Solo per gli arabi:
la Legge e l'Ordine israeliani

Jonathan Cook

Counterpunch, 14 giugno 2006


Immaginate il seguente scenario. Un palestinese armato di mitra sale su di un autobus in Israele che porta alla città di Netanya. Quasi alla fine del percorso, si avvicina all'autista, solleva il suo fucile automatico contro la testa dell'uomo e gliela riempie di proiettili. Si gira e svuota l'intero caricatore – uno dei 14 che si è portato nello zaino – sul passeggero che siede dietro l'autista e su due giovani donne che siedono appena dopo. Mentre i passanti in strada guardano terrorizzati, il nostro uomo col mitra ricarica l'arma e sventaglia l'autobus con altre pallottole, ferendo 20 persone. Si avvicina ad una donna che cerca di nascondersi accucciata dietro un sedile, abbassa la canna dell'arma in direzione della sua testa e preme il grilletto. Il caricatore è ormai vuoto. Mentre cerca di inserire un nuovo caricatore, la donna afferra la canna rovente dell'arma, allora altri passeggeri accorrono in soccorso. Cogliendo l'occasione, i passanti si precipitano nell'autobus e infiammati da un turbine di passioni – furia, indignazione e paura di altri attacchi – picchiano l'uomo a morte. La notizia si diffonde ma la televisione israeliana continua a trasmettere una partita locale di calcio senza riportare la strage. In seguito, quando i vari canali televisivi si decidono a dare la notizia, cominciano col mostrare l'immagine dell'uomo col fucile con in sovrimpressione la scritta «Dio benedica la sua anima» -- esattamente come farebbero con una vittima di un attacco terroristico. Il Primo Ministro denuncia al mondo l'uomo col fucile come terrorista, ma malgrado ciò, nel paese, i Media e la polizia si concentrano sulla «folla scalmanata» che lo ha linciato. La polizia inizia un'inchiesta segreta che dopo 10 mesi porta all'arresto di sette uomini accusati di averlo ucciso, con la prospettiva di ulteriori arresti. Un portavoce della polizia descrive il comportamento degli arrestati come «assassinio a sangue freddo» dell'uomo col fucile. Fantasioso? Ridicolo?

Ebbene, questi avvenimenti hanno realmente avuto luogo in Israele nel corso dell'ultimo anno – con la differenza che la località in cui sono avvenuti non è la città ebraica di Netanya, ma la città araba di Shafa'amr in Galilea; l'uomo armato di mitra non era un palestinese ma un soldato israeliano che ha usato il suo M-16 di ordinanza, e le vittime non erano ebrei israeliani, ma arabi israeliani. Adesso si capisce il senso della storia. L'uccisione di quattro palestinesi cittadini di Israele da parte del soldato 19enne Eden Natan Zada poco prima il ritiro da Gaza, cioè il 4 agosto dello scorso anno, è stato tranquillamente dimenticato dal mondo. Dopo la sepoltura delle vittime arabe, l'unico problema che interessava gli israeliani era sapere chi aveva ucciso Zada. Ieri, sembra che abbiano risolto il problema: sette uomini di Shafa'amr sono stati arrestati dalla polizia israeliana per essere sottoposti a giudizio per il loro assassinio «a sangue freddo». Nessuno si preoccupa che lo Stato si sia disinteressato delle famiglie dei morti di Shafa'amr, alle quali è stato negato il pagamento dei sostanziosi compensi che ricevono le vittime israeliane del terrore palestinese. Un comitato ministeriale ha stabilito che, siccome Zada era un soldato in servizio, il suo attacco non poteva essere considerato un incidente terroristico. Evidentemente solo gli arabi possono essere dei terroristi. Fino ad oggi lo Stato non ha dato alle famiglie nemmeno un centesimo del compenso automaticamente versato alle famiglie ebraiche. Non c'è stata nessuna inchiesta per stabilire perché a Zada, molto noto per le sue idee estremiste, era stato permesso di assentarsi dalla sua unità, senza permesso, per settimane, e senza che nessuno si preoccupasse di rintracciarlo. O perché dalle autorità erano stati ignorati i ripetuti avvertimenti della famiglia di Zada che cioè egli aveva minacciato di fare qualcosa di «terribile» per fermare il ritiro da Gaza. Nessuno si era chiesto perché, pochi giorni prima del suo attentato, la polizia aveva respinto Zada, che aveva cercato di consegnare la sua arma. Cosa ancora più sconvolgente, nessuno si era mai preoccupato del fatto che Zada, il quale tutti sapevano appartenesse al Kach, movimento razzista fuorilegge che chiede l'espulsione, per non dire lo sradicamento, degli arabi dalla Terra Santa, era stato autorizzato a servire nell'esercito. Come mai a Zada e a migliaia di altri sostenitori del Kach è stato permesso di diffondere le loro oscene posizioni? Perché questi attivisti del Kach, per lo più giovanissimi israeliani, hanno potuto dimostrare apertamente contro il ritiro da Gaza, assaltando poliziotti e soldati, sebbene il gruppo sia illegale e clandestino? E perché dopo l'attentato le autorità non hanno fermato e interrogato gli amici del Kach di Zada della colonia di Tapuah in Cisgiordania? Come mai il loro possibile coinvolgimento nell'organizzazione dell'attentato non è mai stato preso in considerazione, e nemmeno il loro eventuale ruolo d'incitamento? Il fatto è che le autorità israeliane volevano che Zada fosse considerato un pazzo solitario – come, prima di lui, Baruch Goldstein, il medico dell'esercito che, nel 1994, aprì il fuoco nella città palestinese di Hebron, uccidendo 29 musulmani che pregavano alla Tomba dei Patriarchi e ferendone altri 125. Sebbene l'allora primo ministro, Yitzhak Rabin, definì Goldstein una «erba infestante», dopo la sua morte gli fu costruito nella colonia di Kiryat Arba un parco con monumento funebre, dove egli è ancora venerato come un «santo» e come «uomo giusto e santo». Ben lungi dall'essere un luogo abbandonato, il suo monumento funebre attrae migliaia di ebrei israeliani che si riuniscono nel centro del territorio palestinese per onorarlo. Invece di andare a snidare e sradicare questa crescente tendenza di fondamentalismo ebraico, dopo l'attentato terroristico di Shafa'amr, Israele ha sostenuto che la priorità doveva essere quella di trovare e punire gli uomini che avevano ucciso Zada. Era una faccenda di rispetto della legge e dell'ordine, ha affermato Dan Ronen, il comandante della forza di polizia del nord. Alla stampa ebraica egli ha detto: “Malgrado le sensibilità, la gente non può fare ciò che ritiene opportuno, in un paese dove vige la legge e l'ordine. Spero che gli arabi mostreranno maturità e sensibilità”. Dai cittadini di Shafa'amr e da oltre 1 milione di cittadini palestinesi del paese, questo viene visto come l'applicazione oltraggiosa di due pesi e due misure. L'applicazione della legge non è mai stata una preoccupazione importante quando coloro che la violano sono ebrei e le vittime arabe, anche se i fatti di sangue avvengono all'interno di Israele.

I cittadini arabi non hanno dimenticato il massacro di 49 persone, donne e bambini, da parte di un'unità dell'esercito che, nel 1956, impose un coprifuoco dell'ultimo minuto (senza avvertimenti e preannuncio, ndt) sul villaggio israeliano di Kfar Qassem, assassinando, uno ad uno, gli abitanti del villaggio – tutti arabi naturalmente – al posto di blocco mentre essi se ne tornavano innocentemente a casa dopo una giornata di lavoro nei campi. Durante il loro processo, il giornale Ha'aretz riportò che i soldati avevano ricevuto un aumento di paga del 50% e che ovviamente erano stati «trattati da eroi, non certo da criminali». Il comandante, ritenuto colpevole di un «errore amministrativo», era stato multato di una somma corrispondente a 2 centesimi. E, ancora, nessuno fu ritenuto colpevole quando 6 cittadini arabi di Israele, disarmati, furono uccisi dai servizi di sicurezza nella città di Sakhnim, in Galilea, nel 1976, mentre protestavano contro un altra ondata di confische di terra fatte ai danni delle comunità rurali arabe. Il primo ministro di allora, il famoso Rabin, si rifiutò addirittura di aprire un'inchiesta. Circa 25 anni dopo, un'inchiesta fu invece aperta sull'uccisione da parte della polizia di 13 arabi disarmati in Galilea. Ciò accadeva nell'ottobre del 2000, durante una protesta contro l'uccisione di palestinesi presso il Nobile Santuario di Gerusalemme (Spianata delle Moschee, ndt) – strage che segnò l'inizio dell'Intifada. 6 anni dopo, a conclusione dell'inchiesta, nessun poliziotto è stato incriminato per quelle morti pur avvenute nello stato di Israele. Non sono stati puniti nemmeno quei comandanti che illegalmente autorizzarono l'intervento di un'unità anti-terrorismo di cecchini contro i dimostranti armati solo di pietre. I cittadini arabi di Israele conoscono anche troppo bene la storia della «faccenda dell'autobus 300», del 1984. Allora 2 palestinesi armati provenienti dai territori occupati furono catturati in Israele dopo aver dirottato un autobus. Furono condotti via in manette dai servizi di sicurezza dello Shin Bet, in seguito fu rivelato che i due uomini erano morti. Nessuno fu mai incriminato per il loro omicidio, sebbene si sapesse diffusamente chi li avesse uccisi e sebbene in seguito un alto personaggio dello Shin Bet, Ehud Yatom, ammise di aver fracassato il cranio dei 2 con una pietra. Nel 1986, per prevenire la minaccia di incriminazione, il presidente di allora, Chaim Herzog, emanò un'amnistia totale per tutti gli agenti dello Shin Bet coinvolti.

Ora Tornando alla storia di Zada, se si dimostra che egli fu ucciso dopo che la folla aveva saputo che si era cercato in qualche modo di impedirgli di fare quello che ha fatto, allora si proceda pure; altrimenti si deve assolutamente tener conto di tutti quei precedenti storici – cioè le ripetute negazioni di giustizia da parte dello Stato alle sue vittime arabe. Nessuno può infatti ragionevolmente aspettarsi che i passanti restassero calmi sapendo che Zada, come altri rappresentanti ebrei dello Stato prima di lui, non avrebbe ricevuto nessuna punizione o, tutt'al più, pochi anni di prigione e poi la grazia perché ha ucciso degli arabi, e non degli ebrei. Israele ha dimostrato da tempo, più volte, che applica la legge e l'ordine in modo selettivo, a secondo dell'etnia di appartenenza dell'assassino e della vittima. Il comandante Ronen, alla conferenza stampa dopo gli arresti di Shafa'amr, ha osservato: “Dall'ottobre del 2000 abbiamo cercato di migliorare il nostro rapporto con gli arabi”. Se questo è vero, e se ne può dubitare, le autorità hanno di nuovo compiuto ogni sforzo per distruggere quel poco di fiducia che c'era.

Jonathan Cook è uno scrittore e un giornalista che vive a Nazaret, Israele. E' l'autore del libro di prossima uscita Blood and Religion: The Unmasking oh the Jewish and Democratic State, (Sangue e Religione: Lo smascheramento dello Stato Ebraico e Democratico, ndt) Pluto Press, e negli Stati Uniti, University of Michigan Press. Il suo sito web è www.jkcook.net

Tradotto dall'inglese in italiano da Manno Mauro, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (www.tlaxcala.es).

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