentare una isteria razzista e demografica e ha gonfiato le cifre per suggerire che, nel decennio trascorso, più di 100.000 palestinesi dei territori occupati hanno ottenuto la cittadinanza israeliana attraverso il matrimonio. In verità, il numero reale corrisponde a poche migliaia. Se però i giudici si sono sentiti troppo imbarazzati nell'ammettere che alla base della modifica della Legge sulla Nazionalità vi erano preoccupazioni di tipo demografico, non è stato così per tanti altri in Israele. Un editoriale del Jerusalem Post di questa settimana ha ammesso che gli argomenti fondati sulla sicurezza a cui è ricorso il governo sono “deboli”, osservando invece: “Israele è apertamente minacciato di distruzione -- non solo fisicamente, da una potenziale capacità nucleare iraniana, ma anche demograficamente, dalla rivendicazione palestinese del loro «diritto al ritorno»”. Yoel Hasson appartenente al partito di governo Kadima ha salutato la decisione della corte come “una vittoria per coloro che credono in Israele come stato ebraico”, mentre il ministro incaricato dell'assorbimento dell'immigrazione, Zeev Boim, ha aggiunto: “Dobbiamo mantenere la natura democratica dello stato, ma anche la sua natura ebraica. Il numero di palestinesi che entrano in Israele [col ricongiungimento familiare] è intollerabile”. Il divieto del governo riguardo al ricongiungimento familiare tra palestinesi e israeliani/e rimane per il momento una misura temporanea (della durata di tre anni) ma è probabile che diventi definitiva dato che la corte gli ha dato la sua benedizione.

Questa settimana il ministro della giustizia Haim Ramon ha dichiarato di voler fare approvare una nuova Legge Fondamentale in modo da bloccare per sempre l'acquisizione della nazionalità israeliana ai palestinesi, e possibilmente anche ad altri non-ebrei. Questa politica è in linea con le raccomandazioni della commissione Rubinstein, nominata dal governo e presieduta dal maggiore esperto costituzionalista israeliano, Amnon Rubinstein,, la quale ha elaborato una proposta politica riguardante l'immigrazione dei non-ebrei. Nel suo rapporto, pubblicato nel mese di febbraio, la commissione ha proposto limitazioni draconiane al diritto di acquisizione della cittadinanza israeliana attraverso il matrimonio. (Tutti gli Ebrei, nel frattempo, continueranno ad avere pieno titolo alla cittadinanza, per merito di un'altro gruppo di provvedimenti, quelli che costituiscono la famosa Legge del Ritorno, una legge apertamente discriminatoria). Secondo le raccomandazioni di Rubinstein, i palestinesi e i residenti di Stati «ostili» (leggi arabi) che sposano israeliani/e (leggi cittadini/e palestinesi di Israele) saranno privati del diritto di residenza e di cittadinanza in Israele. Altri coniugi non-ebrei (leggi principalmente Europei e Americani) dovranno possedere requisiti di età e di reddito e dovranno fare un giuramento di fedeltà -- non ad Israele si badi bene, ma ad Israele come stato ebraico e democratico. Secondo l'attuale politica israeliana, è assai improbabile che i non-ebrei possano ricevere la cittadinanza ma possono vedersi riconosciuto diritto di residenza in Israele. Come ha commentato su Ha'aretz un navigato osservatore israeliano, Shahar Ilan: “Non ci sono, indubbiamente, altri argomenti intorno a cui si coaguli il consenso del sistema politico [israeliano] come intorno alla chiusura delle porte al ricongiungimento familiare [dei non-ebrei]”. Simili cambiamenti trasformeranno Israele in qualcosa di diverso da qualsiasi altro Stato moderno. Nel 1980, al culmine dell'apartheid in Sud Africa, i tribunali del paese rifiutavano di approvare leggi molto simili a quella che nega in Israele i ricongiungimenti familiari, sostenendo che esse negavano il diritto ad una normale vita familiare. In Israele, invece, con la prospettiva dell'approvazione di una nuova ondata di leggi razziste, nessuno -- nemmeno la «liberale» Corte Suprema della nazione -- è disposta a salvaguardare i più fondamentali diritti della gente nativa del paese.

[1] Termine inventato da George Orwell nel suo romanzo 1984 per indicare il linguaggio della doppiezza della dittatura, per cui si ricorre ad ossimori per confondere le idee. Un esempio usato da Orwell è il famoso "guerra è pace e pace è guerra", ndt) [indietro]

Tradotto dall'inglese da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (tlaxcala@tlaxcala.es). Questa traduzione è in Copyleft.

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