Russia e Stati Uniti ai ferri corti

Stefano Vernole

Eurasia, 4 Ottobre 2006


Chi segue con attenzione le relazioni tra i giganti mondiali aveva capito da tempo quanto la momentanea convergenza d’interessi tra Russia e Stati Uniti, seguita all’11 settembre 2001, fosse un “fuoco di paglia”.

Le manovre militari russo-cinesi, la cacciata delle basi del Pentagono dall’Uzbekistan, l’architettura geopolitica disegnata dall’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (definita da qualcuno il “nuovo Patto di Varsavia”), l’annullamento anticipato da parte russa del debito con il Club di Parigi dopo che già era stato saldato quello con il Fondo Monetario Internazionale, il rifornimento dell’Armata rossa ad Hizbollah di armamenti sofisticati per compensare parzialmente il suo gap tecnologico con l’esercito sionista, l’aiuto all’Iran per la costruzione del reattore nucleare di Busher, sono tutte azioni che avevano indispettito profondamente le alte sfere statunitensi.

Il fatto che alla fine di settembre la Duma abbia voluto rendere pubblico il suo studio sulle strategie antirusse progettate dalla Casa Bianca, lascia intendere quanto profonda sia ormai la spaccatura tra le dirigenze di Mosca e Washington.

Il documento, pubblicato dalla “Pravda”, s’intitola: “Il probabile scenario d’azione degli Stati Uniti nei confronti della Russia nel periodo 2006-2008” e lascia intendere come nell’arco dei prossimi due anni gli USA tenteranno di mutare gli equilibri di quel paese sia nell’ambito politico che in quello economico, alfine di favorire “una variante tranquilla” delle cd. “rivoluzioni arancioni”.

Ciò che disturba in particolare l’Establishment, è l’uso spregiudicato delle risorse energetiche da parte del governo russo, arma che ha consentito in pochi anni la formazione di un asse geoeconomico e potenzialmente geopolitico in funzione antiamericana.

Dalla Russia alla Cina, dal Venezuela all’India, dall’Iran al Pakistan, passando per i più importanti Stati dell’Asia centrale, tutte le principali potenze eurasiatiche (e non) si stanno compattando per riequilibrare l’unilateralismo della Casa Bianca.

Regista principe di quest’operazione è proprio il capo del Cremlino, il Presidente Vladimir Putin, al quale solo poche settimane fa è stato lanciato un avvertimento in stile mafioso con l’uccisione del vicepresidente della Banca Centrale di Mosca, un uomo di sua fiducia.

L’omicidio è stato l’antipasto di tutta una serie di mosse volte a “innervosire” la nomenklatura, come la convocazione a Washington di un convegno pubblico di separatisti ceceni, evidentemente non inseriti dall’Amministrazione Bush tra i “gruppi terroristi” e la conseguente protesta ufficiale dell’ambasciatore russo negli Stati Uniti.

Ma è proprio analizzando in dettaglio il rapporto segreto che la Duma ha invece voluto diffondere che si capisce la gravità della situazione e la sua perfetta coincidenza con la realtà di questi giorni.

Innanzitutto Washington avrebbe dovuto sabotare il monopolio energetico della Federazione Russa: ebbene, è notizia di oggi (04/10/2006) che si sarebbero arenate le trattative per la cooperazione strategica tra l’ENI e la Gazprom già annunciate da mesi e la cui firma era in programma il 14 ottobre 2006.

Essa segue le forti polemiche scatenatesi dopo la denuncia di devastazione ambientale nell’isola di Sakhalin rivolta dallo stesso Putin alla multinazionale anglo-olandese Shell, protesta che ha consentito alla Russia di revocarle la licenza di estrazione petrolifera e continuare il suo progetto di unificazione delle attività di produzione, trasporto e vendita del petrolio e del gas siberiano.

Secondo il “Corriere della Sera”, il vero scopo del Cremlino sarebbe una rinazionalizzazione del settore energetico, così vitale per l’economia russa ma anche per quella europea, in controtendenza con il desiderio statunitense di privatizzare le compagnie gas-petrolifere moscovite e segnare così la loro subordinazione alle multinazionali occidentali.

Stando a quanto scritto dagli autori del rapporto, l’ex segretario del Comitato Centrale dell’URSS, Valentin Falin, e l’ex generale dei servizi segreti Ghennadij Evstafiev, gli agenti nordamericani avrebbero cavalcato le varie manifestazioni sociali che sarebbero scoppiate nella “terra degli Zar”, così da screditarne l’immagine a livello internazionale e preparare il terreno ad eventuali sanzioni economiche. La manovra culminerebbe con l’espulsione della Russia dal G8 e con il suo mancato ingresso nel World Trade Organization.

Subito è scattata l’occupazione del Ministero delle Finanze di Mosca, ad opera di qualche decina di militanti del Partito nazionalbolscevico di Limonov, evidentemente caduti nella trappola preparata dagli “arnesi” della CIA.

Le proteste internazionali che Washington si preparerebbe a scatenare, con l’obiettivo importantissimo dell’allentamento dei rapporti economico-diplomatici tra la Russia da una parte, la Cina e l’Unione Europea dall’altra, prevedono a giudizio degli analisti della Duma il sabotaggio della politica estera putiniana e l’incoraggiamento ad Ucraina e Georgia affinchè chiedano di entrare nella NATO.

Se a Kiev la situazione appare per ora congelata, dopo le proteste antiamericane in Crimea e il ritorno al governo di Victor Yanukovic, a Tblisi l’annuncio di voler aderire all’Alleanza Atlantica sta rischiando di provocare una nuova guerra caucasica, dato anche il corollario dei referendum che a breve interesseranno le regioni indipendentiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia.

L’arresto dei 5 diplomatici russi è stato così interpretato da Putin come un casus belli e la sua “linea della fermezza” nei confronti della Georgia sembra per ora aver pagato; di certo i prossimi mesi saranno quelli decisivi per capire chi vincerà questo estenuante braccio di forza tra il Cremlino e la Casa Bianca, intanto chi vuole un’Europa sovrana e autonoma dagli Stati Uniti dovrebbe decidere in fretta da quale parte schierarsi.

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