La crisi delle Borse: siamo uomini o economisti?

Comete
Fonte: www.clarissa.it
10 Ottobre 2007


Quel che è successo nel mese di agosto 2007 nelle Borse di tutto il mondo fa pensare che non c'è più bisogno che venga analizzato dagli economisti che ci intrattengono, più o meno criticamente, sulle pagine della stampa, specializzata e no. Si comincia infatti ad avere l'impressione che anche il comune cittadino possa capire cosa come sta funzionando l'economia mondiale. Sono stati bruciati in pochi giorni qualcosa come 2000 miliardi di dollari: anche un non-economista si rende conto che si tratta di una quantità enorme di ricchezza. Tutto il prodotto dell'Italia come nazione, nel 2006 (dati della Banca Mondiale), era pari a poco più di 1.800 miliardi di dollari: questo significa che le perdite delle Borse di questi giorno corrispondono a quanto un popolo di 56 milioni di abitanti, nel corso di 365 giorni, ha prodotto lavorando. Le Banche hanno pompato nei circuiti finanziari internazionali oltre 450 miliardi di dollari, con un rapporto fra Europa e Stati Uniti di circa 7 a 1, per evitare che un'ondata di richieste di realizzo di titoli ormai senza valore determinasse un vero e proprio crack per mancanza di liquidità: come mai, però, l'Europa si espone tanto, visto che la crisi è partita dalle difficoltà di rimborsare i mutui concessi negli Stati Uniti? Non è difficile, anche per un non-economista, capire che questo dipende dal fatto che l'Europa è il principale finanziatore dell'enorme indebitamento americano (gli Usa vivono da almeno tre decenni ben al di sopra delle proprie capacità di creare ricchezza) e, siccome ha messo i suoi soldi sul mercato internazionalizzato, è stata costretta a intervenire per non essere travolta.

Gli strumenti finanziari che hanno dato origine a questa crisi (gli ormai famigerati subprime), che le banche hanno impacchettato per collocare nelle mani di società specializzate in questo tipo di speculazione, trattandosi di finanziamenti ad alto rischio di insolvibilità, non sono sotto il controllo di nessuno: anzi, apprendiamo, da un economista come Luigi Spaventa, che "non sappiamo esattamente dove siano finiti i rischi dei derivati di credito, ieri assunti a prezzi di affezione e oggi privi di compratori".

Insomma, nessuno sa chi, dove e soprattutto quanti oggi abbiano il cerino acceso in mano. Non c'è bisogno di Spaventa per spaventarsi, comprendendo che questa speculazione è sottratta a qualsiasi controllo, in barba alla trasparenza ed al diritto all'informazione di cui Banche e finanziarie scrivono nelle loro modulistiche. Ma è una speculazione che intanto interessa da vicino, pare, oltre 1,4 milioni di famiglie americane: questo sarebbe il numero dei sottoscrittori di prestiti facili, che avrebbero utilizzato i soldi generosamente offerti dalle banche non per speculare in borsa ma per comprarsi un bene essenziale, la propria casa.

Non c'è bisogno di essere degli economisti per capire che saranno queste le prime vittime della crisi innescata dalla speculazione dei subprime. La casa, cioè un bene che un tempo diventava faticosamente propria lavorando e risparmiando, magari grazie a sistemi di riscatto garantiti pubblicamente. Ma chi ci ha guadagnato? Le Banche, certo. Ma scopriamo ora che i protagonisti sono quelli che garantiscono il valore di questi titoli, così come di Stati e imprese: le famose agenzie di rating, che sono sostanzialmente tre (Standard&Poor's, Moody's e Fitch). È da notare che questi super-economisti, curiosamente, danno le pagelle a se stessi, in quanto sono loro a creare, profumatamente pagati (50% di utile per Moody's, per esempio), quegli stessi strumenti finanziari che le banche usano e ai quali essi stessi danno appunto il rating, cioè una valutazione di affidabilità finanziaria!

Il presidente francese Sarkozy si è permesso di dire che era l'ora di controllare questi signori, ma la cosa non è piaciuta a nessuno: il nostro Padoa Schioppa, che se ne intende come economista, ha detto che quella di Sarkozy era un'uscita ad uso dei media, come a dire, "cazzate". Almeno ora i non economisti sanno chi paga gli economisti.

Ma questi nuovi strumenti finanziari, funzionano per il risparmiatore oltre che per chi li vende e/o ci specula? È per loro infatti che, circa trent'anni fa, si cominciò a dire che bisognava smettere (soprattutto in Italia e in Giappone, i più grandi risparmiatori del mondo) di tenere i soldi sotto il mattone: la Borsa ci voleva, per essere moderni e fare soldi. Peccato che oggi sia un ufficio studi di una banca come Mediobanca a dirci che, per esempio in Italia, i fondi di investimento (pensiamoci a proposito del Tfr…) nell'86% dei casi non mantengono quello che hanno promesso ai propri sottoscrittori. Anche un non economista capisce che non sono stati un affare per il cliente: contente possono essere quindi solo le Banche, le società di intermediazione finanziaria e le società di rating. Anche un non economista comincia a rendersi conto allora a chi interessa tutto il meccanismo.

Lasciamo da ultimo una questione che anche un non economista capisce essere seria davvero: finanziamenti facili, dati pur di fare girare i soldi, pare che ne siano stati fatti anche ad aziende molto grandi e molto importanti in giro per il mondo, magari per comprarsi altre aziende e "internazionalizzarsi" (qualcuno ricorda cos'era successo con Parmalat?). Se i problemi arrivano fino al livello del tessuto produttivo e imprenditoriale, e quindi l'economia reale, quella dei non economisti tanto per capirci, viene colpita sia dalla parte delle famiglie (via la casa…) che da quella delle aziende (via i posti di lavoro…) - allora la questione è seria. Anche un non economista capisce che è per questo che si sta minimizzando molto la gravità di quanto accade nelle Borse di mezzo mondo (l'altro mezzo non si può permettere ancora le Borse).

Anche un non economista si rende conto, in finale, che un'economia che esprime al suo vertice, quello dell'alta finanza internazionale, simili meccanismi, ha qualcosa che non va sul piano sostanziale: della giustizia, della libertà, dei diritti fondamentali. E tutti, economisti e non economisti, capiscono che quando si comincia a parlare di ridiscutere il modello capitalista, la cosa si fa seria. Ma, secondo noi, è proprio da qui che bisogna ripartire, con più acume e con metodi nuovi rispetto al passato.

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