Ma è ancora possibile uno Stato palestinese?

Danilo Zolo

Il Manifesto, 7 dicembre 2006


Nei primi anni sessanta ho avuto la fortuna di incontrare a Firenze e di intervistare Martin Buber, uno dei più importanti filosofi europei del secolo scorso. Ebreo, di orientamento esistenzialista e socialista, era considerato il padre spirituale del nuovo Stato ebraico. La sua figura ieratica e il portamento austero incutevano il rispetto che si deve a un grande pensatore, carico di anni e di saggezza.

Buber dissentiva dalla ideologia sionista, poiché sosteneva che il ritorno del popolo ebraico nella «Terra promessa» non doveva portare alla costruzione di uno Stato etnico-religioso riservato agli ebrei. La patria ebraica doveva essere uno spazio aperto anche al popolo palestinese. La convivenza pacifica fra ebrei e arabi non si sarebbe mai ottenuta creando uno Stato confessionale che costringesse i nativi ad abbandonare le loro terre. La pace non sarebbe stata garantita, sosteneva Buber, neppure attraverso la formazione di due Stati, uno ebraico ed uno islamico, come le Nazioni Unite avevano infelicemente raccomandato nel 1947. La via della pace passava attraverso un rapporto di cooperazione federale fra i due popoli, su basi paritarie, all'interno di una struttura politica unitaria. Per raggiungere questa meta occorreva che gli ebrei emigrati in terra palestinese si sentissero semiti fra i semiti e non i rappresentanti di una cultura diversa e superiore, secondo i moduli del colonialismo europeo.

Martin Buber, nonostante la sua autorità, non trovò ascolto presso i leader sionisti. Menachem Begin, Chaim Weizman, Ben Gurion sostenevano che il compito degli ebrei era ricostruire dalle fondamenta e modernizzare un territorio semideserto e arretrato. Lo Stato ebraico avrebbe dovuto escludere ogni relazione, se non di carattere subordinato e servile, con la popolazione autoctona. Ed è in nome di questa logica coloniale che nel 1948 iniziò l'esodo forzato di grandi masse di palestinesi -- non meno di settecentomila -- grazie soprattutto al terrorismo praticato da organizzazioni sioniste come la Banda Stern e l'Irgun Zwai Leumi, celebre per aver raso al suolo il villaggio di Deir Yassin e sterminato i suoi 300 abitanti. Prese avvio così quella che oggi un autorevole studioso israeliano - lo storico Ilan Pappe - chiama «la pulizia etnica del 1948».

Secondo Pappe la pulizia etnica, varata nel marzo del 1948 con il Piano Dalet, non si è più fermata. La situazione attuale vede ormai l'intero popolo palestinese disperso, oppresso, umiliato, ridotto in povertà e fatto oggetto di una violenza spietata. In Israele la pulizia etnica è diventata una ideologia di Stato poiché è il credo sionista che lo impone. Se già alla fine del 1948 Israele occupava gran parte della Palestina mandataria, oggi la occupa al 100% dopo aver invaso militarmente e colonizzato quell'esiguo 22% che era rimasto ai palestinesi.

L'epurazione etnica è stata via via accompagnata dalla demolizione di migliaia di case, dall'intrusione di imponenti strutture urbane nell'area della Gerusalemme araba, dall'abbattimento di centinaia di migliaia di olivi e di alberi da frutta. E in parallelo è continuata l'espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania - i coloni sono ormai oltre 400 mila -, la costruzione di decine di by-pass routes riservate ai coloni, la depredazione delle riserve idriche, l'installazione di centinaia di checkpoints (più di 700), la carcerazione o l'uccisione «mirata» di leader politici.

E a tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la «barriera di sicurezza» che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. E oggi il governo razzista Olmert-Lieberman si esibisce nella strage di donne e di bambini, in particolare a Gaza, dove le condizioni di vita di un milione e mezzo di persone sono ormai disperate, come ha recentemente provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy.

L'idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese - sostiene Ilan Pappe - è patetica illusione o crudele impostura. Gli effetti della pulizia etnica sono irreversibili: mai uno Stato palestinese sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese, laico ed egualitario. Occorre pensare ad una formazione politica pluralistica entro la quale tutte le comunità palestinesi, compresi gli «arabi israeliani» di Galilea e i profughi oggi dispersi in Libano, in Siria e in Giordania, godano di una piena sovranità federale.

Questa idea «buberiana» si sta affermando fra gli intellettuali ebrei illuminati, non solo in Israele. La condividono studiosi di prestigio come Jeff Halper, Virginia Tilley, Sara Roy, e sembra diffondersi anche fra la popolazione palestinese. Nonostante tutte le possibili e giuste obiezioni, nessuno dovrebbe mettere da parte sbrigativamente la prospettiva federale, continuando a ripetere il ritornello «due popoli, due Stati». Comunque sia,, quello che sembra ormai certo, dopo il fallimento di ogni tipo di accordo, è che la pace non sarà possibile finché durerà l'occupazione. Solo un incondizionato ritiro israeliano dalle aree occupate nel 1967 può aprire la strada a negoziati che diano qualche frutto. La fine della «pulizia etnica» è la prima condizione per l'avvio di un percorso di pace. Ed è anche la condizione perché gli ebrei che oggi vivono in Israele abbiano il diritto di chiedere ai palestinesi e al mondo arabo-islamico di essere accettati come parte integrante del Medio Oriente. Ma per costringere i leader sionisti a fare questo passo decisivo sarebbe necessaria una forte mobilitazione internazionale. Occorrerebbe applicare a Israele le stesse misure che sono state adottate contro il Sud Africa dell'apartheid. Si dovrebbe iniziare con l'invio di consistenti équipes di osservatori internazionali sia a Gaza che in Cisgiordania e proseguire con misure severe come l'embargo delle armi, le sanzioni economiche e il boicottaggio di ogni forma di collaborazione, inclusa quella accademica e scientifica. L'iniziativa dovrebbe partire congiuntamente dai paesi arabi mediterranei e dall'Europa e dovrebbe coinvolgere le grandi potenze regionali emergenti, a cominciare dalla Cina, dall'India, dal Sud Africa e dal Brasile. Anche le potenze geograficamente più lontane dall'epicentro palestinese non possono non capire, come ha scritto Pappe, che siamo tutti a bordo dello stesso aereo, senza pilota.

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