Gli Stati Uniti nazionalizzano Fannie e Freddie.
Tre riflessioni

Carlo Gambescia

8 settembre 2008
Fonte: carlogambesciametapolitics.blogspot.com


“WASHINGTON – Per evitare una catastrofe sui mercati finanziari americani e mondiali, come ha sottolineato il ministro del tesoro Henry Paulson, l’amministrazione Bush ha assunto il controllo della Fannie Mae e della Freddie Mac, le due agenzie semigovernative che finanziano quasi la metà dei mutui del Paese, il cui totale è di 12 mila miliardi di dollari. La Federal housing financial agency, un organo della Tesoreria, le ha assunte in amministrazione controllata acquistandone le azioni privilegiate. L’intervento potrebbe costare allo Stato americano e quindi ai contribuenti 26 miliardi di dollari secondo il Congresso. Ma era inevitabile: a causa del crollo dei mutui, in un anno la Fannie Mae e la Freddie Mac hanno perso circa 15 miliardi di dollari, rimanendo quasi senza capitali, e deprezzando i loro titoli di quasi il 90 per cento. Inoltre, 4 milioni di famiglie, il 9 per cento dei mutuati, sono andate in bancarotta o sono in grave ritardo nei pagamenti rateali. GRANDE DEPRESSIONE - L’iniziativa ha precedenti solo negli interventi governativi del presidente Franklin Roosevelt durante la Grande depressione economica degli Anni trenta, e rappresenta una clamorosa inversione di rotta dell’amministrazione Bush, la più liberista dell’ultimo mezzo secolo. E’ la misura più drastica presa sinora dal ministro Henry Paulson e dal governatore della Riserva federale Ben Bernanke: di fatto, con il loro commissariamento, le agenzie sono temporaneamente nazionalizzate in base a una legge approvata dal Congresso. La misura era diventata urgente anche perché i giorni scorsi era fallita l’undicesima banca dallo scorso settembre, la Silver state del Nevada, e si teme che numerose altre chiudano i battenti. Il ministro e il governatore hanno esposto il loro piano a Daniel Mudd e Richard Syron, i presidenti rispettivamente della Fannie Mae e di Freddie Mac, che verranno sostituiti da due ex banchieri, Herb Allison e David Moffett; ai candidati alla Presidenza il democratico Barack Obama e il repubblicano John McCain; ai governi stranieri che detengono grandi quantità di titoli della Fannie Mae e della Freddie Mac. Secondo il Wall street journal, il Tesoro inietterebbe fondi ogni trimestre, in modo d’attirare anche investimenti privati. Per i milioni di famiglie americane che rischiano di perdere la casa è una tempestiva operazione di salvataggio. La situazione dei mutui è la peggiore degli ultimi 29 anni, dal crollo delle Casse di risparmio, e le misure sinora adottate da Bush, dai rimborsi fiscali di 168 miliardi di dollari ai contribuenti alla vendita”

Ennio Caretto          
Fonte Corriere denla Sera, 8 settembre          

La decisione del governo federale americano di nazionalizzare Fannie e Freddie è indubbiamente di grandissima importanza. E come gravità è nettamente superiore a quelle prese da Roosevelt durante la Grande Depressione degli anni Trenta nei riguardi del mondo bancario e finanziario americano. Come scrisse un grande storico americano, Arthur M. Schlesinger, "nel 1933 la regolamentazione finanziaria sembrava essere solo una parte marginale del New Deal" (A.M. Schlesinger, L’età di Roosevelt. L’avvento del New Deal, il Mulino, Bologna 1963, p. 442). Quindi Caretto semplifica troppo. Ma non è questo il punto.

Il provvedimento è importante per tre ragioni.

Il primo luogo, perché, come detto, non ha precedenti. E questo in una nazione, dove da sempre democratici e repubblicani vedono in qualsiasi intervento pubblico, anche minimo, un attentato alla libertà economica individuale: una specie di anticipazione del comunismo.

In secondo luogo, l’inflazione americana, di conseguenza, crescerà, espandendosi a macchia d’olio anche all’estero, soprattutto in Europa. In modo particolare se non verrà sterilizzato il dollaro come moneta di pagamento internazionale. Il che è difficilissimo che avvenga perché questa misura rischia di compromettere i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Ue. Infatti la decisione unilaterale europea di rifiutare il dollaro in favore dell'Euro nelle transazioni internazionali, potrebbe addirittura condurre a una guerra con gli Usa, prima economica e poi in senso letterale. Pertanto, vista la mancanza di coraggio delle classi dirigenti europee, programmaticamente pacifiste, la crisi economica rischia di farsi più pesante anche in Europa. E senza alcuna concreta contropartita positiva per noi. Se non quella pseudomorale della solidarietà atlantica... Chi si contenta gode.

In terzo luogo, gli Stati Uniti, stretti nella morsa dell'inflazione crescente e alle prese con una crisi sociale sempre più grave, potrebbero puntare sul nemico esterno. Nel senso di accentuare l’impegno militare nel mondo, come gradita valvola di sfogo economico per il complesso militare-industriale, nonché come risposta ai crescenti problemi occupazionali e di tipo debitorio che attanagliano il popolo americano: "arruolarsi" anche nelle industrie e nei servizi, indirettamente collegati alle forze armate, potrebbe costituire una “ciambella di salvataggio” per molti americani “falliti”, a causa delle crisi bancaria. Non va dimenticato, tra l'altro, che per coloro che vanno in guerra - come già avvenne nel 1941 - la legge americana prevede ancora la sospensione dell’esazione coattiva degli eventuali debiti contratti nella vita civile. Si tratta di un'astuta “metodologia” parabellica che risale a Roma antica, e tuttora in uso anche in altre nazioni.

Il momento è perciò molto grave. Siamo in presenza di una vera e propria svolta, politica ed economica. Sulla quale non potrà assolutamente influire il colore della pelle del prossimo presidente Usa (http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2008/01/le-primarie-e-le-elezioni-presidenziali.html. Un povero burattino nelle mani del complesso militare-industriale americano. Una plutocrazia che vede di buon occhio la guerra totale esterna, perché preferibile alla guerra civile interna... O comunque, che non disdegna la sua progressiva intensificazione, famelicamente memore degli altissimi profitti incamerati durante la Guerra Fredda.

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