L'era di Stalin

un libro di Anna Louise Strong

Dall'introduzione di Adriana Chiaia

Anna Louise Strong, con alle spalle una formazione politica ispirata ai settori più radicali del laburismo e del sindacalismo rivoluzionario statunitense, alle cui lotte aveva partecipato come giornalista e come militante, delusa dal riflusso del movimento dei lavoratori, decide di esplorare quel mondo che un altro americano, Lincoln Steffens, di ritorno da un viaggio nella Russia sovietica, aveva definito con il lapidario giudizio: «Ho fatto un viaggio nel futuro ed il futuro funziona».

Della tempra dei suoi connazionali John Reed ed Edgar Snow (1), che furono capaci di varcare le colonne d’Ercole dei pregiudizi anticomunisti e di rappresentare con onestà intellettuale la realtà delle nuove società socialiste che osavano costruire un mondo senza sfruttamento ed oppressione, Anna Louise Strong, che aspirava ad una società fondata sull’uguaglianza dei diritti sociali e civili e si era sempre battuta a favore dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei bambini svantaggiati, descrive con entusiasmo e partecipazione la realtà dell’Unione Sovietica.

La sua attività giornalistica del 1924-1925 si riferisce al periodo in cui la Russia sovietica si risollevava a stento dalle devastazioni causate dalla guerra civile, dall’aggressione degli eserciti delle potenze imperialiste coallzzate e da una terribile carestia con le sue tragiche conseguenze di centinaia di migliaia di morti per fame.

Nel suo celebre scritto Children of Revolution - Ten Boys on the Volga, del 1925, la Strong narra con estrema puntualità gli sforzi di un gruppo di ragazzi, scampati alla morte per fame nei loro villaggi, che imparano a basarsi sulle proprie forze, a guadagnarsi da vivere e a gestire il loro collettivo in modo egualitario e solidale. L’autrice fa assurgere la loro storia a simbolo della rinascita dell’intero paese.

Dopo quel primo soggiorno in Russia, la Strong vi torna e vi si stabilisce negli anni Trenta, periodo a cui si riferisce L’era di Stalin, il libro che qui presentiamo. Fonda il Moscow News, primo giornale in lingua inglese pubblicato a Mosca e rivolto ai lettori americani.

L’era di Stalin è una rielaborazione delle sue corrispondenze, come inviata del Moscow News, in ogni angolo dello sterminato territorio dell’Unione Sovietica, da Leningrado a Vla-divostok e per l’intero arco di tempo della costruzione del socialismo, dalla fine degli anni Venti alla morte di Stalin.

La Strong ci narra, con il sentimento e la passione «non solo per il sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere» (2), come auspicava Gramsci, le tappe principali di un processo che avrebbe cambiato il volto della vecchia Russia e delle altre Repubbliche socialiste dell’URSS, trasformando un’economia contadina e arretrata in un’economia industriale, tecnologicamente avanzata, capace di competere con le principali potenze capitaliste. Un evento epocale che si ripercosse sugli equilibri politici e sociali del resto del mondo e che cambiò il corso della storia dell’umanità.

Nel capitolo che raccoglie le corrispondenze sul primo piano quinquennale è descritta la nascita di alcuni dei grandi colossi del piano: l’acciaieria di Kusnetsk, la fabbrica di trattori di Stalingrado ed il troncone di ferrovia tra il Turkestan e la Siberia.

La descrizione della costruzione dell’acciaieria di Kusnetsk è un’epopea in due tempi distanti poco più di un anno. E’ la storia di un complesso gigantesco esteso per cinque chilometri, composto di altiforni, ciminiere, laminatoi, centrale elettrica, alloggi per i lavoratori. Complesso gigantesco nato dal caos iniziale di fondamenta scavate in una pianura fangosa della Siberia e dall’agitarsi febbrile di migliaia di uomini, tesi nella sforzo di portare a termine un compito di cui sfuggiva il senso complessivo. La spiegazione di questo modo di procedere, apparentemente insensato, la dà il direttore dei lavori: «I giapponesi avevano invaso la Manciuria e la Russia aveva bisogno di acciaio. Si doveva scegliere: o procedere alla maniera classica (...) o fare tutto in una volta».

Si sottolinea qui un fattore fondamentale, di cui troppo spesso ci si dimentica: quello del pericolo mortale dell’accerchiamento delle potenze imperialiste e della minaccia di nuove aggressioni armate. Come osserva la Strong: «II popolo sovietico era convinto che, se il ritmo fosse stato meno veloce, non solo la costruzione del socialismo sarebbe stata ritardata, ma la sua stessa esistenza come nazione sarebbe stata in pericolo».

La Strong mette in luce un altro elemento che caratterizzò lo sforzo per la costruzione di Kusnetsk, e non solo, poiché la mobilitazione collettiva fu una connotazione costante e generalizzata della partecipazione attiva della classe operaia all’edificazione di quella che i lavoratori finalmente potevano considerare la “loro” società: «Tutta l’URSS ha contribuito: dalle fonderie di Leningrado, alle officine dell’Ucraina. Per tutto il Paese era corsa la parola d’ordine “Forza per Kusnetsk”, perché Kusnetsk apriva la strada all’industrializzazione della Siberia. Essa aveva già trasformato milioni di contadini in operai siderurgici e dato esperienza preziosa a centinaia di ingegneri». Costruzione di strutture e trasformazione di uomini erano i frutti di quel titanico sforzo che rese anche necessario, in molti casi, lo spostamento di intere popolazioni, quegli stessi spostamenti che la propaganda borghese bolla come “deportazioni”.

Per questioni di spazio, in queste note introduttive dobbiamo limitarci a brevi flash che sottolineano il valore ed il significato delle altre realizzazioni del piano descritte dalla Strong.

Sulla costruzione della fabbrica di trattori di Stalingrado, la prima catena di montaggio dell’URSS, la Strong osserva: «In America per realizzare la produzione in serie c’era voluta un’intera generazione: in Russia bastò la battaglia di Stalingrado del 1931. Ma la costruzione dell’immensa fabbrica richiese il sacrificio di molte giovani vite. Molti furono gli uomini che caddero sfiniti davanti alle bocche ardenti delle fornaci nei caldi meriggi estivi...». Nel giugno del 1930, in saluto all’apertura del Congresso del Partito, la fabbrica fu messa in funzione e, alla scadenza del primo anno del piano, fu completato il cinquemillesimo trattore.

«[...] In entrambe le occasioni, molti dei dirigenti e quasi tutti i tecnici americani avevano dichiarato l’impresa irrealizzabile: tutte e due le volte la volontà degli operai, specialmente dei giovani del Komsomol, aveva realizzato l’impresa...».

«[...] Dodici anni più tardi gli uomini della fabbrica di trattori di Stalingrado, a bordo dei carri armati usciti dalle loro officine, snidarono i soldati di Hitler dalle rovine della fabbrica...».

Non possiamo rinunciare a rimandare almeno un’immagine dell’inaugurazione del tronco ferroviario tra il Turkestan e la Siberia, il Turk-Sib, che ebbe luogo il 1° maggio del 1930. I duemila chilometri di binari gettati da nord a sud, attraverso deserti e pianure disabitate, sarebbero serviti agli scambi commerciali tra la Siberia e l’Asia centrale e tra la Russia e la Cina. Lungo la ferrovia sarebbero sorte città al posto dei villaggi sperduti, le comunicazioni e i traffici commerciali avrebbero cambiato il volto a quelle zone semidesertiche e offerto alle popolazioni, soprattutto ai giovani, la possibilità di liberarsi dall’antica oppressione tribale.

L’inaugurazione avvenne alla presenza di 10.000 persone. Al punto di congiungimento dei due tronconi furono sistemati gli ultimi segmenti di rotaia. «Gli ultimi bulloni furono ribattuti da funzionari russi e kasaki, da Bill Sharoff (veterano della lotta per la libertà di parola in America, reduce dalla guerra civile che per anni aveva insanguinato la Russia e che era stato chiamato a dirigere i lavori) in rappresentanza degli operai e dal settantenne Katayama, segretario generale del Partito Comunista del Giappone e delegato alla Terza Internazionale». Secondo la Strong, la ferrovia era il contributo dell’URSS alla rivoluzione mondiale. E non sembri un’affermazione retorica, dato che la parola d’ordine “fare come la Russia” diede impulso a tutte le lotte e alle conquiste dei lavoratori di ogni parte del mondo.

Tuttavia, la Strong non dipinge un quadro senza contrasti di quella corsa contro il tempo che fu l’industrializzazione in URSS. Al contrario, porta varie testimonianze dei non infrequenti sabotaggi: danneggiamenti alle macchine e agli impianti, ostruzionismo burocratico finalizzato ad intralciare la produzione e a rallentarne i ritmi. Tutto ciò era l’espressione concreta dell’opposizione dei nepmen, piccoli imprenditori e trafficanti che avevano utilizzato, abusandone, gli spazi di libero mercato che la NEP si era vista obbligata a concedergli. Lo sviluppo dell’economia socialista li riduceva a forze residuali della vecchia società capitalista, da combattere ed eliminare. La Strong tornerà in seguito su questo aspetto della lotta di classe in URSS.

«Ho visto la collettivizzazione piombare come una tempesta sul basso Volga, nell’autunno del 1929. Era una rivoluzione che provocava mutamenti più profondi di quelli della rivoluzione del 1917, della quale, del resto, era il frutto ormai maturo». Questo scrive la Strong nel capitolo sulla collettivizzazione dell’agricoltura. In effetti non si poteva che definire rivoluzionaria la radicale trasformazione dell’agricoltura che, tra il 1930 e il 1933, portò circa 14 milioni di piccoli appezzamenti di proprietà contadina, estremamente frazionati e scarsamente produttivi, a raggrupparsi nelle fattorie collettive (kolcos), servite da trattori e altre macchine agricole. Era una trasformazione necessaria ed improcrastinabile, complementare allo sviluppo dell’industria, poiché garantiva l’approvvigionamento di viveri alle fabbriche e alle città; viceversa la crescita della produzione industriale era necessaria e complementare alla modernizzazione dell’agricoltura, poiché ne garantiva la meccanizzazione. Lo sviluppo armonico di entrambi i settori assicurava l’innalzamento del tenore di vita e del livello culturale delle masse lavoratrici. Questo è, in sostanza, il significato di un’economia pianificata.

A sfatare i luoghi comuni secondo i quali si trattò di una trasformazione progettata centralmente sulla carta e imposta dall’alto, ecco, se ce ne fosse bisogno, una tra le tante testimonianze dell’autrice: «Quando lasciai la zona (del basso Volga) chiesi ad un funzionario locale cosa dicesse Mosca di questo e di quello. Egli rispose frettolosamente ma con orgoglio: “Non possiamo aspettare ciò che ci dice Mosca: Mosca fa i piani secondo quello che diciamo noi”».

Come abbiamo visto per l’industrializzazione, le contraddizioni di classe e al loro interno il fattore umano incidono sulle trasformazioni sociali.

Le forze in campo vengono chiaramente identificate dalla Strong: su un fronte, i contadini poveri ed i braccianti senza terra, sostenitori entusiasti della collettivizzazione, sul fronte opposto, i contadini ricchi (kulaki) che «combattevano il movimento con tutti i mezzi, che arrivavano fino all’incendio e all’assassinio». In mezzo, la spina dorsale dell’agricoltura: i contadini medi, indecisi tra la gestione individuale delle loro proprietà e l’ingresso nei kolcos, dove avrebbero usufruito del sostegno del governo e dell’impiego delle macchine. Quando la maggior parte di essi decise per questa seconda opzione, l’entrata nelle fattorie collettive assunse dimensioni di massa, in termini di villaggi, circoscrizioni ed intere regioni.

Queste lotte laceravano tutta la società, compresi gli amministratori locali ed i funzionari di partito. Alcuni, per eccesso di zelo, forzarono, con pressioni e minacce, i contadini ad entrare nei kolcos, altri pretesero di collettivizzare tutte le proprietà private, dalle abitazioni, agli animali domestici, agli attrezzi di lavoro. Altri ancora, al contrario, si fecero complici dei kulaki, frenando con ostacoli burocratici il movimento di collettivizzazione. La Strong riconosce che queste divisioni arrivavano anche ai livelli più alti della direzione del partito.

La rivoluzione “dal basso” fu ufficializzata “dall’alto” con la svolta nella politica del partito, nota per la parola d’ordine “liquidazione dei kulaki in quanto classe” (3), decisa nel Comitato Centrale del 5 gennaio 1930. La risoluzione adottata stabiliva inoltre scadenze differenziate per la collettivizzazione e ribadiva alcuni principi: il carattere volontario dell’adesione ai kolcos e la forma principale d’organizzazione dei kolcos, cioè l’artel agricolo, che prevedeva la collettivizzazione soltanto dei principali mezzi di produzione. Infine, gli eccessi dei più zelanti funzionari di partito furono criticati nel famoso articolo di Stalin, sulla “Vertigine del successo”, apparso sulla Pravda del 2 marzo 1930, che ebbe un’entusiastica accoglienza, come ci racconta la Strong in alcuni esilaranti aneddoti, a cui rimandiamo.

Le contraddizioni strutturali si riflettevano nel quadro sovra-strutturale della cultura contadina e la lotta per la collettivizzazione fu anche lotta contro l’arretratezza e l’ignoranza. Molti fattori sociali cercavano di far girare all’indietro la ruota della storia e su questi puntavano i kulaki che tentavano di allearsi con i vecchi, che vedevano crollare le gerarchie della famiglia patriarcale, con i preti, che temevano la fine del loro potere con la messa in discussione delle superstizioni e delle credenze religiose, con gli uomini, che non volevano rinunciare al loro dominio assoluto sulle donne. I rivoluzionari, in primo luogo i giovani, lottarono per liberarsi dai ceppi delle tradizioni medievali, per una vita più libera e per un lavoro che desse spazio alla loro iniziativa e alla loro creatività. Le donne, una volta conquistata l’indipendenza economica, trovarono il coraggio di liberarsi dalla soggezione ai loro padri e mariti e, fino nei più lontani villaggi dell’Asia centrale, forti di una nuova solidarietà femminile, eliminarono pubblicamente il simbolo della loro soggezione: «Le donne passarono davanti al palco: giunte di fronte al podio, gettarono il velo, e poi, tutte insieme, andarono a sfilare per le strade... Altre donne uscivano dalle loro case, si univano alla sfilata e gettavano il velo davanti alle tribune».

La Strong mette in luce il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie: dai tecnici innovatori delle Stazioni di macchine e trattori, ai lavoratori delle “sezioni politiche”, formate da operai specializzati, direttori di fabbrica, comandanti dell’esercito, scienziati, venuti volontariamente dalle città per prestare le loro competenze ai fini del miglioramento delle coltivazioni e per formare nuovi quadri, fino ai giornalisti delle “brigate d’assalto”, che denunciavano la corruzione dei funzionari o che percorrevano in lungo e in largo le vaste zone agricole per prevenire gli sprechi e per raccogliere dati da generalizzare. Diamo ancora la parola alla Strong: «In quei quaranta giorni mio marito (redattore del Giornale dei contadini) perse quindici chili di peso, tornò anche pieno di pidocchi. Ma calcolava che la sua brigata avesse evitato la perdita di forse trecentomila ettolitri di grano. Il suo lavoro non è che un esempio della battaglia generale e senza risparmio condotta in quell’anno».

Dopo averci offerto, nei capitoli precedenti, numerosi esempi di abnegazione e dedizione alla causa del socialismo, la Strong dedica il capitolo “Nuovi tipi umani” a quegli “uomini nuovi” che impegnavano tutte le loro forze e la loro intelligenza non per conseguire vantaggi personali, ma per un obiettivo comune, utile per l’intera società. Lenin aveva chiamato le prime iniziative di lavoro volontario “germi di comunismo”. Questi germi si erano moltiplicati nella società sovietica e moltissimi erano gli “eroi del lavoro” che ogni anno, nei loro congressi, esponevano con orgoglio i risultati raggiunti, suscitando entusiasmo e stimolando l’emulazione. Dopo averne ricordato i più popolari, dal minatore Stakanov, alla colcosiana Maria Demcenko, al metallurgico Vasiliev, detentori di record mondiali nei rispettivi rami produttivi, la Strong sceglie di inquadrarli nella trasformazione di tutta la società. Lo fa con le parole dello scrittore Panferov, che riportiamo:

«La classe operaia ha costruito una diga sul Dnepr impetuoso e ha costretto le sue indocili acque a servire l’uomo. Essa ha trasformato i nebbiosi Urali in un centro industriale, ha vinto il remoto e selvaggio Kusbass. Nel rifare il paese la classe operaia ha riplasmato anche se stessa».

La Strong ci parla dello sviluppo culturale che aveva trasformato contadini analfabeti in agronomi, attori dilettanti, paracadutisti. Poiché l’Unione Sovietica comprendeva 150 nazionalità diverse, in tutti gli stadi di civiltà e cultura, «...a Mosca si cominciarono a stampare libri in cento lingue, finché la produzione libraria dell’URSS, alla fine del primo piano quinquennale, superò il numero dei libri stampati in Francia, Germania e Inghilterra, prese insieme».

Infine l’autrice descrive i metodi educativi dei giovani e giovanissimi, che consistevano nell’aiutarli a sviluppare le proprie attitudini, nell’incoraggiare la loro iniziativa e la loro creatività. La Pravda sintetizzò come segue l’ideale sovietico del carattere, che era l’esatto contrario dell’obbedienza cieca richiesta da Hitler alla gioventù tedesca: «L’individualità forte e originale è la caratteristica essenziale del cittadino sovietico... Non sottomissione e cieca fede, ma consapevolezza, audacia e decisione. Forte individualità, inseparabilmente connessa alla disciplina del collettivo dei lavoratori, altrettanto forte e consapevole».

E poiché questi principi non erano vuota retorica ma una pratica vivente di milioni di uomini, ciò dovrebbe mettere a tacere i detrattori della società socialista, vista come “massificazione dei cervelli ed annullamento della personalità”.

La Strong pone a coronamento di questa “stagione felice” della costruzione del socialismo in URSS la promulgazione della nuova Costituzione, approvata dal Congresso dei Soviet il 5 gennaio 1936 sulla base del progetto elaborato da un’apposita commissione presieduta da Stalin e sottoposto ad una vastissima consultazione popolare, che aveva prodottò migliala di emendamenti. L’autrice si sofferma sul capitolo riguardante i diritti e gli obblighi fondamentali dei cittadini e, in particolare, sugli articoli concernenti i diritti sociali, civili e politici. Trascura invece, almeno in questo testo, di mettere in luce gli articoli che sanciscono il dovere, da parte di tutti, «.. .di osservare la norma, la disciplina del lavoro, le regole di convivenza socialista, di salvaguardare la proprietà sociale socialista, con la formula drastica “coloro che attentano alla proprietà sociale socialista sono nemici del popolo”, nonché gli articoli concernenti il tradimento della patria, il passaggio al nemico, lo spionaggio, “punito con il massimo rigore della legge, come il più grave dei misfatti” . » Chi si sofferma su questi articoli, scrive Aldo Bernardini, potrà facilmente comprendere come, almeno in linea di principio, l’attività repressiva, anche molto dura ed ingente in una situazione in particolare di guerra imminente e di inasprimento della lotta di classe, fosse da intendersi già sulla base della Costituzione.. .»...(4).

Non tenere conto di ciò, induce la Strong a scrivere: «La Costituzione fu violata nel momento stesso in cui veniva scritta». Ella ne fa ricadere le colpe sulla polizia politica, della quale nessuno vuoi difendere gli eccessi e le responsabilità personali. Ma il punto politico è semmai l’indipendenza del partito dalla Costituzione e le sue prerogative di lotta e di repressione delle tendenze controrivoluzionarie. Citiamo ancora Bernardini : «... nelle sue funzioni essenziali e tipiche il PCUS staliniano era esterno alla Costituzione e in realtà non soggetto ad essa, in quanto ne aveva la dominanza in vista dei fini di difesa e trasformazione sociale non condizionabili dalla Costituzione vigente. Il fine extracostituzionale del passaggio alla fase comunista era compito del Partito». (5). (...)

NOTE

1 Autori rispettivamente di Dieci giorni che sconvolsero il mondo e di Stella rossa sulla Cina.
2 Antonio Granisci. Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. Einaudi editore, NUE, Torino, 1975, Quaderno 11, p. 1.505
. 3 Parola d’ordine interpretata dalla propaganda borghese come la loro liquidazione fisica di massa, il loro genocidio, ecc. Oltre alla Strong, molti autori inquadrano in quel contesto storico e ridimensionano questo episodio. Non essendo possibile dilungarci su di esso in queste note introduttive, rimandiamo, ad esempio, all’opera di Ludo Martens, Un autre regard sur Staline, Edizioni EPO, di prossima pubblicazione in traduzione italiana.
4 Problemi delta transizione al socialismo in URSS Atti del Convegno di Napoli 21-23 novembre 2003, Edizioni La Città del Sole, Napoli, 2004, p. 233.
5 Ibidem, pp. 234-235.

Adriana Chiaia

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