Teologia del "politically correct", ossia dell'imperialismo

Anche i non credenti si aspetterebbero dal Pontefice romano capacità visionaria e profondità di interpretazione. Le esternazioni di Benedetto XVI in Polonia e in particolare ad Auschwitz ci sono parse molto deludenti.

Già il messaggio inviato dal Papa ai funerali dei militari colpiti a Nassiriya il 27 aprile da resistenti irakeni era stato assai riduttivo: “Vittime di un barbaro attentato terroristico”. Senza una parola per le migliaia di irakeni sterminati nel quadro di una criminale aggressione e di un'altrettanto criminale conseguente occupazione. Più schiacciato di così sul politically correct non si potrebbe immaginare.

Ma ora in Polonia. A Cracovia (“Liberazione”, 27 maggio 2006), nel ricordare Wojtyla, Benedetto XVI non ha evitato di menzionare che, durante quel pontificato, “sono cambiati sistemi politici, economici e sociali. In diversi paesi la gente ha riacquistato la libertà”. Questo proprio quando persino un settimanale cattolico di Cracovia ha dovuto riconoscere che tutto ciò ha portato al trionfo di un liberismo economico che “ha prodotto effetti distruttivi, facendo schizzare alle stelle la disoccupazione”. Come minimo!

La visione generale dell'attuale Pontefice viene sintetizzata da Fulvio Fania (“Liberazione”, 28 maggio 2006) in questo modo: il Papa invita a non esagerare nell'attribuire colpe senza prova o nelle autoaccuse per la Chiesa e i suoi fedeli, dal momento che “quasi tutti hanno attraversato il fango del Novecento, chi sotto il Patto di Varsavia, chi ancor prima nella Germania nazista”. Fania avrebbe fatto bene a chiarirci se questo bel concetto uniformante, che poi costituisce elemento fondante dell'esternazione pontificale, è anche suo.

Il discorso di Ratzinger ad Auschwitz è stato apprezzato da taluni (ad es., Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”), trovato limitativo da altri (Rina Gagliardi, “Liberazione” del 30 maggio 2006, che però sfugge a talune questioni fondamentali) e da rappresentanti della Comunità ebraica. Se le riserve di questi ultimi, dal loro prevalente ed esclusivistico punto di vista, appaiono comprensibili, la tragedia degli ebrei di fronte al nazismo, pur nella sua specificità, non va però assolutizzata ma vista insieme alle altre. Essa non costituisce l'elemento centrale ed assorbente della criminale impresa nazifascista: questo è dato invece dalla spinta imperialistica del capitalismo tedesco che, per le circostanze storiche e i presupposti culturali e nel quadro della situazione mondiale, si è sviluppata parossisticamente anche con l'artificiosa esigenza di cementare un'unità del popolo contro il “nemico interno” simbolizzato anzitutto dalla componente ebraica. Non ci sofferma comunque su questo aspetto, che a molti è invece apparso il principale. Sembra piuttosto che il complessivo discorso di Ratzinger rappresenti in realtà una ultrasemplificazione della storia, non si esita a dire una deformazione che arriva alla falsificazione, quando, per spiegare il fenomeno del nazionalsocialismo hitleriano, Ratzinger si proclama “figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere ed anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio”. Un vero monumento al politically correct ad uso anzitutto tedesco: i nazisti furono in realtà espressione e strumento di forze sociali, quelle del capitale, che volevano anzitutto schiacciare i movimenti dei lavoratori (e le prime vittime in Germania furono i comunisti, dimenticati da Benedetto XVI), dare corso ad un imperialismo espansionistico che non interessava certo soltanto i governanti nazisti, bensì il capitale tedesco, e furono vigorosamente aiutati dalle potenze occidentali nell'intento di scatenarli contro l'Unione Sovietica di Stalin, allora in grande crescita. La criminalizzazione dei nazisti, e con questo non vogliamo certo negare gli aspetti criminali della loro politica, è sempre servita, in Germania e più in generale nell'Occidente, ad occultare le responsabilità delle forze retrostanti, delle altre potenze capitalistiche, della stessa Chiesa cattolica: almeno nelle sue alte sfere (Pio XII), questa fu ben tollerante e spesso connivente con i nazifascisti. Altro che silenzio di Dio! Ma la vulgata trionfante vuol cancellare tutto ciò. Questa posizione è stata dunque ben servita nel discorso di Ratzinger, che naturalmente ha evitato ogni accenno ai veri resistenti tedeschi, i grandi intellettuali come i fratelli Mann, il compositore Hindemith e tanti altri, i cospiratori degli ultimi anni, i comunisti esuli come Brecht o i dirigenti e militanti che da Mosca aprirono la strada al primo Stato socialista in terra tedesca (Pieck, Ulbricht, e piace ricordare il nostro amico Gossweiler).

Il discorso di Benedetto XVI si completa, nella piena coincidenza con l'attuale pensiero unico e dittatura del politically correct, con questo “straordinario” concetto: “Poi c'è la lapide in russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: liberando i popoli da una dittatura, dovevano servire anche a sottomettere gli stessi popoli a una nuova dittatura, quella di Stalin e dell'ideologia comunista”. Così il quadro è perfetto: con l'abuso mistificante del concetto di dittatura, prescindendo dalle forze sociali diversificate a base delle diverse realtà, Ratzinger fa propria l'equiparazione nazismo-comunismo, a maggior gloria dell'ideologia dell'attuale imperialismo e dei tanti revisionisti (politici e storici) sul campo. Così Hitler, che fu armato essenzialmente proprio contro Stalin, ma che questi con mossa geniale riuscì a sviare verso Occidente, fu un dittatore come il sovietico. Non conta nulla dunque l'opposizione assoluta dei sistemi; non conta nulla che i soldati “russi” (sovietici, Santità!) senza Stalin e il suo Partito non sarebbero stati nulla. Essi morivano nel nome di Stalin. Essi combattevano per il socialismo. Nessuno ha notato che alla loro memoria è stata arrecata un'offesa gravissima. L'essenziale di tutto ciò lo ha colto, almeno in parte, l'esponente della Comunità ebraica italiana Amos Luzzatto: “Mi sembra si tratti di un atteggiamento che finisce per assomigliare in qualche modo a ciò che ci è capitato di vedere anche nella politica italiana: un omologare di fatto paesi e regimi diversi che finisce spesso per mitigare le responsabilità del nazifascismo” (“Liberazione”, 30 maggio 2006).

Francamente, le esternazioni pontificali, nella loro banalità peraltro funzionale al sistema dell'imperialismo, esaltano la capacità interpretativa della storia, che è propria del marxismo-leninismo e non si rifugia nell'astrazione del “Male” assoluto, di fronte a cui, è sottinteso, starebbe il “Bene” del sistema imperialistico del profitto e della guerra. Non possiamo dimenticare che l'escrescenza nazifascista è frutto diretto del sistema del capitalismo imperialistico, il cui più radicale antagonista, al di là dell'alleanza tattica nella seconda guerra mondiale, è stato il sistema socialista dell'Unione Sovietica di Stalin.

Aldo Bernardini

1° giugno 2006


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