Lo stato irakeno e la resistenza

Al momento della cattura, il Presidente Saddam Hussein, secondo quel che più tardi ha riportato la stampa, ha detto "La guerra non è finita. Non avete ancora vinto la guerra.". Qui è la chiave per comprendere dal punto di vista giuridico quanto avviene in Iraq. Che si sia trattato di una aggressione vergognosa, coperta da spudorate menzogne è riconosciuto da vaste cerchie. Così pure, genericamente, che un popolo che subisce un'invasione abbia un diritto di resistenza. Ma qui finisce la comprensione della parte "democratica" o "progressista" delle forze politiche e dell'opinione pubblica. La Resistenza infatti dovrebbe essere ben educata, seguire le regole, mirare alla "democrazia", per taluni al socialismo, non essere guidata anche dal clero.

A fronte dell'indicibile gravità della violazione dei diritti di un popolo e di uno Stato sovrani, di uno degli episodi più gravi della storia contemporanea sotto il profilo etico, si ergono i feticci mentali che annebbiano una corretta lettura di quanto avvenuto in Iraq e delle conseguenze da trarne. Il proclamato carattere "tirannico" di quello che viene chiamato il regime di Saddam Hussein (che nessuno, fuori dagli irakeni, ha il diritto di inalberare come base di lotta o addirittura di guerra), gli auspici dell'avvento di una società "democratica" di tipo occidentale in Iraq pur sotto guida dell'invasore finiscono per capovolgere la valutazione etica e giuridica dell'aggressione e, con un tipico rovesciamento di fatti e di principi, come già per la Jugoslavia, sfociano in una sorta di giustificazione della situazione di fatto, o asserita tale, provocata dall'occupazione e del c.d. processo politico istituito dalle forze occupanti insieme a collaborazionisti irakeni.

Il diritto internazionale ci dice tutt'altro. Si intende non quello fantasticato dagli invasori e da tanti giuristi asserviti, bensì quello consolidato dopo la seconda guerra mondiale e consacrato in larga misura nella Carta delle Nazioni Unite e in dichiarazioni solenni dell'Assemblea generale, che enunciano norme vincolanti quando siano chiara esplicitazione di principi fondamentali della Carta. La ris. 2625 del 1970 fra l'altro dichiara che una guerra di aggressione è un crimine contro la pace e che tutti gli Stati sono obbligati a non aiutare le attività sovversive o armate miranti al rovesciamento violento del regime di un altro Stato o a interferire nella lotta civile in esso. Nel definire l'aggressione, la ris. 3314 del 1974 specifica fra l'altro che è aggressione l'invasione o l'attacco al territorio di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato o qualunque occupazione militare, anche temporanea, risultante da una tale invasione o attacco; e si aggiunge che nessuna considerazione di qualsivoglia natura, politica, economica, militare o altro potrebbe giustificare un'aggressione. Nella ris. 36/103 del 1981 si precisa che ogni Stato ha il diritto sovrano ed inalienabile di determinare liberamente il suo sistema politico, economico, culturale e sociale senza intervento dall'esterno e si enuncia il divieto per tutti gli Stati di sconvolgere l'ordine politico, sociale od economico di altri Stati, abbattere o cambiare il sistema politico di un altro Stato o il suo governo, con il dovere di astenersi da campagne diffamatorie, denigrazioni o propaganda ostile contro altri Stati e i loro governi. La ris. 39/17 del 1984 riafferma la legittimità della lotta dei popoli per la loro indipendenza, integrità territoriale, unità nazionale e liberazione dal dominio coloniale e occupazione straniera con tutti i mezzi possibili, inclusa la lotta armata. Costituisce dunque aggressione, cioè crimine contro la pace, l'azione violenta e l'occupazione per sostituire il sistema del partito Baath e del Presidente Saddam Hussein.

In termini di diritto tutto ciò comporterebbe l'obbligo di porre termine all'occupazione dell'Iraq e di ritirare tutte le truppe straniere a qualunque titolo presenti, con la realizzazione delle condizioni per il ripristino della situazione precedente, salve le eventuali modifiche che possano poi essere introdotte dal popolo irakeno liberamente determinantesi, sul presupposto almeno per il primo momento che Saddam Hussein è tuttora il legittimo capo dello Stato irakeno, impedito nelle sue funzioni dall'illecita occupazione. Ma la sua vita è in pericolo, attraverso un infame processo politico e privo di legittimità. Tutto ciò che da questa occupazione pretende trarre frutto (ad es., l'abbattimento di un presidente certo non tenero e osteggiato da una parte della popolazione, che ha commesso errori ma ha costruito lo Stato indipendente e laico e ora ha lanciato la Resistenza) finisce per costituire accettazione del risultato dell'aggressione.

Gli invasori intendono riprodurre sul piano giuridico lo schema della Germania del 1945 con la caduta del nazismo: estinzione completa dello Stato tedesco, assunzione dei poteri sovrani e nel loro quadro rinascita dello Stato locale (ne sorsero poi due) secondo le linee indicate dagli occupanti, sino al lento ripristino della sovranità. Tutto il processo avviato in Iraq occupato è stato incanalato da normative stabilite da Paul Bremer, primo governatore (occupante). Gli "organi" autoctoni irakeni sono sorti su questa base e sulla stessa si sono attuati i passi successivi, le Costituzioni provvisorie, le elezioni e così via. Quale valutazione darne?

La situazione è assolutamente diversa da quella della Germania nazista. Anzitutto non vi è stata capitolazione irakena, cioè resa incondizionata all'occupante con il significato di una sottomissione di per sé espressiva di una cessazione delle funzioni sovrane dello Stato tedesco verificatasi comunque in via di fatto. In Iraq tutt'altro. La riportata dichiarazione di Saddam Hussein si è rivelata non un bluff, bensì l'espressione di una continuazione della guerra attraverso una Resistenza organizzata da anni, ciò che del resto risulta da tutta una serie di altri fattori, da ultimo dall'intervista al "Manifesto" (23 settembre 2005) di Salah al Mukhtar che conferma espressamente questo dato essenziale della situazione. Senza la resistenza organizzata dal Baath, non avremmo certamente la durata, la costanza e l'irriducibilità attuali. Naturalmente a quelle forze entrate in clandestinità se ne sono unite altre di diversa e talora confliggente ispirazione, che sono essenziali per la vittoria.

Considerata la sua struttura e composizione, imperniata su quanto costruito sotto il legittimo governo nazionale, la Resistenza irakena costituisce sotto la particolare veste assunta (clandestinità ma sicuro appoggio di gran parte della popolazione) la continuità dello Stato irakeno, di cui surroga gli organi impediti e combatte, nella forma della guerriglia, a continuazione della guerra scatenata dall'aggressione anglo-americana. Come da numerosi esempi storici, e ricordiamo gli Stati occupati dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale, essa impedisce il consolidamento delle diverse situazioni, cioè l'effettività nel senso del diritto internazionale, facendola scadere a mera fattualità: sia nella parte destruens, cioè relativa all'estinzione dello Stato irakeno, che non può considerarsi consolidata e definitiva, sia per quanto riguarda la parte construens, cioè la qualificazione giuridica dell'occupazione e di quanto nel suo quadro effettuato dagli occupanti: l'occupazione è la classica occupazione militare di un paese straniero non debellato, con poteri dell'occupante, forti certamente ed estesi, ma non totali, ed anzi con molti vincoli posti dal diritto dell'occupazione bellica (Convenzioni dell'Aja e di Ginevra), che indica senz'altro come illecite tante attività e iniziative degli occupanti, quali le modifiche dell'ordinamento irakeno e addirittura la pretesa di instaurarvi "autorità" autoctone alle quali a un certo momento avrebbero consegnato la sovranità, facendo cessare l'occupazione. Anzi, trasformandola in presenza di truppe straniere richiesta da un governo sovrano. Tutto questo è commedia e finzione: nell'occupazione militare ciò non è possibile, anzi vietato, il c.d. governo irakeno (e il c.d. Parlamento, la c.d. Costituzione, le c.d. elezioni…) è un governo fantoccio o quisling, come Vichy in Francia e Salò in Italia. Ed è già complicità con l'invasore non sottolineare in ogni circostanza tutto ciò. Naturalmente senza sostanziale differenza fra il prima e il dopo 30 giugno 2004 (data della pretesa riconsegna della sovranità allo Stato irakeno), dal momento che la Resistenza continua immutata e la presenza delle truppe straniere, imposta dall'esterno con la copertura fittizia dell'invocazione da parte di un "governo" che non ha la forza di reggersi da solo e quindi non è indipendente, è la stessa prima o dopo quella data.

In tutto questo le Nazioni Unite hanno svolto una funzione di supporto dell'occupazione, una volta questa instaurata: deve ritenersi che tutte le risoluzioni del Consiglio di sicurezza relative a questa fase siano contrarie a principi fondamentali e a norme imperative del diritto internazionale, nonché alla stessa Carta delle Nazioni Unite e quindi invalide e illecite. Le Nazioni Unite non sono un legislatore mondiale, non possono pregiudicare lo status di un paese sovrano e del suo legittimo governo, benedicendo una autorità fittizia come quella attuale di Baghdad.

Checché sostengano non solo i fautori dell'occupazione dell'Iraq, ma tante forze c.d. democratiche e progressiste, portatore della sovranità e della legittimità in Iraq è la Resistenza. L'idea di sostituire le truppe occupanti con forze "neutre" sotto l'egida delle Nazioni Unite non indica altro che la prosecuzione dell'occupazione in altra forma. Solo con il consenso della Resistenza sarebbe possibile pensare a qualche cosa di simile, se gli irakeni riusciranno a dimenticare l'infamia di quanto avallato dalle Nazioni Unite nella fase attuale e soprattutto nella fase precedente della prima guerra del Golfo e del criminale embargo genocida contro il popolo irakeno.

Le forme della lotta di questa Resistenza non spetta a noi giudicarle. Un paese invaso da forze smisuratamente più potenti, con una mostruosa tecnologia, ha diritto di difendersi in ogni forma possibile. Si gioca troppo con la categoria di terrorismo. D'altra parte, è pure possibile che talune modalità di lotta particolarmente crude non siano ascrivibili alla Resistenza vera e propria, ma a gruppi autonomi o addirittura, in qualche caso, ad iniziative di servizi segreti stranieri nell'intento anche di suscitare guerre civili fra gli irakeni stessi, scontri interetnici o interreligiosi, secondo una tecnica tipica dell'imperialismo e sperimentata in tante situazioni. La Resistenza non è terrorismo. Terroristi sono gli invasori. La Resistenza irakena, come minimo, sta impantanando le forze più aggressive del pianeta e impedendo altre guerre. Essa indica anche ai popoli la via di resistere per l'indipendenza nazionale contro i dominatori del mondo. Questo nella situazione mondiale attuale è un valore primario, che, nell'arretramento generale delle condizioni causato dalla caduta dei paesi socialisti, resta caposaldo di lotta al di là del modello di società proposto. Il quale del resto, nelle forze più avanzate della Resistenza irakena, è senz'altro progressista in senso sostanziale, mentre sono proprie forze interne che collaborano con l'occupante quelle che minacciano di far regredire la società irakena.

Aldo Bernardini

Roma, 2 ottobre 2005


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