petrolio e guerra

L'approssimarsi o forse già la presenza del momento in cui la produzione mondiale di petrolio raggiungerà un massimo, dopo di che non potrà che calare, pur in presenza di una domanda che non cessa di crescere a ritmi sostenuti, è un fatto abbondantemente studiato dagli scienziati e altrettanto ostinatamente negato o indebitamente minimizzato dalle società petrolifere e dai governi. I prezzi già ora raggiunti dal greggio e quelli che si annunciano in prospettiva sono un segnale eloquente, da cui prende le mosse l'articolo, che segnaliamo per la sua chiarezza, a firma Francesco Piccioni sul Manifesto del 2 aprile. Ma un segnale altrettanto chiaro viene dalla strategia militare USA. La "guerra infinita" di Bush e Cheney si dimostra sempre più come guerra preventiva per il petrolio, per assicurarsene lo sfruttamento e limitarlo ai concorrenti, tra cui spicca in primo piano la Cina. E pensare che qualcuno voleva mettere in soffitta come obsoleta la categoria leniniana di imperialismo.

Sul ruolo del picco della produzione petrolifera nel determinare le scelte di guerra di Washington, compresa la gestione degli attentati dell'11 settembre, segnaliamo il sito americano Fromthewilderness, che riporta molte informazioni importanti.

Il prezzo impazzisce per una dose di greggio

Mercati mondiali in fibrillazione: l'oro nero segna un nuovo record.
ldman Sachs rivede le sue stime: il prezzo del petrolio, nei prossimi anni, può arrivare a 105 dollari il barile.
E sul mercato fa subito record: 57,7 dollari

FRANCESCO PICCIONI

Il Manifesto, 2 aprile 2005

La bomba - sulle piazze finanziarie mondiali - è esplosa nel pomeriggio del 31 marzo (in tarda serata, sul nostro fuso orario). L'esplosivo era un composto chimico-psicologico di poche righe: «Il prezzo del petrolio nei prossimi anni può salire fino a 105 dollari, secondo le previsioni formulate oggi da Goldman Sachs». In quel momento, sulla piazza di New York, il greggio West Texas Intermediate - qualità d'élite, il crude superleggero che viene raffinato con i più alti indici di rendimento - quotava appena sopra i 55 dollari al barile. In pochi minuti ha raggiunto e superato i 56. Ieri ha proseguito la sua corsa superando per la prima volta i 57 (56,70 era il record, vissuto come un incubo dall'economia mondiale già stressata dalla debolezza della crescita europea e dal carattere marcatamente squilibrato di quella Usa, tutta giocata su un mix indigesto di «droghe»: riduzione abnorme delle tasse, alto deficit federale, alto deficit commerciale e svalutazione competitiva del dollaro), arrivando in chiusura a sfiorare i 58 (57,70 dollari al barile). Per i profani si imponeva la domanda: «cosa sta succedendo?». Per gli addetti ai lavori, sui mercati globali, si trattava invece del segnale d'allarme atteso da tempo. Goldman Sachs rivedeva al rialzo le proprie stime precedenti, che già fissavano un prezzo massimo davvero inquietante: 80 dollari al barile (come aveva pronosticato per la fine del 2006, qualche settimana fa, Ali Naimi, ministro petrolifero dell'Arabia Saudita). La valutazione era dell'analista Arjun Murti, uno dei maggiori esperti del settore. Murti aveva anche rivisto al rialzo le stime relative al prezzo del petrolio nel 2005 e nel 2006, alzate rispettivamente a 50 e 55 dollari al barile, contro 41 e 40 dollari precedenti. C'è da aggiungere che lo stesso Murti si diceva «sorpreso dall'accelerazione della domanda», nonostante che i prezzi lo scorso anno abbiano viaggiato su valori sostenuti, fra i 40 ed i 50 dollari.

Si può naturalmente discutere all'infinito sulla precisione di queste «stime» che vengono riviste a scadenza quasi mensile (lo stesso Ali Naimi, solo il 4 marzo scorso, «prevedeva» che per quest'anno il prezzo avrebbe oscillato tra i 40 e i 50 dollari). Ma è un dato di fatto inoppugnabile che questa sortita di Goldman Sachs toglie il tappo al vaso di Pandora: la crisi petrolifera c'è, sta montando e ci mostrerà cose che non avremmo voluto vedere.

Questa volta, infatti, a parlare non è il solito scienziato poco noto al grande pubblico cui cucire addosso la parte di Cassandra. Qui si espone in primo piano una delle principali agenzie di rating, una banca d'affari di prima categoria, di quelle che «fanno» il mercato globale. Una di quelle istituzioni che se ti abbassano l'indice di «gradimento» ti fanno fallire come azienda o come paese (Argentina docet). Insomma: un «agente globale» perfettamente consapevole che ogni frase uscita dalla propria bocca scatena reazioni a catena; e proprio su questo gioca la sua credibilità. Qualcuno, infine, che non si può liquidare con un'alzata di spalle, com'è solito fare la «compagnia di giro» delle multinazionali del petrolio quando sentono fare previsioni catastrofiche.

Qualcosa sta cambiando. Definitivamente, forse. Le compagnie petrolifere, fin qui, hanno continuato a ripetere lo stesso ritornello: «c'è greggio per i prossimi 40 anni». L'attendibilità del dato è messa fortemente in discussione, innanzitutto dagli scienziati - spesso geofisici che sono stati per anni alle dipendenze delle «sette sorelle». Accusano le compagnie di cavar fuori quei «40 anni» da un calcolo assai semplificato: la divisione aritmetica tra le «riserve accertate» e «la produzione annuale». Le prime assommano a poco più di 1.000 miliardi di barili, la seconda (nel 2004) ha superato di poco i 30 miliardi di barili. La cifra esatta sul periodo residuo, insomma, sarebbe già più bassa (33 anni). Ma non si può ragionare in questo modo, dicono gli scienziati.

Intanto va tenuto conto che ogni giacimento petrolifero - e quindi anche l'insieme mondiale dei giacimenti - non è sfruttabile fino all'«ultima goccia». Problemi fisici (la pressione diminuisce col calare del livello del giacimento, che è comunque costituito da un insieme di grotte non tutte individuabili o raggiungibili, ecc) e di consumo energetico (quando la pressione scende - per far «salire» il greggio - occorre iniettare sottoterra grandi quantità di vapore acqueo a 900 gradi, che richiede ovviamente un corrispondente consumo energetico) rendono praticamente inutile perseguire la caccia all'«ultima goccia». Il residuo inutilizzabile delle riserve accertate viaggia comunque intorno al 30-40%. La «curva di Hubbert» - scoperta dal geofisico della Shell che con questo suo metodo predisse, nel 1956, che il petrolio statunitense avrebbe «piccato» nel 1970; come in effetti avvenne - definisce appunto questa dinamica fisicamente insuperabile: a un certo punto, che corrisponde grosso modo al 50% del totale del greggio in un giacimento (e quindi anche nel mondo), la produzione possibile comincia a calare. In questo, non nell'esaurimento totale», consiste il «picco» della produzione.

La piena comprensione di questo limite ha spinto le compagnie, molti anni fa, ad investire in nuove tecnologie di estrazione. Una di queste, l'overdrilling - un sistema complesso di trivelle «flessibili», in grado di andare a cercare il greggio anche in anfratti prima irraggiungibili dalle classiche trivelle verticali - ha consentito in effetti di «ottimizzare» lo sfruttamento dei giacimenti, diminuendo al quota di residuo non estraibile al 15-25%. Questa tecnica, ad esempio negli Stati uniti - dove ormai l'estrazione «locale» è una frazione minima rispetto ai bisogni del paese: oltre 25 milioni di barili al giorno, un quarto del consumo mondiale - sta permettendo di «riaprire» vecchi pozzi abbandonati quando la tecnologia era più primitiva, con la prospettiva di cavar fuori ancora qualcosa di buono. Chiaro che si tratta di investimenti costosi (possibili solo se il prezzo finale è alto), di non lunga durata e per non grandi quantitativi. Insomma: si va raschiando - è proprio il caso di dirlo - il fondo del barile.

Le fonti fossili alternative, le uniche sfruttabili immediatamente senza dover fare grandissime riconversioni dell'apparato industriale globale, sono sostanzialmente due: gas e carbone. Il primo, secondo un calcolo reso noto qualche tempo fa da Franco Bernabè, ex presidente dell'Eni, «piccherà» intorno al 2010. Del carbone esistono riserve non sfruttate che possono coprire un periodo più lungo, ma con altissimi costi ambientali: praticamente mortali per il genere umano. Le «fonti rinnovabili» potrebbero essere una buona soluzione; ma hanno un grado di efficienza minore, costi più alti, «applicabilità» minore all'attuale sistema industriale.

Stando così le cose, si può forse capire meglio l'entità dei problemi che ha di fronte un «modo di produzione» obbligato alla «crescita perenne» w che ha fatto del petrolio la sua principale fonte energetica. Se quel che resta non basta più per tutti - è il caso che si comincia a vedere ora, quando la «domanda» supera costantemente, e in prospettiva irresistibilmente, l'«offerta» - come si farà a stabilire a chi andranno le riserve che non bastano per tutto il pianeta? Il 66% delle «riserve accertate» è concentrato nell'area del Golfo Persico (Arabia Saudita, Iraq e Iran, fondamentalmente); le sole riserve irachene - per di più in giacimenti quasi superficiali, con costi di estrazione più bassi e un grado di sfruttamento minore, «grazie» agli anni dell'embargo - assommano ad oltre il 10% del totale. Armi di distruzione di massa, ammettono oggi, non ce n'erano. Ma petrolio sì. E tanto. Vi sembra un biuon motivo per fare una guerra?

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