Il rom opportuno

Fonte: AgitPtrop - Collettivo comunista - Foggia
Link: http://www.agitproponline.com/materiali/materiali.asp?id=150


Le persone spaventate a morte da una misteriosa, inesplicabile precarietà dei loro destini e dalle nebbie globali che nascondono alla vista la loro prospettiva, cercano disperatamente i colpevoli delle loro tribolazioni e delle prove cui sono sottoposti. Le trovano, non sorprende, sotto il lampione più vicino, nel solo punto obbligatoriamente illuminato dalle forze della legge e dell'ordine (Zygmunt Baumann)

Per anni la soluzione sinistra è stata affidata a schiere di illuminati antropologi, sociologi e titolari di cattedre in Storia delle tradizioni popolari. A costoro dobbiamo tutto ciò che sappiamo sulle danze dervisce, sui riti d’equinozio nordici, sull’influenza ottomana nell’uso del bassotuba slavo, sull’animismo subsahariano e sui dolci bulgari. Un mucchio di informazioni interessanti, un bel sacchetto di conoscenze.

Che oggi non ci serve a spegnere il fuoco televisivo che ispira e riflette quello dei roghi ai campi; così come non è servito alla sinistra antropologica ad arginare la marea montante alle politiche di aprile.

Il mondo parallelo del terziario, nel futuro imminente, dovrà contrattare armistizi separati coi nuovi padroni. Le Feste Interetniche continueranno a popolare parchi e piazze, seguitando ad attrarre la distratta benevolenza dei vecchi domenicali, a spasso per filari alberati. Mentre i centri di permanenza spalancheranno le fauci ad ingurgitare e triturare usi e costumi, preghiere e culti. Indifferentemente.

Days of thunder

Non si possono rubare i figli della gente per bene! (Ignazio La Russa, Porta a Porta, 15/05)

Una rom prende in braccio un bambino a Ponticelli. Per rapirlo, dicono tutti con straordinario tempismo. La paura ancestrale, il gelido terrore irrazionale, scavalcano in men che non si dica la presunzione d’innocenza, il diritto romano – di cui pure andiamo fieri – e quello delle genti. La responsabilità individuale finisce nel tritacarne della superstizione collettiva. Una massa inferocita si muove sull’onda di un sospetto che fa da sommatoria e funge da detonatore: l’assalto al campo riecheggia delle forme del boatos. Le molotov piovono su diversi accampamenti. I fuochi purificatori consumano la cattiva coscienza del popolo accogliente. I motorini sfrecciano, nell’impotenza frustrata della reconquista. Nel disperato tentativo di riaffermare un senso di sé nella giungla polisemica. Le testate giornalistiche fiutano l’avvenimento e spediscono sul campo i loro più accorati anchorman. La ferocia dell’indistinzione si tramuta – in videoconferenza – in riscatto sociale dei quartieri degradati. In messaggio da recepire. In squillo di tromba. I crociati napoletani danno un segnale alla nazione. I telegiornali spargono sulle rovine il balsamo del nuovo risorgimento italiano. I teledipendenti annuiscono. Sono pronti ad impugnare le armi, decisi a riscattare nell’epurazione – finanche nel pogrom – la miseria di un presente da sfruttati, malpagati e precarizzati. La leggenda della colonna infame si irradia dai media. Il nemico è indicato. Non resta che celebrare i funerali dell’integrazionismo.

Di quello forzato, di matrice gesuitica, delle destre, fatto di conversioni di massa e di uniformità obbligatoria ad un conformismo spacciato per identità. Di quello cialtrone delle sinistre, improvvisato e buonista, basato sul business dell’associazionismo, del volontariato, dell’industria del pietismo. Con spruzzate di relativismo culturale a marcare la dovuta differenza con gli incolti reazionari.

Napoli insorge e rompe l’assedio delle roulotte. Ne parlano tutti, con dovizia di particolari, con morbosità da gossip. Il tg2 è minuzioso, il tg3 stupisce per superficialità, il tg1 sembra pessimo. Ma non è lì che bisogna guardare, stavolta. L’informazione reale, quella che gronda colpevolezza, che si fa subliminare persuasione; quella che andrebbe trascinata per i capelli dinanzi ad un tribunale e messa alla gogna per istigazione a delinquere, comincia quando si spengono i fari dell’ufficialità giornalistica.

Un plotone di guastatori confidenziali, dalla chiacchiera sciolta e un certo calibro d’ovvietà nella fondina, avvampa in video quando i fuochi fatui delle redazioni “serie” hanno levato le tende: all’Italia sul due si parla degli incendi, del Paese assediato dagli stranieri (anche se bisogna sempre distinguere “chi viene qui per lavorare da quelli che vengono per delinquere”) con la competenza compiaciuta e deviata degli anestesisti che abusano dei pazienti infermi. A Canale 5 Barbara D’Urso fa altrettanto, con un surplus di frivolo fatalismo. Una ragazzina di quattordici anni viene seviziata e scaraventata in un fosso da tre italianissimi adolescenti, un giovane col codino muore pestato a sangue da cinque esponenti dell’identitaria schiatta della Verona bene. Eppure, per l’Italia in diretta, per i giullari influenti del nostro servile sistema di talk-show, gli unici pericoli vengono dagli stranieri. Meglio se extracomunitari. Meglio ancora se zingari. Con alle spalle un nulla ricattabile.

Il risultato di tanto scalpore è sotto gli occhi di tutti. Cinquecento rom sgomberati a viva forza dai campi napoletani. La carrellata della camera a spalla copre lo spazio che separa la colonna di automezzi in fuga dagli sguardi festanti dei rivoltosi per un giorno. Qualcuno si lascia andare: “Abbiamo vinto!”.

Controlli speciali a Milano, con tanto di poteri speciali al questore per fronteggiare l’emergenza.

Cinquanta fermi a Roma, scattati per emulazione. E torna alla mente l’immenso spiazzo della metro Anagnina, sommerso di tende, di chincaglieria fumante, di pacchi in viaggio, di musicassette starnazzanti. Nessun intellettuale radicale a spasso per assaporare fino in fondo il rustico sapore della miseria da zoo. Nessuna prima firma del giornalismo impegnato, nessuno sceneggiatore da Festival di Berlino, nessun artista di tendenza. Ad affondare le mani nella tradizione che si fa melting-pot per sussulto inerziale. A gustare, con occhi americani, il piatto tipico della provvisorietà. Il groviglio inestricabile, il nodo gordiano. Gli abitanti del quartiere non ce li vogliono, non più. Roccaforte di sinistra, nel comprensorio elettorale del Quadraro, la culla della Resistenza romana. Eppure non ce li vogliono più. Che strano. Trovano disgustoso quel tappeto di povera umanità che farebbe la gioia di un fotografo dei vip, di un paesaggista da colera. Hanno votato Alemanno, regalando Roma (la Roma tollerante e multietnica, la mitica Roma dei progressisti col pedigree in regola) a un neofascista, pur di dimostrarlo. Si sentono sradicati, dicono, più ancora che insicuri. Non riconoscono più il proprio quartiere. Dicono che è diventato difficile fare due passi a piedi. Sono dei barbari, sono dei razzisti? Una dose di discriminazione c’è, è fuori discussione. Magari in latenza, in potenza, pronta ad essere estratta come gomma dalla corteccia e orientata verso il precipizio della guerra fra poveri. Ma la xenofobia non basta a spiegare tutto.

Il Sinistro Fronte

In mezzo c’è il pressappochismo idiota della sinistra senza parametri. Quella che, dinanzi all’allarme non si preoccupa di controllare i dati – quelli relativi ai flussi come alla microcriminalità – né di arginare l’immaginario che schiuma come maionese. Ma fa accademia di sofismo, discetta di multiculturalismo, recita poesie curde e armene. Senza accorgersi che non è più il tempo della lirica, né del melodramma. Che la tragedia incombe e non basta governare, amministrare, gestire lasciando – come Kropotkin o Proudhon – che i granelli di sabbia trovino una loro collocazione “spontanea” nel barattolo. Non è atto meritorio lasciare nell’improvvisazione i poveri cristi sottratti alle ronde. Non hanno un progetto, i nostri. Vivono di tentativi. Dinanzi all’ondata migratoria, al germe di una seconda Italia, multietnica e multirazziale, rispondono con deboli palliativi partoriti all’occorrenza, con strumenti inadeguati alla portata della sfida, con occasionale filantropismo laddove necessiterebbe erigere un sistema fatto di strutture nuove. Prima che di sovrastrutture d’accatto, destinate a crollare sotto i colpi di una macchina statale, di un’organizzazione sociale, di un sentire collettivo che distilla insicurezza e ne scarica i costi sugli ultimi. Non ha più un armamentario ideologico, la sinistra. Tutti gridano che è un bene. Ma poi, a conti fatti, senza quel rassicurante orizzonte mentale fatto di sfruttati e di sfruttatori, non possono che fungere da ruota di scorta. Alla scelleratezza miope del blocco confindustriale, che apprezza indigeni ed extracomunitari finché li si può spremere come forza-lavoro salvo poi lasciarli allo scontro frontale per le briciole; alla deriva sicuritaria indotta, per cui si procede al decreto d’espulsione razziale per un singolo caso d’omicidio; alla lobby del volontariato, che assicura un posto in paradiso e lastrica di buone intenzioni le strade dell’inferno.

Inutile nasconderlo: la sinistra ragiona come la destra. Ma ciò detto non in senso stretto, qualunquista, con allusione ai provvedimenti e alla propaganda. Quanto al fondo più recondito del bagaglio culturale: l’esaltazione delle piccole patrie, delle comunità native, delle tradizioni inalterabili ed inattaccabili, dei segregazionismi volontari e di quelli indotti, dei ghetti e delle vie Quaranta porta – di fatto – i nostri compagni d’un tempo a scimmiottare quel che era l’impostazione del Fronte della Gioventù. I loro distinguo, la loro incapacità di ragionare sulla base del punto fermo integrazionista, hanno acuito il solco. Hanno causato lo slittamento a destra e favorito lo “scontro di civiltà” che pretendevano di evitare.

La polizia rumena s’è messa ad inseguire i suoi espatriati clandestini sul suolo italiano. E i sondaggisti di Repubblica, ancora a piede libero, hanno dato fondo alla loro analisi sociologica: “Il diverso fa paura”. Gli sferzanti reportage del Corriere pure. Trasudano lo scandalo fittizio, la sorpresa eccitante della gente che vorrebbe bruciare vivi gli zingari. E quando i giovanotti invocano alla pulizia etnica, l’orgasmo spinge al mugolio. Si parla di camorra, di gioventù spaesata. Stavolta mancano gli ultras, ma non è detto che non compaiano in un secondo momento. Dinanzi al singulto razziale l’informazione è responsabile. Colpevole come il peccato, direbbe Shakespeare.

L’analisi va traslata. L’insicurezza è il frutto del progressivo smantellamento delle certezze, a cominciare da quelle che sembravano socialmente garantite. Per improbabile diritto naturale. Il popolo italiano era intento ad applaudire i giudici d’assalto, a gioire smodatamente per l’abbattimento del corrottissimo sistema democristiano della Prima Repubblica, quando – con l’esaurirsi del protagonismo operaio e la normalizzazione dei rapporti di classe – cominciava l’esproprio. L’epoca del “volere è potere” aveva lasciato spazio a quello “scordatevi il posto fisso” destinato a diventare più che un semplice slogan. Le Autostrade, la telefonia, l’energia, le ferrovie finivano privatizzate. Una nuova schiera di vampiri ridondanti occupava il proscenio. Doveva andare meglio, secondo il parere comune. E finì in farsa tragica. E oggi che il piatto piange, non resta che sfogare frustrazioni accumulate. Dal pratico al simbolico. Dall’aumento dei costi all’identità nazionale. Con un triplo carpiato. Tanto da poter concludere che i rom – come e più degli albanesi e i marocchini d’antan – sono tornati utili in un momento in cui, altrimenti, si sarebbe dovuto inventare un diversivo altrettanto efficace. Ci sono loro, con il loro carico d’alterità. E allora, come in una classe di bulli, sotto a pagare lo scotto. A scontare i costi sociali di quindici-vent’anni di assoluta impotenza, di dormiveglia e di delega.

Ripartire dalla società, dalle sue squillanti contraddizioni. Si dovrebbe, se non fosse per la mancanza assoluta di un quadro generale entro cui collocare anche i fenomeni di suggestione, d’isteria collettiva. Sfatare i tabù, estendere a dismisura i diritti di cittadinanza, lottare per renderli flessibili al pari delle vite che siamo costretti a condurre. Smetterla di autocompiacersi dell’immiserimento e dell’esclusione. Virare, con decisione, verso un progetto di paese dove l’uguaglianza possa infrangere – nell’ispirazione e nella sostanza – i muri dei ghetti monoculturali. Invece di vezzeggiarne gli esistenti.

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