Sinistra, Governo e poltrone

(ancora una volta: due Pieri, ben differenti)

Aldo Bernardini

24 novembre 2006


Una gigantesca ondata di perbenismo, un’alluvione di pensiero unico sta sommergendo i politici italiani che si autoconsiderano di sinistra o addirittura “comunisti”. Dovremo tornare sui mea culpa e i colpi al petto a Roma e a Budapest nel cinquantenario dei “fatti di Ungheria”, con dichiarazioni e atteggiamenti per i quali, a parte le criminalizzazioni infami di dirigenti del passato, non sai se abbiano avuto prevalenza l’indecoroso avvilimento personale o le grevi manifestazioni di ignoranza storica. O addirittura la mistificazione della realtà attuale a livello mondiale e nei paesi dell’Est europeo, una realtà che di per sé sbugiarda le posizioni blaterate anche da alti scranni istituzionali.

Ci occupiamo adesso invece del compagno Diliberto e dei sepolcri imbiancati che lo criminalizzano per aver in parte, fino all’abbandono, partecipato al corteo romano sulla Palestina di sabato 18 novembre. Al compagno Diliberto e agli altri come lui, diciamo anzitutto che siamo alquanto saturi delle posizioni di chi tiene il piede in due staffe e di chi sembra compiere un atto di coraggio per poi subito smentirlo: e sul punto non diciamo oltre. Ma sul merito della vicenda anche qui il pentitismo non giova: anzitutto si partecipa ad una manifestazione perché se ne condividono in modo univoco le parole d’ordine, senza che si possa subire una colpevolizzazione per episodi attribuibili soltanto ad una parte, per di più esigua, dei manifestanti. Pretendere in anticipo la garanzia che non accadano simili episodi vuol dire associarsi non solo alle forze di destra ufficiale e ai riformisti che in realtà di destra sono, ma anche a quelle sinistre pseudo-alternative ormai inficiate dal germe del governismo: la pretesa di imporre il silenzio a qualunque posizione veramente radicale e alternativa, autenticamente contraria al sistema dell’imperialismo. In questo ordine di idee la manifestazione romana nella sostanza affermava la legittimità assoluta, indubitabile per il diritto internazionale e nello stesso quadro delle N.U., delle resistenze per l’ autodeterminazione dei popoli, la lotta contro i crimini internazionali dell’aggressione e dell’occupazione (questa è anche di chi, ponendosi contro le forze di resistenza, si installa anche successivamente in un paese invaso, per asserite funzioni di pace, delle quali non è stato richiesto da chi resiste all’invasione). Legittimo è ovviamente il rifiuto di ogni forma di colonialismo e in tale quadro si pone l’ interrogativo se l’occupazione coloniale israeliana in Palestina sia solo quella del 1967 o non anche quella consolidata nel 1948: ciò che non implica, secondo gli equivoci nutriti da ignoranza o malafede, l’ espulsione o addirittura il massacro della popolazione ebraica, bensì un diverso assetto politico statuale in Palestina, presupponente il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, il vero rispetto dell’ autodeterminazione, l’eliminazione del carattere “etnico” di quella che viene chiamata l’entità sionista: il mantenimento di tale carattere, invece, fa paventare che la formula dei “due popoli, due Stati” sia da una parte illusionistica, dall’altra alludente ad un vero e proprio regime di apartheid, con i palestinesi ridotti entro riserve e bantustan.

Gli alti lai per gli episodi incriminati nel corteo del 18 dicembre – non ci soffermiamo sull’ipotesi che si sia trattato di provocazioni organizzate – si sarebbero potuti al più esternare in termini di buon gusto e di opportunità. Essi non possono, come invece è stato fatto, prescindere dal merito delle questioni: quegli episodi, in quanto autentici, hanno, in modo discutibile o meno qui non è fondamentale, significato il rigetto delle imprese colonialiste e imperialiste. Chi vuole condannare quegli episodi sarebbe più credibile se ricordasse le aggressioni, o partecipazioni ad aggressioni, criminali, corredate di tanti episodi di crimini di guerra, compiute dall’Occidente, Israele incluso, e per l’Italia compiute indifferentemente da centro-sinistra e da centro-destra, per limitarci ai recenti anni.

Una cosa deve essere chiara: accanto all’imperialismo statunitense ed agli altri ve ne è uno italiano che oggi, con qualche maggior furbizia e abilità, cerca di affermare una propria (o europea) autonomia che non ne altera in meglio la natura e forse, nella fase attuale, la rende ancor più funzionale, nel senso della copertura, agli interessi anche del maggiore imperialismo. Solo un esempio di questi giorni, che toglie ogni velo: il sostegno dichiarato dal Presidente del Consiglio Prodi e dal Ministro degli Esteri D’Alema al premier libanese Siniora, evidente alleato degli USA, in contrapposizione a Hezbollah e alle altre forze di resistenza libanese. E ancora la condivisione, partecipata anche dalle forze governative c.d. radicali, della politica del nation- building e cioè dell’esportazione della “democrazia” e di sistemi para- occidentali nei paesi invasi, dall’Afghanistan all’Iraq. Per non parlare poi della partecipazione all’infame strangolamento dei palestinesi e del loro legittimo governo Hamas, che ha trovato puntuale conferma nel diniego del visto alla militante palestinese Leila Khaled, cui è stato impedito di partecipare al corteo romano del 18 novembre. La verità è che la sinistra governativa anche c.d. radicale, a differenza dai tempi del Vietnam, quando non era considerato scandaloso negli stessi Stati Uniti bruciare le bandiere nazionali e le effigi dei presidenti guerrafondai, oggi si scandalizza non tanto per la coltre di buonismo e perbenismo imperante, non solo per l’attaccamento alle poltrone, alte e meno alte, e la conseguente disponibilità a pagarne il prezzo, ma perché non condivide la lotta contro l’imperialismo: che infatti neppur più nomina. Non considera più sacrosante le lotte di indipendenza ma – come tutti gli imperialismi e i colonialismi e come da sempre le socialdemocrazie – si trincera dietro i modelli di civiltà (la “democrazia” occidentale contro i sistemi sociali, culturali, politici dei popoli e Stati che resistono, che non sta a noi giudicare e tanto meno modellare con le buone o con la forza). E’ proprio questo il dissidio di fondo che traspare, su “Liberazione” del 22 novembre 2006, fra la chiara posizione antimperialista del compagno Piero Bernocchi (mi sarei risparmiato il pistolotto finale…) e la replica purtroppo interna alla logica dell’imperialismo, se non altro perché non si pone nessuna domanda sulla natura e sulla funzione dello Stato di Israele, espressa dal direttore Piero Sansonetti. Ancora una volta: due Pieri, ben differenti (si rimanda alla nota del 2 maggio 2006).

Aldo Bernardini


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