Propaganda e realtà

Stefano Chiarini

Il Manifesto, 15 dicembre

Il presidente americano Bush ha confermato ieri che, al di là delle elezioni odierne, le truppe Usa resteranno in Iraq fino a quando «i terroristi e saddamisti non minacceranno più la democrazia irachena», «le forze di sicurezza irachene potranno difendere il loro popolo» e «l'Iraq non sarà più un santuario per i terroristi». Quindi, nonostante la retorica sull'esistenza di una presunta «exit strategy» Usa, diffusa a piene mani dal governo Berlusconi e da non pochi esponenti dell'Unione, le truppe americane potrebbero restare in Iraq a tempo indeterminato per il semplice fatto che quegli obiettivi non potranno mai essere raggiunti proprio grazie alla presenza delle truppe di occupazione e alla politica di disgregazione del paese su basi etnico-confessionali portata avanti dall'amministrazione Bush. Quel «caos creativo» portato dagli Usa in Iraq con l'intento di poter meglio controllare le ricchezze petrolifere della Mesopotamia e di togliere dall'equazione mediorentale - secondo i desideri di Sharon - uno dei più importanti stati arabi della regione. Un filo nero lega infatti la politica Usa in questi ultimi tre anni: dallo scioglimento dell'esercito «nazionale» iracheno alla designazione dei membri del primo governo provvisorio su basti etniche e confessionali, dall'imposizione di una costituzione (bocciata in realtà dagli elettori ma fraudolentemente data per approvata) foriera di una divisione del paese - in pratica se non ufficialmente - in tre entità separate, sino alla scelta di affidare la controguerriglia alle milizie sciite filoiraniane e a quelle curde. Su questa strategia non sembra ci sia alcun ripensamento, al più delle correzioni di rotta, dettate dall'inaspettata forza della resistenza irachena, passata da 150 a oltre 700 attacchi a settimana, con circa 100 soldati Usa uccisi ogni mese. Da qui la necessità di ridurre le perdite Usa e la scelta di «irachizzare» il conflitto seminando i veleni di una guerra civile strisciante. Solo che l'«irachizzazione» ha portato a sua volta ad affidare il controllo del governo centrale ai partiti curdi e soprattutto a quelli islamisti sciiti filo-iraniani come il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri) e il Partito al Dawa del premier al Jafaari. Con la conseguenza che le truppe speciali antiguerriglia del ministero degli interni sono oramai composte dai miliziani del braccio armato dello Sciri, la Badr Brigade messe in piedi, addestrate e pagate (tuttora) dalle Guardie della rivoluzione iraniana che le hanno trasformate in veri e propri squadroni della morte anti-sunniti.

Nel nord dettano così legge le milizie dei due principali partiti curdi il Pdk di Barzani e il Puk di Jalal Talabani definito due giorni «un democratico» dal segretario dei Ds Piero Fassino proprio mentre i suoi uomini assaltavano e davano alle fiamme gli uffici elettorali dell'Unione Islamica del Kurdistan, linciando almeno cinque suoi funzionari. Il Sud è nelle mani di varie milizie islamiste filoiraniane che non tollerano alcuna forma di dissenso. Basti pensare al rogo degli ufficiali elettorali della lista facente capo all'ex premier Yiad Allawi nella città di Nassiriya, anch'essa consegnata dal governo italiano agli emissari locali di Tehran. Il centro e l'Ovest dell'Iraq sono sempre più un campo di battaglia. Oltre 159.000 soldati americani combattono in Iraq contro la resistenza irachena al fianco delle Guardie della rivoluzione iraniane del tanto vituperato presidente Ahmadin Nejad. Paradossalmente ma non tanto se pensiamo al sostegno dato dagli Usa (e in ambito Nato anche dal nostro paese) ad al Qaida contro il regime laico afghano filo-sovietico o al tentativo di arruolare i fratelli musulmani siriani per rovesciare il laico presidente Bashar el Assad. Il condominio con l'Iran si è però sbilanciato un po' troppo nell'ultimo anno a favore di Tehran e Washington sembra ora decisa ad usare queste elezioni per ridurre, in parte, il potere dei partiti filo-iraniani rafforzando lo sciita «laico», già agente Usa, Iyad Allawi e il sempre prediletto Ahmed Chalabi. Questi due politici filo-Usa dovrebbero inoltre farsi forti anche della partecipazione alle elezioni di molte liste sunnite presenti per la prima volta per fermare lo strapotere dei partiti sciiti filo-Usa e filo-Iran. Un fatto nuovo che però, come del resto l'emergere di un potere locale nel centro dell'Iraq in mano a movimenti islamisti sunniti, di per sé non modifica affatto il progetto Usa di divisione del paese.

Il problema per gli occupanti sta nel fatto che l'Iraq ancora non sembra diviso rigidamente lungo queste linee etniche e confessionali, e una grande maggioranza della popolazione, nonostante tutto, si sente ancora irachena prima che sunnita, sciita o cristiana e, ancor oggi, non sembra affatto disposta ad accettare l'occupazione, il saccheggio e la distruzione del proprio paese.


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