Globalizzazione, indipendenza nazionale e resistenza
Riflessioni sul disorientamento della cultura europea

1. La cultura europea detta di “sinistra”, o anche semplicemente democratica ed antifascista, ha saputo onorare a suo tempo la battaglia di Madrid del 1936 degli arrtifascisti spagnoli repubblicani, la battaglia di Stalingrado del 1942 contro gli invasori hitleriani, ed anche la battaglia di Hué e del Têt (capodanno vietnamita) del 1968 contro l’esercito di occupazione americano. Oggi, di fronte all’eroica battaglia di Falluja del novembre 2004, in cui i resistenti iracheni esercitano il sacrosanto diritto di difesa e di liberazione nazionale contro un’aggressione imperiale legittimata da due vergognose menzogne (possesso di armi di cosiddetta “distruzione di massa”, che nella zona possiede soltanto l’impunito Israele, e collusione con l’azione di Al Qaeda dell’11 settembre 2001), questa cultura segue il modello delle tre scimmiette, ed è cieca, sorda e muta.

Eppure, la battaglia di Falluja, indipendentemente dalle componenti politiche e religiose che l’hanno materialmente condotta, ha certamente un significato universale del tutto paragonabile a quelle di Madrid, di Stalingrado e del Têt vietnamita. Ed allora è giusto chiederci il perchè del fatto che coloro i quali oggi in Italia ed in Europa onorano i coraggiosi combattenti iracheni e ne considerano interamente legittima la lotta di resistenza vengono diffamati e squalificati come estremisti pazzi, anti-americani fanatici e pregiudiziali, ali minoritarie ed ambigue del grande movimento pacifista no-global, e via ingiuriando.

Questa commedia culturale degli orrori non può essere casuale. Essa è il sintomo di una malattia storica e filosofica che occorre diagnosticare con chiarezza, anche se bisogna subito sapere che la guarigione non è assolutamente certa, il malato può morirne, ed in ogni caso la guarigione sarà lenta, durerà un’intera epoca storica, e chi crede in soluzioni rapide di un dramma culturale, pensando che queste soluzioni seguano i tempi veloci e nervosi dell’attualità politica è fuori dal mondo, e non è in grado comunque di attrezzarsi di fronte a questa crisi in modo strategico.

2. Per cominciare a capire le radici culturali di questo incredibile disorientamento posso iniziare da una citazione di Pierluigi Bersani, eurodeputato dei DS e responsabile economico del suo partito, oltre che ex-ministro dei governi dell’Ulivo 1996-2001. Dice letteralmente Bersani (cfr. La Repubbllica 8-11-04): “L’America cerca un ruolo di leadership mondiale, e segue ancora l’onda rivoluzionaria che è all’origine della sua nascita. Noi le rivoluzioni ce le siamo messe alle spalle e abbiamo una valutazione più complessa del mondo”.

Questa citazione è tanto più stupefacente quanto più diretta ed ingenua. Bersani non si rende probabilmente conto di accettare inconsapevolmente la tesi di fondo del cosiddetto “anti-americanismo”, che egli a parole mostra di aborrire virtuosamente, e cioè che gli USA ritengono di avere una sorta di “missione speciale” da compiere nel mondo intero, e dunque un programma di esportazione, necessariamente armata quando le pressioni economiche, diplomatiche e culturali non bastano più, di valori sociali che sono in realtà del tutto particolari e non universali. Ma ciò che secondo alcuni cialtroni indegni addirittura di essere nominati è addirittura “islamo-nazi-comunista” quando lo dice un Preve qua!siasi, è invece de! tutto normale e politicamente corretto quando lo dice il ministro Bersani.

Vi è però una seconda osservazione, molto più importante. Bersani confessa, in modo probabilmente inconsapevole, il vero segreto, l’enigma massimo e principalissimo, che si nasconde dietro a questa vergognosa rimozione dell’importanza non solo storica e politica, ma anche etica e morale, della resistenza irachena. Si tratta dell’elaborazione del lutto, psicologicamente e teoricamente elaborata, della rivoluzione occidentale mancata, e cioè dell’utopia sociologica monoclassista della proletarizzazione integrale del mondo. Dal momento che noi non ci siamo riusciti, ed abbiamo manifestamente fallito, nessuno dovrà mai provarci più. Se per caso qualcuno ci proverà ancora, o anche solo resisterà in armi al nostro esercito occidentale unificato a direzione strategica americana, allora lo chiameremo “terrorista”, lo diffameremo in tutti i modi possibili, isoleremo con la diffamazione e con il silenzio i suoi sostenitori nelle nostre metropoli imperialistiche sazie e nichiliste. Siete avvertiti, agite di conseguenza. Noi ci abbiamo provato una volta, e non ci proveremo mai più. Voi provateci, e vi spaccheremo la testa.

3. Il circo politico-mediatico di “sinistra” non ama la resistenza irachena, di cui pure talvolta a denti stretti riconosce la “legittimità”, perchè la grandezza politica e morale di questa resistenza gli ricorda inevitabilmente la propria miseria. Da tempo questo circo poilitico-mediatico immagina la rivoluzione come un pranzo ad inviti politicamente corretto di scelte delegazioni di sindacalisti, femministe, pacifisti ed ecologisti da cui tenere rigorosamente fuori i “tagliatori di teste”.

Eppure questa resistenza non pretende neppure di essere “rivoluzionaria”, secondo i canoni tradizionali della vecchia utopia sociologica monoclassista proletaria occidentale. Paradossalmente, nonostante le recenti oscene dichiarazioni del cardinale cattolico Sodano di appoggio incondizionato al governo Allawi (definito addirittura “il bambino che è nato”, cfr.”La Stampa” 22-9-04), questa resistenza è del tutto legittima persino secondo la teoria tradizionale della chiesa cattolica sulla guerra giusta e legittima. E’ infatti giusta e legittima una guerra popolare di difesa contro un’aggressione ingiusta ed illegittima. Ed è appunto questo il caso al 100 per cento della resistenza irachena. Non tocca a noi “scegliere” fra laici e religiosi, sunniti e sciiti, eccetera. In questo modo, magari con le migliori intenzioni di questo mondo, ripeteremmo inconsapevolmente l’atteggiamento colonialista classico che distingueva fra indigeni “buoni” e “cattivi”.

4. Questo implica però che si cominci a percepire correttamente la questione dell’indipendenza nazionale. A suo tempo, Marx ed Engels seppero farlo sulle due questioni nazionali del tempo, l’Irlanda e la Polonia, ed ebbero parole di approvazione per il movimento nazionale italiano del Risorgimento. Ed a suo tempo Lenin appoggiò la posizione dell’autodeterminazione delle nazioni. Si tratta proprio di Lenin, che una tradizione operaistica grottesca, priva di basi storiche e filologiche, presenta in modo caricaturale come il portavoce unilaterale e fanatico dell’utopia sociologica monoclassistica della proletarizzazione universale.

A suo tempo ci fu nei paesi arabi una serie di rivoluzioni sociali, di cui non voglio qui giudicare storicamente le basi di classe e le basi di massa (nozioni comunque da tenere distinte). Pensiamo al FNL algerino, al nasserismo egiziano e panarabo, ed infine agli stessi Baath siriano ed iracheno. Chi sostiene oggi, facendo il controcanto alle oscene grida della Fallaci, che il mondo arabo non ha mai cercato di avviarsi sulla via della cosiddetta “laicizzazione”, mostra solo la propria incurabile ignoranza storica e filolofica.

5. La questione della legittimità integrale della resistenza contro l’invasione presuppone ovviamente anche una corretta percezione storica ed economica della cosiddetta “globalizzazione”. In proposito, un competente e coraggioso economista italiano ha recentemente parlato di “legggenda della globalizzazione” e di “globalizzazione come alibi del neoliberisno” (cfr. Elvio DelBosco, La leggenda della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2004). Un altro studioso ha recentemente proposto un modello teorico di capitalismo in cui le favole sulla fine degli stati nazionali vengono rifiutate in nome di una sostanziale riattualizzazione della teoria dell’imperialismo di Lenin ( cfr. Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi, Petite Plaisance, Pistoia 2004). E potremmo continuare.

Chi si lascia andare al canto delle sirene del mito della globalizzazione, magari per evocare improbabili “moltitudini” deterritorializzate e del tutto snazionalizzate per resistere ad un “impero” senza sigle e senza determinazioni geografiche, geopolitiche e militari, non potrà mai comprendere il valore strategico e morale della resistenza irachena. E’ questo un caso, non certo l’unico ma oggi il più rilevante, in cui una comprensione teoricamente errata del contesto mondiale non permette poi di dare un giudizio adeguato di ciò che sta avvenendo.

6. E qui posso chiudere. Ho assistito recentemente con disgusto a dichiarazioni “epocali” di pigmei del circo politico-mediatico che si sono schierati “idealmente” con gli aggressori americani contro i cosiddetti “tagliatori di teste”. Nessuno di noi si rallegra per le teste tagliate. Tuttavia, in nessun momento ho dimenticato che alla radice di tutti gli orrori nell’Irak invaso e martoriato ci stanno l’imperatore Bush ed i suoi vassalli Blair, Aznar, Berlusconi, eccetera, fino ai ridicoli fantocci dei governi di “sinistra” degli ex paesi del socialismo “irreale” .

Collocarci integralmente e senza ripensamenti al fianco dei resistenti iracheni è oggi equivalente a schierarsi per la Spagna repubblicana nel 1936 o per il Vietnam nel 1968. Oserei dire che in un certo senso è ancora più importante, perchè si tratta della prima resistenza armata “strategica’’ al nuovo progetto imperiale americano “globalizzato”. Ma qui non ha senso stilare ridicole classifiche. Ha senso solo ripetere ai resistenti iracheni che saremo sempre con loro.

Costanzo Preve

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