Tutti contro l'Iran

Tommaso Di Francesco

Fonte: Il Manifesto
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10 novembre 2011


Parlano di una nuova guerra. Non hanno ancora spento i motori dei jet occidentali che hanno bombardato la Libia, dove sotto le macerie di Sirte e delle altre città scheletrite prende corpo il nefasto presagio di un nuovo, più violento conflitto intestino, né hanno smesso di far volare i bombardieri sui cieli afghani, che già tornano a ripetere la parola guerra. Stavolta contro l'Iran, accusato ora anche dall'Aiea di essere «quasi pronto» a detenere l'atomica, e minacciato direttamente da Israele.

Dove da settimane si dibatte se è giusto o no attaccare militarmente Tehran e dove l'opzione militare viene addirittura annunciata e sponsorizzata dal Nobel "per la pace", il presidente Peres. Una follia globale. Perché i rapporti di forza dicono che se si aprirà anche questa porta dell'inferno, non solo non sarà una passeggiata ma le ripercussioni di morte saranno subito evidenti in tutto il Mediterraneo e il Medio Oriente, a cominciare da Israele. Né spaventa più di tanto il fatto che siamo in presenza dell'arsenale atomico israeliano, per un eventuale target iraniano anch'esso nucleare.

Certo, la pubblicità con cui si annunciano le nuove minacce di guerra potrebbero far pensare proprio all'impossibilità di un nuovo conflitto armato. Eppure appare sempre più evidente il contrario, pensando anche alla tragedia che si consuma di ora in ora in Siria, ai margini della questione iraniana. Anche perché, c'insegna la storia degli ultimi quindici anni, la parola «guerra» è fatta di materia, è action painting, pensarla e pronunciarla attiva l'iniziativa, cambia la rotta delle portaerei e dei listini di borsa, trasforma mercati, banche, consumi, governi e popoli. In una parola, distrugge il diritto internazionale. Solo due anni fa Mahmud ElBaradei, presidente egiziano dell'Aiea certificava che Tehran non aveva il nucleare militare; solo un anno e mezzo fa Barack Obama riconosceva nel suo discorso del Cairo il diritto dell'Iran ad avere il nucleare civile; solo due anni, fa nei mesi precedenti alle presidenziali Usa, la Cia metteva le mani avanti contro i precedenti imbrogli iracheni sulle armi di distruzione di massa di Bush, resocontando l'inesistenza dell'atomica iraniana e dei preparativi per realizzarla. Non è chiaro che cosa sia cambiato in questi due anni, tanto più che i preparativi atomici risalirebbero al 2003.

Quel che davvero non esiste più è la funzione delle Nazioni unite per una eguale difesa del diritto internazionale. Una funzione del resto bombardata dalle tante scelte armate dell'amministrazione Usa, della leadership euro-atlantica e della stessa Israele che hanno fatto strame di convenzioni e leggi. Basta vedere il fatto che il «colpevole» Iran aderisce al Trattato di non proliferazione atomica e non ha «ancora» la bomba, mentre Israele non aderisce al Trattato, ha centinaia di testate nucleari - strategiche e tattiche - e le punta anche su Tehran. Ma l'Aiea ora a guida giapponese non lo dice e preferisce tacere.

A questo punto non basta piangere sul pacifismo versato che non c'è più. La questione vera è interrogarsi subito - ora, suggerisce il movimento americano di Occupy Wall Street - sul nesso indissolubile tra crisi globale del capitalismo finanziario e guerra.

Continuare a parlare di spread, bot, borsa, euro, banche da salvare, welfare da cancellare, lavoro da distruggere, morte delle sovranità nazionali, crisi dell'Europa, perdita della primazia Usa, separatamente dai venti di guerra che tornano a spirare, è colpevole quanto se non più di chi prepara una nuova avventura militare.

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