Come l’Italia conquistò lo «status di grande paese»
Decimo anniversario della guerra contro la Iugoslavia

Manlio Dinucci

Il Manifesto
22 marzo 2009


Il 24 marzo 1999, la seduta del senato riprende alle 20,35 con una comunicazione dell’on. Mattarella, vice-presidente del governo D’Alema: «Onorevoli senatori, come le agenzie hanno informato, alle ore 18,45 sono iniziate le operazioni della Nato». In quel momento, le bombe degli F-16 del 31° stormo Usa, decollati dalla base di Aviano, già hanno colpito Pristina e Belgrado. E stanno arrivando nuove ondate di cacciabombardieri Usa e alleati, partiti da altre basi italiane. Come testimonia lo stesso Massimo D’Alema nel libro-intervista Kosovo / Gli Italiani e la guerra (Mondadori, agosto 1999), i capi di governo della Ue, prima di partire per il vertice di Berlino, avevano fatto un «giro di telefonate», dando «pieni poteri al comandante generale della Nato» (il generale Usa Wesley Clark).

In tal modo, violando la Costituzione (artt. 11, 78 e 87), l’Italia viene trascinata in una guerra, di cui il governo informa il parlamento dopo le agenzie di stampa, quando ormai è iniziata.

Fondamentale è il ruolo svolto dai comandi e dalle basi Usa/Nato in Italia.

Le operazioni navali e aeree sono dirette dai comandi alleati di Napoli e Vicenza, agli ordini di ufficiali Usa e quindi inseriti nella catena di comando del Pentagono. E dalle basi in Italia decolla la maggior parte dei mille aerei che, in 78 giorni, effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili sulla Serbia e il Kosovo.

In tal modo viene attivato e testato, nelle condizioni di una guerra reale, l’intero sistema delle basi Usa/Nato in Italia, preparando il suo potenziamento per le guerre future.

Non solo. Contrariamente a quanto affermato da Mattarella al senato, che «nelle operazioni non sono impegnati aerei italiani», ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando Usa. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il 10 giugno 1999 il presidente del consiglio D’Alema durante la visita alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti, è stata «una grande esperienza umana e professionale».

Si rende in tal modo operativo, per la prima volta, il «nuovo modello di difesa», che attribuisce alle nostre forze armate il compito di «proiettarsi» ovunque per difendere gli «interessi vitali».

E il 23-25 aprile 1999, mentre è ancora in corso la guerra, il governo D’Alema partecipa, a Washington, al vertice Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: da alleanza che, in base all’articolo 5 del trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell’area nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». Alla domanda di quale sia l’area geografica in cui la Nato è pronta a intervenire, il presidente democratico Clinton risponde che «non è questione di geografia».

Da qui inizia l’espansione della Nato verso est, fin dentro il territorio dell’ex Urss e oltre. Oggi l’«area atlantica» si estende fin sulle montagne afghane. E i soldati italiani sono là, confermando quello che D’Alema definisce con orgoglio «il nuovo status di grande paese», conquistato dall’Italia sul campo di battaglia dieci anni fa.

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