Le isoledel tesoro
Viaggio nei paradisi fiscali dove è nascosto il tesoro della globalizzazione

C.Wolff

Fonte: Megachip
Link: [qui]
16 agosto 2012


Nicholas Shaxson è un giornalista britannico, di quei pochi che evidentemente sentono ancora il fuoco sacro della professione del ficcanaso. Shaxson affronta un tema scabroso: i paradisi fiscali.

Questo il duro impatto dell’inizio del primo capitolo del suo libro che qui recensiamo per i lettori di Megachip:

“Più della metà del commercio mondiale passa […] attraverso i paradisi fiscali. Oltre la metà di tutti gli attivi bancari ed un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese multinazionali vengono dirottati offshore. […] l’’85% delle emissioni bancarie ed obbligazionarie internazionali si svolgono in […] una zona offshore. Nel 2010 l’Fmi ha stimato che i soli bilanci dei piccoli centri insulari ammontavano complessivamente […] ad una somma equivalente a circa un terzo del Pil mondiale”.

Si continua con il fatto che l’83% delle maggiori impresi statunitensi possedeva società off shore e secondo Tax Justice Network, il 99% di quelle europee. La sede off shore fa venire subito in mente una isola dove vige una giurisdizione segreta, opaca ad ogni velleità di controllo. Infatti nel 2007, l’Fmi ha individuato nella Gran Bretagna (appunto, un’isola) una giurisdizione segreta, l’altra è l’isola di Manhattan.

La giurisdizione segreta serve a diverse cose: evasione, elusione, irrintracciabilità dei soci di una impresa, irrintracciabilità dell’origine dei flussi finanziari, riciclaggio, false fatturazioni ed altre pratiche spinte. Tra queste scambi di favori con i narcotrafficanti, piazzisti d’armi, corruttori e tangentari di varia taglia che si comprano i loro rappresentanti all’interno del sistema politico per l’appunto detto “rappresentativo”, monarchi, generali, dittatori sanguinari e conduttori di stati canaglia che qui, dato l’ambientino, è titolo di merito.

L’off shore è la concreta condizione di possibilità perché esista sia la globalizzazione del traffico delle merci, sia la costituzioni di multinazionali, sia più di ogni altra cosa, la globalizzazione finanziaria, nonché il riciclaggio dell’economia del debito. Queste “giurisdizioni segrete” sono circa sessanta. I due gruppi principali secondo l’intrepido Shaxson sono quello britannico e quello americano. Chi si aspettava una elenco di spiaggette tropicali con palme e mojito condite da nomi esotici deve rivedere le sue nozioni non tanto di geografia, quanto di storia. Le piazze citate sono tutte attuali o precedenti colonie ancora sotto la giurisdizione Union Jack & Stars and Stripes o entità ufficialmente autonome dove però la casa madre esercita una autorità di fatto.

L’aggregato più importante, quello che conta circa la metà di queste giurisdizioni segrete è la patria della moderna Massoneria, la Gran Bretagna. Ai britannici piacciono da morire i segreti e gli omicidi rispettabili basta leggere Conan Doyle ed Agatha Christie o guardare la Signora in Giallo o il Commissario Barnaby. Capofila Jersey, Guernsey, (difficili da controllare perché sono località nel lontano canale della Manica) e l’Isola di Man (ancora più difficile perché spersa nel remoto Mare d’Irlanda) sono seguite dalle Cayman ed altre dove veleggiavano i vecchi pirati come H. Morgan.

Sembra incredibile ma la forma politica di alcune di queste dipendenze della Corona britannica sono baliaggi, una rara forma feudale che risale al Medioevo. Con quelle controllate indirettamente, come Hong Kong, Singapore, Bahamas, Dubai ed Irlanda e conteggiando anche gli attivi del sistema bancario della City, i britannici controllano la metà degli attivi bancari del mondo, quado si dice il ricardiano vantaggio comparato.

Il posto dove si fanno le operazioni più schifose pare sia Gibilterra, poi c’è Malta (ed anche Cipro), Bermuda, le Isole Vergini (un po’ di verginità non guasta mai in questo porcaio), Turks & Caicos. Le Isole Cayman sono il quinto centro finanziario del pianeta con 80.000 società (per 44.000 abitanti ) e sede dei tre quarti degli hedge fund del mondo.

Poi c’è il polo americano, perché anche loro sono anglosassoni d’origine e le tradizioni di famiglia contano. Gli americani si sa è gente pratica e quindi alcune faccende le sbrigano direttamente in casa. Così le banche della Florida o gli affari svolti nel Wyoming, Delaware, Nevada (dove se vi rimane qualche spicciolo i casinò di Las Vegas vi aspettano scintillanti) non hanno nulla da invidiare quanto a segretezza e favore fiscale rispetto ai Caraibi britannici.

Poi se volete l’esotico, ci sono le solite Isole Vergini, (ci sono vergini inglesi e vergini americane) e le Marshall che con Liberia e Panama offrono un porto sicuro ad ogni traffico battente la bandiera di chi non vuol far sapere la sua identità. Tanto varrebbe rispolverare il jolly roger. Enron aveva 862 controllate off shore, Citigroup 427, New Corporation dell’ineffabile Murdoch 152. Le multinazionali fatturano dalle località con vantaggio fiscale alle sedi piazzate nei paesi normali. I profitti di questi, vanno a quelle ed evitata la tosatura fiscale, da quelle partono per le scorribande conosciute anche con il pomposo nome di “responso dei mercati”.

Gli europei si limitano alla Svizzera, Andorra, Monaco, Liechtenstein, Lussemburgo, ma favori sui bilanci si possono ottenere anche in Irlanda e soprattutto nella altrimenti prodiga di consigli sulla virtuosità dei bilanci statali, Olanda. In Italia potete sempre bussare a San Marino o in Vaticano se avete buone entrature nella mafia. Stati nel cui nome potrete imbattervi se cultori della parole crociate di Bartezzaghi come Vanuatu, Nauru e Mauritius sono conduit heaven dove i vostri traffici da e per la Cina, l’India e l’Africa possono cambiare identità fiscale senza problemi.

La finanziarizzazione non esisterebbe senza l’off shore. Questa ragnatela di paradisi allettanti per la riproduzione asessuata dei capitali, sottrae income fiscale a gli stati che sono poi costretti a chiedere soldi in prestito su quei stessi mercati in cui questi capitali gonfi di illegalità, operano.

Questo è quanto del solo primo capitolo, nel libro – Nicholas Shaxson, Le isole del tesoro. Viaggio nei paradisi fiscali dove è nascosto il tesoro della globalizzazione, Milano, Feltrinelli, 2012, 19 euro – ce ne sono altri 11.

L’impressione che ne trae è duplice ma collegata.

La prima è che quando si parla di capitalismo e capitalisti sembra ci sia una superclasse transnazionale che vive in un “non luogo”, secondo l’espressione di Augé che molti ha affascinato nel mainstream del postmoderno a cui sono andati appresso anche i Negri, gli Hardt ed altri critici conformisti.

Qui invece viene fuori forte e chiaro che questi sono sistemi non tollerati ma debitamente costruiti, protetti ed incentivati dagli Stati Uniti d’America e dal Regno Unito, ovvero l’hot spot della finanza e l’hot spot della banca che si saldano in quel sistema banco-finanziario che oggi domina quella economia che già da tre secoli dominava le nostre società. Son questi gli “stati canaglia” e del resto certe espressioni ti vengono in mente solo se ne hai familiarità, ognuno usa l’insulto che più teme di ricevere.

La seconda impressione che se ne trae è la più sgradevole. Quando si citano economisti americani o britannici, cosa che ultimamente fanno anche molti critici-critici nostrani, quando si affoga nei marosi di discussioni zeppe si involuzioni semantiche fatte a posta per farti capire che tu sei cretino e non puoi capire i misteri della curva di Phillips o l’equazione di Fischer, bisognerebbe scuotersi e scuotere gli interlocutori per dir loro “Ma de ché state a parlà?”.

L’intera faccenda si riduce ad un assioma semplice, semplice.

Gli anglosassoni hanno varato dalla decisione di Nixon di creare moneta per volontà (fiat money) senza alcun corrispettivo reale di ricchezza materiale (si ricordi che la moneta essenzialmente è un semplice debito). Il presupposto venne poi sviluppato con la globalizzazione, il monetarismo, la deregolamentazione e la finanziarizzazione, per ordinare l’economia stante che l’economia già ordinava cultura, società e politica dei vari paesi e dei vari popoli.

Ordinando l’economia con la finanza, si sono costruiti l’impero della circolazione finanziaria che attira capitali da ovunque per vivere di commissioni, di occupazione correlata e per gestire questa massa di soldi, in parte veri, in parte da loro stessi stampati su foglietti di carta verdognola o su certificati di nessun valore reale, per una nuova stagione di geopolitica della ricchezza e dei rendimenti crescenti.

Comminando premi e punizioni a piacere, gestendo la ricchezza dell’élite mondiale e dei popoli che a queste sono subordinati, hanno pensato così di sopravvivere alla loro decadenza economica, demografica, culturale e politica.

I baroni anglosassoni del 1215 imposero il “no taxation without representation”. Ora la representation se la comprano al mercato della democrazia rappresentativa con i soldi salvati dal “no taxation”. Questa è la libertà dei veri liberali.

Come diceva Fernand Braudel, la fase finanziaria è sempre l’autunno di una egemonia che sta perdendo il potere reale il ché ci apre alla speranza che s’alzi un nuovo vento. Purtroppo però Ungaretti ci ricorda anche che noi, come i soldati, “si sta come d’autunno su gli alberi le foglie”.

Buona estate.

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