Gramsci e Stalin

Il 17 luglio il "Corriere della Sera" lanciava, a firma Silvio Pons, uno scoop: una lettera sinora sconosciuta di Evghenia e Delia Schucht, cognata e moglie di Gramsci (morto nel 1937 nel carcere fascista), rivolta nel dicembre 1940 a Stalin: in essa gli si raccomandava di prendersi cura della pubblicazione degli scritti di Gramsci (I "Quaderni") che gli italiani avrebbero sino allora trascurato e si rinfrescavano i sospetti sull’esistenza di un tradimento ai danni di Gramsci processato e detenuto, ai fini di impedirne la scarcerazione. Il sospetto, nella lettera, è genericamente a carico di italiani - si parla di fascisti e di trotzkisti - ma sembra chiaro che l’allusione sia alla vecchia vicenda della lettera di Greco e a presunte ambiguità di Togliatti.

Di qui una ridda di articoli di stampa, centrati su sottigliezze filologiche, sulla non novità degli argomenti, sul fatto che questi nulla aggiungano a quanto conosciuto e già confutato ad abbondanza, naturalmente sull’iscriversi della vicenda nel "terrore staliniano" (Evghenia sarebbe stata una fervente staliniana…), e che in definitiva si sarebbe potuto pensare ad un complotto… contro Togliatti.

Nessuno ha però posto in dubbio né l’autenticità della lettera né che essa rispondesse al reale sentire delle scriventi e, finché vivo, dello stesso Gramsci. A noi non interessa qui parlare del presunto tradimento o quanto meno scorrettezza nei confronti di Gramsci prigioniero, dell’autore supposto di tali comportamenti (si può anche pensare a sospetti e timori eccessivi), dei perché e percome. Troviamo che la congerie di scritti presentataci sia nel complesso piuttosto futile e scadente, perché di tutto si occupa meno che, con fuggevoli e non rese evidenti eccezioni di A. Santucci e di A. Burgio, della questione centrale: il rapporto di Gramsci con Stalin, sul quale la vulgata dei revisionisti (del marxismo-leninismo, non quelli storici) ha costruito l’indegna leggenda dell’estraneità o addirittura dell’avversione tra i due. Tutto basato sul nulla, dato che i passi dei "Quaderni del carcere", che si occupano di Stalin, di Trotzki e del socialismo sovietico, sono tutti a favore di Stalin. In un passo del 1930-32 (citiamo sempre dall’edizione Gerratana, qui p. 801 s.), Gramsci critica Bronstein (Trotzki) che "può ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta", e pone l’essenziale distinzione fra guerra di movimento o di manovra e guerra di posizione, quale quella che allora doveva sostenere l’Unione Sovietica ed in cui (udite, udite!) "è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più intervenzionista, che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l’impossibilità di disgregazione interna: controlli d’ogni genere, politici, organizzativi, ecc., rafforzamento delle posizioni egemoniche del gruppo dominante, ecc.". La distinzione fra i due tipi di "guerra" viene approfondita (p. 865 s.) con la famosa distinzione fra la situazione dell’oriente, in cui "lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa" e l’occidente, ove "tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile", per rigettare ancora una volta le teorie di Trotzki. Assai significativo (p. 1728 s.) è il passo riferito proprio a Stalin (Giuseppe Bessarione), che trae spunto da un’intervista dello stesso del settembre 1927, per rilevare "come secondo la filosofia della prassi (cioè il marxismo, nota mia) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico (dunque, si direbbe Stalin, al di cui scritto si fa riferimento, nota mia), la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale". Si tratta proprio del rapporto dialettico tra nazionale e internazionale che nella concezione di Stalin è fondamentale: "Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici (Trotzki) e Bessarione come interprete del movimento maggioritario…". Almeno in due occasioni Gramsci spiega ed approva "la liquidazione di Leone Davidovici" (p. 1744), come "liquidazione anche del parlamento ‘nero’ che sussisteva dopo l’abolizione del parlamento ‘legale’ " in Unione Sovietica; e soprattutto quando, analizzando in termini sintetici ma profondi le tendenze di Trotzki, Gramsci rileva che la corrente che ha avversato quest’ultimo ha applicato la formula giacobina non come "cosa astratta, da gabinetto scientifico" bensì "in una forma aderente alla storia attuale, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della determinata società che occorreva trasformare, come alleanza di due gruppi sociali, con l’egemonia del gruppo urbano" (cioè quello che stava praticando Stalin). E in via definitiva (p. 2164), quando Gramsci, sempre a proposito della tendenza di Trotzki, rileva senza mezzi termini "la necessità inesorabile di stroncarla" (il passo è attribuibile al 1934), secondo quanto appunto era avvenuto in Unione Sovietica.

Che dal pensiero dell’ultimo Gramsci risulti un distacco rispetto a Stalin è dunque menzogna: Gramsci ne approvava anche i tratti che oggi vengono qualificati "autoritari", "dittatoriali" e peggio ancora. E nemmeno può dirsi, secondo l’ultimo rifugio della vulgata revisionista, che "oggettivamente" l’impostazione gramsciana fosse antitetica: differenze possono risultare dai contesti consapevolmente diversi (occidente e oriente) e dalle diverse fasi e livelli di lotta in Unione Sovietica e, in particolare, nell’Italia fascista, cui Gramsci non poteva non pensare: ma Gramsci sarebbe stato il primo a farsi una grande risata se qualcuno gli avesse prospettato di applicare all’Unione Sovietica di Stalin le elaborazioni che egli faceva soprattutto per l’Italia di allora.

Ora, per tornare alla lettera, se l’ambiente familiare di Gramsci si rivolgeva a Stalin sollecitandone (a torto o a ragione, non importa) la tutela nei confronti degli italiani, addirittura se le due scriventi ricordano che Gramsci raccomandava di condurre le trattative per la sua liberazione per il tramite del partito sovietico senza nulla far trapelare agli italiani, ciò vuol dire che il grande sardo aveva piena fiducia in Stalin e nel suo partito, come autentiche espressioni del comunismo mondiale. Tutto il contrario di quanto da molti anni ci è stato velenosamente propinato. I falsari del revisionismo moderno, con la lettera ora pubblicata e le reazioni nel complesso imbarazzate ed elusive che ha suscitato, sono serviti.

Quale il senso dell'operazione di Silvio Pons? Forse liquidare completamente il comunismo storico italiano: Togliatti infido e traditore, Gramsci non più l'"angelo" che ripudia il "demone" Stalin. E così il gioco è fatto. Ma anche questo convalida la nostra posizione: Stalin e Gramsci, due leaders entrambi impegnati sino all'ultimo per il nostro grande ideale e per la difesa indefettibile di esso.

Aldo Bernardini

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