Il colpo grosso

Mentre gli USA sono inchiodati dalla guerriglia irachena, Bush tenta l'accerchiamento strategico all'est e in Asia centrale. In particolare è l'est europeo l'obiettivo privilegiato degli americani. Stabilite solide teste di ponte nel Baltico, in Georgia, in Ucraina, minaccia direttamente la Bielorussia, ma nel mirino c'è ormai la stessa Russia.

La guerra cecena non basta, bisogna mettere in discussione il tipo di governo e di equilibri interni realizzatisi attorno a Putin. Il quale barcamenandosi tra indipendenza e amicizia con l'occidente rischia di essere schiacciato. Lo si è visto in occasione della parata per il 60° della vittoria sul nazismo. Al tentativo di rivendicare l'importanza della storia nazionale si è contrapposta una offensiva americana a tutto campo.

Lo scenario che si sta delineando è descritto in dettaglio da Mauro Gemma nell'articolo che riproduciamo

A Mosca! a Mosca!

Fonte: http://www.resistenze.org/

di Mauro Gemma

Com'era largamente prevedibile, la vittoria della "rivoluzione arancione" in Ucraina (e quella "a metà" della "rivoluzione dei tulipani" in Kirghizia (1) ) ha dato ulteriore impulso all'offensiva imperialista nello spazio post-sovietico, dissipando ogni dubbio sui reali obiettivi della campagna avviata dall'amministrazione Bush, a sostegno dell'esportazione dei "valori della democrazia occidentale" negli stati dell'ex URSS: da un lato, il definitivo assoggettamento degli stati della CSI agli interessi economici e geopolitici della massima potenza imperialista, e, dall'altro, il totale disinnesco delle capacità competitive della Federazione Russa, attraverso l'assalto diretto al potere politico, da realizzarsi probabilmente addirittura (come molti segnali lascerebbero ad intendere) con l'estromissione dello stesso attuale gruppo dirigente di Mosca.

All'inizio di aprile, il nuovo leader ucraino Juschenko ha suggellato il proprio trionfo, con una serie di viaggi in Occidente e, in particolare, negli USA, dove, al termine di una serie di incontri con il presidente americano, ha avuto modo di esplicitare, con chiarezza inequivocabile, la funzione che gli viene attribuita dai padroni occidentali del suo paese. Basta leggere il testo del comunicato congiunto, rilasciato al termine della sua visita: "Impegniamo anche le nostre nazioni a sostenere insieme le trasformazioni, la democrazia, la tolleranza e il rispetto reciproco in tutti i paesi, attraverso il regolamento pacifico dei conflitti in Georgia e Moldavia e la promozione della libertà in paesi come la Bielorussia e Cuba".

Accomunando Bielorussia e Cuba, il nemico storico nel "cortile di casa" USA, Juschenko lascia chiaramente intendere quali saranno le direttrici della politica estera dell'Ucraina "rivoluzionaria", che nutre velleità di leadership regionale nell'ambito della nuova alleanza. Scrive l'intellettuale marxista russo Dmitrij Jakushev: "Le continue dichiarazioni di Juschenko in merito al fatto che l'Ucraina è pronta a diventare leader regionale, vale a dire il principale gendarme locale, fanno presagire enormi sciagure a tutti i vicini, nonché allo stesso popolo dell'Ucraina…La politica estera (di Juschenko) porterà a un duro confronto con la Russia e la Bielorussia, fino alla creazione di alleanze militari, prima di tutto con la Georgia e la Moldavia, dirette contro la Russia e le repubbliche ad essa amiche della Transdnistria, dell'Abkhazia e dell'Ossezia" (2).

A distanza di pochissime settimane dall'incontro Bush-Juschenko, c'è stato, alla fine di aprile, il viaggio del Segretario di Stato USA Condoleeza Rice a Mosca. In quell'occasione, abbandonata completamente ogni ipocrisia diplomatica, la dirigente USA, senza perifrasi, ha inteso esprimere con brutalità le finalità della sua visita, provocando, tra l'altro, una durissima reazione della controparte russa. Incontrando nella stessa capitale russa, in aperto spregio di ogni etichetta, gli esponenti della tanto insignificante quanto prepotente opposizione "democratica" bielorussa e assicurando il proprio contributo morale e materiale (è di questi giorni uno stanziamento americano di decine di milioni di dollari a sostegno dell' "offensiva democratica" in Bielorussia), la responsabile della politica estera USA ha addirittura indicato precise scadenze temporali (le elezioni del 2006) alla nuova tappa della scalata aggressiva indirizzata al rovesciamento di quello che è attualmente considerato il principale alleato della Russia nell'ambito della Confederazione degli Stati Indipendenti e il più conseguente sostenitore delle esigenze di integrazione economica, politica e militare dello spazio ex sovietico: il presidente Aleksandr Lukashenko.

Abbattuto l'ultimo bastione della CSI, che con ostinazione si oppone ai progetti di espansione della NATO verso est, alle armate dell'Occidente non si frapporrebbe più alcun ostacolo in direzione di Mosca. In tal modo, dopo l'ingresso di tutti i paesi dell'Europa orientale e baltica nell'alleanza nord-atlantica e il definitivo sbilanciamento in senso filo-occidentale dell'Ucraina, la Russia verrebbe a trovarsi completamente sguarnita sul versante europeo, con una virtuale "linea del fronte" fissata a poche centinaia di chilometri dalla capitale federale.

Certo, il cammino verso Minsk, potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. La Bielorussia non è certo un qualsiasi paese della CSI. In Bielorussia, il consenso attorno alle scelte operate negli ultimi anni da Lukashenko pare, secondo le testimonianze più obiettive, ben più vasto di quanto non cerchino di far credere le operazioni propagandistiche occidentali (3)che, in generale, parlano della presenza di un oppressivo regime dittatoriale. A tal proposito vale la pena citare l'analista russo Jurij Krupnov che, intendendo smentire le argomentazioni largamente utilizzate per giustificare il pressing in corso ai danni della Bielorussia, osserva: "La repubblica di Belarus rappresenta attualmente il leader indiscusso nello spazio dell'ex URSS. Persino coloro che non amano il regime politico in Bielorussia o il suo presidente, non possono negare l'evidenza. A differenza di tutte le altre ex repubbliche dell'URSS, la Bielorussia sotto la direzione di Lukashenko è stata in grado di conservare le realizzazioni del periodo sovietico e di avviare una prudente e assennata ristrutturazione dell'economia e del sistema sociale. L'anno scorso l'economia della Bielorussia è rientrata nei parametri raggiunti dalla Bielorussia sovietica del 1990 (nella Federazione Russa si pensa di realizzare tale obiettivo nel giro di dieci, quindici anni). La quota delle esportazioni di macchinari e tecnologie e il PIL superano di alcune volte gli analoghi indicatori della Federazione Russa. Nella repubblica è stata conservata interamente la rete delle strutture sanitarie e degli istituti scolastici e vengono sostenute con la massima cura le infrastrutture di base (…) Nella repubblica è assente qualsiasi scontro nella sfera civile, etno-nazionale o religiosa, la gente vive dignitosamente e dispone di un lavoro…" (4).

A qualcuno questa analisi potrà anche sembrare eccessivamente ottimistica. Ma una cosa è certa. Se tale quadro corrispondesse a verità e se il consenso plebiscitario di cui apparentemente ha goduto Lukashenko in questi anni tra i settori meno privilegiati della popolazione, in particolare nelle campagne, non rappresentasse solo un'operazione di propaganda di regime, allora il tentativo di estromettere la dirigenza bielorussa potrebbe non essere una passeggiata e l'intera Europa rischierebbe di trovarsi di fronte a scenari imprevisti e drammatici, a causa del probabile coinvolgimento diretto in una nuova impresa di Washington. D'altronde anche la Russia non sembra certo intenzionata a "scaricare" con leggerezza l'ultimo alleato sicuro che le rimane (con il quale è vincolata da un patto di "Unione", che dovrebbe sfociare nell'unificazione tra i due paesi), come testimoniano le più recenti prese di posizione dello stesso presidente Putin. L'alleanza è stata consolidata in un recente incontro tra Putin e Lukashenko a Soci, sul Mar Nero, al punto che il leader bielorusso, anche per sottolineare l'avvicinamento oggettivo in corso tra i due paesi, ha voluto ringraziare pubblicamente le autorità russe "per il sostegno senza precedenti che ci stanno accordando nell'arena internazionale" (5).

Del resto, la Rice non ha mancato di accompagnare sempre i suoi attacchi alla Bielorussia con una serrata polemica nei confronti della stessa amministrazione russa, lasciando chiaramente intendere chi è il vero bersaglio strategico della "campagna d'oriente" di Washington. Confortata dal sostegno del solito coro di associazioni umanitarie ("Reporters sans frontières" le ha indirizzato una "lettera aperta" per chiedere un suo pesante intervento), il cui compito sembra essere sostanzialmente quello di offrire giustificazioni etiche ad ogni iniziativa aggressiva dell'imperialismo, si è esibita nella solita sequela di recriminazioni in merito alla "regressione della democrazia in Russia", alla "persecuzione" del malversatore Khodorkovskij (definito "prigioniero politico del Cremlino") e alla "concentrazione eccessiva di poteri nelle mani di Putin". In questo caso, la Rice, più prosaicamente, aveva a mente la decisione che, in quei giorni, Putin aveva assunto di incaricare il governo russo dell'elaborazione, entro il 1 novembre prossimo, di un disegno di legge volto a limitare l'accesso dei potenziali investitori stranieri ai settori e alle infrastrutture legati alla sicurezza nazionale, all'industria per la difesa e ai monopoli naturali, e della preparazione di una lista di giacimenti strategici, il cui sfruttamento verrebbe concesso esclusivamente a compagnie nazionali.

In seguito, le intenzioni aggressive nei confronti di Minsk sono state confermate dallo stesso presidente Bush durante il suo ultimo viaggio europeo. Ma Bush non si è limitato a questo. Evocando gli spettri della guerra fredda, Bush ha azzardato una provocazione senza precedenti nei confronti dell'interlocutore russo, impegnato nei preparativi delle celebrazioni della vittoria contro il nazi-fascismo. Bush, parlando a Riga, di fronte ad interlocutori che non esitano a riabilitare il passato nazista delle dirigenze baltiche, quasi accusando di viltà il suo predecessore Roosevelt per non avere avviato la guerra contro l'Unione Sovietica, è arrivato al punto di definire "un errore" persino il patto di Yalta concluso dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, dando evidentemente ad intendere che oggi egli non esclude affatto la possibilità di riprendere la guerra allora interrotta, per assestare un colpo definitivo allo storico nemico. "Siamo alla sostanza di una dichiarazione di guerra con l'obiettivo di un impero mondiale. Il disegno annunciato è questo. Finita la guerra fredda si stanno mettendo le premesse per un'azione di conquista", ha giustamente fatto notare, in un suo editoriale, Valentino Parlato(6).

Non è poi certo casuale che Bush abbia concluso il suo giro di visite proprio a Tbilisi, capitale della Georgia uscita dalla prima delle "rivoluzioni colorate", la cosiddetta "rivoluzione delle rose". Con Saakashvili, al di là dei discorsi di circostanza sulle "conquiste democratiche" del nuovo governo del disastrato paese caucasico (di fronte ad una folla in realtà di molto inferiore alle aspettative, a testimonianza di quanto stiano "sbollendo" gli ardori "rivoluzionari" della prima ora), il presidente USA ha definito i particolari della stretta cooperazione in corso tra i due paesi, in vista dell'ormai quasi certo ingresso di Tbilisi nei ranghi della NATO. Lo ha confermato il 10 maggio davanti ai giornalisti di tutto il mondo convenuti nella capitale georgiana. Per rendere più rapidi i tempi dell'integrazione nei meccanismi dell'alleanza nord-atlantica, qualche settimana prima della visita di Bush, il parlamento georgiano aveva chiesto al governo un pronunciamento unilaterale in merito al ritiro integrale delle truppe russe che stazionano nelle due basi di Batumi, sul Mar Nero, e Akhalkalaki, al confine con l'Armenia, già a partire dal gennaio del 2006, nel caso non venga raggiunto un accordo a riguardo con Mosca, che, invece, ha annunciato di avere in programma la chiusura delle installazione entro un lasso di tempo non inferiore a 11 anni. Una vera e propria provocazione, quella delle autorità georgiane, che non ha mancato di aumentare il già incandescente clima delle relazioni tra i due stati e che si è aggiunta alla mancata presenza di Saakashvili alle celebrazioni di Mosca.

La visita di Bush, che non poteva che assumere il significato di ulteriore sfacciato atto di sfida nei confronti di Putin, si proponeva in realtà di ottenere assicurazioni circa il grado di realizzazione degli obiettivi stabiliti dal cosiddetto "Piano di azione individuale per il partneriato" (IPAP), in base al quale la Georgia si è impegnata solennemente a modernizzare il proprio apparato militare, in linea con i requisiti richiesti per l'adesione all'alleanza nord-atlantica. Dal 2002 al 2004 gli USA hanno stanziato 64 milioni di dollari per progetti di assistenza militare e hanno inviato oltre 200 esperti per addestrare l'esercito georgiano (i cui effettivi dovrebbero passare da 16.000 a 23.000 unità) destinato oggi prevalentemente a supportare le forze USA, impegnate in vari scenari bellici, a cominciare da quello iracheno (tra l'altro, proprio nel momento in cui assistiamo al ritiro dei soldati di altri paesi), ma che, domani, potrebbe costituire un agguerrito contingente sul fronte del Caucaso, in funzione anti-russa, finalmente in grado di risolvere alla radice lo spinoso problema delle repubbliche separatiste, amiche di Mosca, dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud. Non è, inoltre, un mistero che il versante georgiano della catena caucasica costituisce ormai da anni il retroterra logistico delle attività militari del terrorismo ceceno, che, a differenza di quanto sostengono alcuni propagandisti dei "diritti umani", che invocano irresponsabilmente un massiccio coinvolgimento dell'Occidente a fianco della "resistenza cecena" e lamentano il "silenzio" della "comunità internazionale", gode del massiccio sostegno di apparati politici e militari negli USA, in Europa e in Turchia, nonché delle oligarchie russe (7).

C'è da dire che, al pressing americano sulla Russia, si aggiunge naturalmente quello rappresentato dall'intensificazione delle attività del variegato fronte interno, coordinato dai gruppi oligarchici estromessi da Putin, che non nasconde certamente la propria intenzione di rimuovere dal potere, in un modo o nell'altro, il presidente e gli uomini a lui più vicini. A tal proposito, appaiono di un certo interesse i probabili, inquietanti futuri scenari descritti in un articolo di Mikhail Cernov, giornalista dell'agenzia RBC. Vi si possono leggere considerazioni di questo tenore: "Un tentativo di estromettere dal potere il presidente della Russia Vladimir Putin verrà realizzato entro la primavera del 2008. Di ciò è convinta la maggior parte degli esperti, indipendentemente dalle personali simpatie politiche…I giocatori cominciano a puntare. Recentemente ha fatto così il proprietario del gruppo "Menatep" Leonid Nevslin. Egli ha dichiarato che sosterrà l'ex primo ministro Kasjanov (estromesso da Putin e definito "Juschenko russo", si è autocandidato alla presidenza). "Se avrà bisogno di aiuto, naturalmente, siamo pronti"…Gli oligarchi hanno detto "pora" ("è arrivato il momento", slogan della "rivoluzione arancione" di Kiev), "occorre passare all'azione" e sono passati all'azione". Cernov sottolinea come, attraverso il finanziamento di movimenti politici di destra e di sinistra e facendo leva su ambienti della stessa amministrazione presidenziale e del partito di governo "Russia Unitaria" (e "non è neppure escluso che alla guida delle sinistre possa venirsi a trovare lo stesso Mikhail Khodorkovskij, che ha avuto modo di meditare in carcere sugli errori commessi dagli oligarchi russi"), si intenda "sferrare un attacco simultaneo da entrambi i fianchi…L'obiettivo dei processi avviati è la ristrutturazione dello spettro politico russo, la creazione di un sistema che possa rappresentare uno strumento efficace per l'ulteriore destabilizzazione della nave "Stato Russia" fino al punto di farla affondare…Tale schema potrebbe funzionare molto efficacemente: una parte si occuperebbe della lotta parlamentare, mentre i "reparti combattenti" scenderebbero dietro a parole d'ordine incitanti al rovesciamento del potere nei "maydan" (il luogo simbolo della "rivoluzione arancione" ucraina) di Mosca e di San Pietroburgo" (8).

Se quanto denuncia Cernov fosse vero, non ci vuole molta fantasia per immaginare quale alternativa a Putin si stia preparando. Non certo, dunque, un impetuoso sviluppo dei processi democratici e una fuoruscita "da sinistra" (oltretutto, in presenza di un movimento comunista ed operaio ai suoi minimi storici, incapace di iniziativa di massa, e solcato da profonde divisioni), ma, piuttosto, la rivincita della "borghesia compradora" e il probabile avvento alla direzione del paese di uno "Juschenko russo" (non importa se Kasjanov o altri), l'interruzione drastica dei processi di riappropriazione da parte dello stato delle risorse strategiche, la fine di una politica estera indipendente che contribuisca a fare da contrappeso all'egemonia USA, e il conseguente veloce assorbimento negli ingranaggi delle alleanze occidentali. La ripresa, insomma, del corso filo-occidentale e perfettamente funzionale agli interessi imperialistici avviato con la vittoria controrivoluzionaria dell'agosto del 1991, proseguito per quasi un decennio con tenacia (ed esiti disastrosi) dal "clan Eltsin" e interrotto con la penosa uscita di scena del suo capofila e l'affermazione della politica "nazionalista" di Putin (non priva di richiami non solo strumentali al passato della potenza sovietica, la cui caduta è stata proprio da lui definita "la più grande tragedia geopolitica del XX secolo"), tesa a riaffermare un ruolo di primo piano per la Russia nell'ambito di una dimensione "multipolare" delle relazioni internazionali.

Per tutte queste ragioni, ci permettiamo allora di dubitare che l'insieme del movimento antimperialista mondiale possa trarre qualche utile da simili sviluppi della situazione.

NOTE

(1) Del parziale fallimento della "rivoluzione dei tulipani", condotta con dovizia di mezzi e di personale forniti dall'amministrazione e dalle fondazioni USA, che ha portato alla destituzione del presidente kirghiso Askar Akayev, sembra convinto lo studioso cubano Rodolfo Humpierre Alvarez del Centro di Studi Europei, quando afferma che: "esistono ragioni per pensare che tale strategia (dell'Amministrazione USA) questa volta ha presentato serie lacune, in ragione delle quali i risultati non sono stati gli stessi degli esperimenti precedenti (…) Non esistono i presupposti politico-ideologici, né tanto meno religiosi (…) Non si pone il dilemma "a favore della Russia o dell'Occidente" (…). Bakiev (il presidente provvisorio) ha confermato il proposito non solo di mantenere, ma anche di sviluppare le buone relazioni con la Russia e ha sollecitato aiuto materiale (…) La Russia ha promesso ed ha iniziato immediatamente ad inviare aiuti (…) Possiamo affermare che le incertezze derivanti dalla futura evoluzione degli avvenimenti in Kirghizia, sommate alle reiterate assicurazioni date dalle nuove autorità circa il mantenimento e lo sviluppo dei legami con la Russia, fanno registrare al momento differenze sostanziali rispetto a quanto è avvenuto nelle altre "rivoluzioni dei colori" attuate nello spazio postsovietico (…)" "La Kirghizia come parte della Teoria del Domino", http://www.cubasocialista.cu ,aprile 2005 La versione italiana in www.resistenze.org - popoli resistenti – kirghisia – 06-05-05

(2) http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml La traduzione della seconda parte dell'articolo di Dmitrij Jakushev, con il titolo "Juschenko negli USA", in http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – russia –27-04-05

(3) Va segnalato il particolare attivismo delle varie ONG "umanitarie", religiose, ecc. (compresi gruppi organizzati italiani) che, dopo avere operato in Serbia, Ucraina, Georgia e Kirghizia, oggi stanno convergendo massicciamente in Bielorussia.

(4) Jurij Krupnov, "Perché la Bielorussia non diventerà la Kirghizia?", http://www.contrtv.ru/common/1110/

(5) http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml

(6) "Il Manifesto", 10 maggio 2005 C'è da dire che altri esponenti della "sinistra alternativa" non sembrano prendere nemmeno in considerazione la lucida analisi formulata dal giornalista del "Manifesto". E' il caso, ad esempio, di Salvatore Cannavò ("Liberazione", 10 maggio 2005) che, a dispetto dell'evidenza e sottovalutando le velleità egemoniche ed espansioniste, con tratti fascisti, dell'attuale amministrazione USA, appare persuaso che all'ultimo insidioso attacco di Bush alla Russia possano solo "seguire accordi e mediazioni che permettano ai due progetti di rimanere complementari e di non scornarsi troppo".

(7) Sull'entità del massiccio sostegno americano e occidentale al terrorismo ceceno: John Laughland, "The Cechens' American friends", The Guardian, September 8 2004, http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,1299318,00.html

(8) Mikhail Cernov, "Come cercheranno di rovesciare Putin", http://www.contrtv.ru/common/1091 La traduzione in italiano in www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 03-05-05

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