La nuova strategia di Bush

La corsa di Bush verso Armagheddon [1]

[indietro]

Robert Parry [2]

8 gennaio 2007
Fonte: consortiumnews.com
Ripreso da: http://www.informationclearinghouse.info/article16114.htm


Destituendo dai loro incarichi alcuni alti funzionari militari e dei servizi che ostacolavano la prospettiva di allargamento della guerra in Medio Oriente, Bush apre la strada all'escalation del conflitto in Iraq e all'estesione della guerra, con l'aiuto di Israele, a Siria e Iran.

Il 4 gennaio Bush ha esonerato i due principali comandanti militari in Medio Oriente, generali John Abizaid e George Casey, che si opponevano a una escalation militare in Iraq, e ha rimosso dall'incarico di direttore di tutti i servizi di intelligence John Negroponte, colpevole di aver minimizzato la minaccia a breve termine del programma nucleare iraniano. La maggior parte degli osservatori a Washington ha letto in queste mosse solo normale amministrazione o il desiderio di affidare a uomini nuovi il previsto rafforzamento previsto delle truppe in Iraq. Fonti dei servizi, però, sottolinenano che i cambiamenti si accordano assai bene allo scenario di un atttacco alle istallazioni nucleari iraniane e al tentativo di rovesciamento violento del governo siriano.

Bush ha nominato a capo del Comando Centrale per il Medio Oriente l'ammiraglio William Fallon, incurante del fatto che un ex pilota della marina che si trovava a capo del Comando del Pacifico si troverà ora a guidare due guerre di terra, in Iraq e in Afganistan. La scelta di Fallon avrebbe senso in caso di maggiore coinvolgimento delle due flotte portaerei attualmente dislocate presso le coste iraniane, per appoggiare possibili raid aerei israeliani contro gli obiettivi nucleari iraniani o come deterrente contro la reazione iraniana. Pur non essendo esperto di Medio Oriente, Fallon è di casa nei circoli neoconservatori e per esempio nel 2001 ha partecipato a una cerimonia di premiazione all'Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale, un "think tank" che sottolinea lo stretto legame tra la politica militare USA e la sicurezza di Israele. I cambi al vertice coincidono con le notizie di accelerazione dei preparativi israeliani di raid aerei, ivi compresa la possibilità di bombe nucleari tattiche, per distruggere gli impianti nucleari iraniani come quello di Natanz, a sud di Teheran, dove viene arricchito l'uranio.

Il Sunday Times di Londra ha riferito il 7 gennaio che due squadre aeree israeliane si stanno esercitando per la missione e che secondo i piani un primo aereo dovrebbe sganciare una bomba convenzionale a guida laser per aprire un varco attraverso gli strati di cemento armato e altri sarebbero poi pronti a sganciare nell'apertura armi nucleari di bassa potenza da un chiloton. Il Sunday Times scrive che oltre a Natanz gi israeliani colpirebbero due altri impianti, a Isfahan e Arak, con bombe convenzionali. Ma il possibile impiego di una bomba atomica a Natanz rappresenterebe il primo attacco nucleare dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki in Giappone perpetrata dagli americani alla fine della Seconda Guerra Mondiale sei decenni fa.

Alcuni osservatori sostengono che Israele farebbe filtrare qualche dettaglio sui suoi piani per spaventare gli iraniani e costringerli ad accettare controlli internazionali sui loro programmi nucleari. Altre fonti però indicano che Israele e l'amministrazione Bush si stanno seriamente preparando ad allargare la guerra in Medio Oriente. Per il primo ministro israeliano Ehud Olmert la possibilità che l'Iran si doti di armi nucleari sarebbe una "minaccia all'esistenza stessa" di Israele. A seguito della pubblicazione dell'articolo del Sunday Times un portavoce governativo israeliano ha smentito che Israele abbia piani segreti per bombardare gli impianti nucleari iraniani. Gli iraniani, da parte loro, sostengono che il loro programma nucleare serve solo a produrre energia.

L'eresia di Negroponte

Quali che siano le intenzioni dell'Iran, Negroponte ha dichiarato che i servizi di intelligence non ritengono che l'Iran sia in grado di produrre un'arma nucleare prima di dieci anni. Questa affermazione di Negroponte dell'aprile 2006 ha mandato su tutte le furie i falchi neocons che volevano un quadro a tinte fosche delle capacità nucleari iraniane, proprio come avevano premuto per avere un quadro allarmista delle armi di distruzione di massa irachene prima dell'invasione del 2003.

A differenza di George Tenet, l'ex direttore della CIA che si era piegato alle pressioni politiche di Bush sull'Iraq, Negroponte ha difeso la posizioni degli esperti dei servizi di informazione che notavano la lentezza dei progressi nell'arricchimento dell'uranio. "Il nostro giudizio è che la prospettiva di armi nucleari iraniane richieda ancora vari anni e probabilmente più di un decennio". Così si era espresso Negroponte in un'intervista a NBC News. E dopo aver espresso un punto di vista simile in un discorso al National Press Club aveva aggiunto: "ritengo importante che la questione sia vista in prospettiva"

Tra i neocons alcuni hanno accusato Negroponte di tradire il presidente. Frank J. Gaffney Junior, uno degli esponenti di spicco del Project for the New American Century, ha invocato il licenziamento di Negroponte per le sue dichiarazioni sull'Iran e per le "decisioni assolutamente personali" nell'assumere esperti analisti dei servizi che si erano dimostrati scettici circa gli allarmi di Bush sulle armi di distruzione di massa irachene.

In un articolo per il Washington Times del reverendo Sun Myung Moon, Gaffney ha attaccato Negroponte per aver affidato importanti compiti di analisi a Thomas Fingar, già vicesegretario di stato per l'intelligence e la ricerca, e a Kenneth Brill, che era stato ambasciatore USA presso l'Agenzia Interazionale per l'Energia Atomica e aveva smascherato alcune delle accuse americane e britanniche sui tentativi iracheni di procurarsi uranio in Africa. L'ufficio Intelligence e Ricerca di Fingar aveva guidato il dissenso sulla questione delle armi di distruzione di massa irachene, specialmente per quelle che si sono poi dimostrate le false accuse di Bush sullo sviluppo di armi nucleari. "Considerati i precedenti, - scrisse Gaffney, già anziano funzionario del Pentagono sotto Reagan - c'è forse da stupirsi che Negroponte, Fingar and Brill ci offrano lo spettacolo delle assurde dichiarazioni su un Iran lontano anni dal possesso di armi nucleari?" Riferendosi probabilmente a Fingar e Brill Gaffney accusava anche Negroponte di promuovere “in posizione di alta responsabilità funzionari governativi che sabotano attivamente la politica del presidente”. I neocons si sono spesso irritati per le valutazioni dei servizi in conflitto con i loro obiettivi politici. [Vedi Secrecy & Privilege, di Robert Parry].

Col suo rimpasto Bush ha retrocesso Negroponte da una posizione a livello di ministro a una posizione di sottosegretario di Condoleezza Rice e lo ha sostituito con John McConnell, un viceammiraglio in pensione della marina che gli esperti dei servizi considerano un tecnocrate di basso profilo e non una figura forte e indipendente.

Mani libere

L'allontanamento di Negroponte dovrebbe consentire a Bush di avere le mani più libere qualora decidesse di appoggiare gli attacchi agli impianti nucleari iraniani. I consiglieri neocons del presidente temono che, se Bush non agisce con decisione nei due anni di presidenza che gli rimangono, il suo successore non avrà più la volontà politica di lanciare un attacco preventivo contro l'Iran.

Bush a quanto pare sta considerando le opzioni militari per bombardare le installazioni nucleari iraniane già dall'inizio del 2006 ma, come per i piani di aumento delle truppe in Iraq, si è scontrato con la resistenza delle alte gerarchie militari. Come ha scritto sul New Yorker Seymour Hersch, autore di numerose inchieste giornalistiche, molti alti ufficiali statunitensi hanno reagito con preoccupazione ai piani di guerra elaborati dall'amministrazione, che vedevano nell'impiego di armi nucleari tattiche anti-bunker, note come B61-11, il solo modo di distruggere gli impianti nucleari iraniani situati sottoterra a grande profondità. Un ex alto funzionario dei servizi ha riferito a Hersch che la Casa Bianca, nonostante le obiezioni dei capi di stato Maggiore, rifiuta di escludere l'opzione nucleare. "Appena qualcuno cerca di escludere questi piani, viene subito zittito", ha riferito il funzionario. [New Yorker, 17 aprile 2006] Alla finedi aprile del 2006 però, secondo la ricostruzione di Hersch, i capi di Stato Maggiore sono finalmente riusciti a convincere la Casa Bianca che l'uso di armi nucleari per distruggere l'impianto iraniano di arricchimento dell'uranio di Natanz, a meno di 200 miglia a sud di Teheran era politicamente inaccettabile. "Bush e Cheney erano assolutamente convinti dell'opzione nucleare", ha riferito un ex alto funzionario dei servizi. [New Yorker, 10 luglio 2006].

Ma un modo per aggirare l'opposizione dei Capi di stato Maggiore potrebbe essere quello di delegare l'operazione di bombardamento agli israeliani. Considerando la potenza della lobby israeliana a Washington e i suoi forti legami con i maggiori esponenti democratici, un attacco condotto dagli israeliani potrebbe essere fatto digerire più facilmente al Congresso. Attaccare l'ran e la Siria andrebbe incontro anche al desiderio di Bush di contrastare la crescente influenza sciita in tutto il Medio Oriente, involontariamente accresciuta dall'eliminazione del governo a dominanza sunnita di Saddam Hussein in Iraq.

Il piano originario di invasione dell'Iraq dei neocons prevedeva l'uso dell'Iraq come base per imporre cambi di regime in Iran e in Siria in modo da colpire duramente Hezbollah in Libano e Hamas nei territori palestinesi. La trasformazione così indotta in tutta la regione avrebbe protetto nelle intenzioni dei neocons il confine settentrionale di Israele e rafforzato la posizione dello stato ebraico per imporre le proprie condizioni di pace ai palestinesi. Ma l'invasione americana dell'Iraq si è rivelata un boomerang ed è sfociata in una guerra civile settaria che vede prevalere la maggioranza sciita filo-iraniana. In effetti, eliminando Saddam Bush ha eliminato il principale argine che fungeva da contenimento degli sciiti radicali dell'Iran fin dal 1979 e facendo pendere la bilancia strategica dalla parte degli sciiti aveva anche indebolito la monarchia sunnita dell'Arabia Saudita.

Un incubo

Col 2006 il sogno della trasformazione americana del Medio Oriente si era trasformato nell'incubo del montante radicalismo sciita e per far fronte a questo imprevisto sviluppo Bush incominciò a pensare al modo migliore per soffocare l'espansionismo sciita.

Nell'estate del 2006 Robin Wright, esperta di politica internazionale del Washington Post, scrisse che funzionari statunitensi le avevano detto che "per gli USA l'obiettivo più importante è schiacciare l'asse di Hezbollah, Hamas, Siria e Iran che l'amministrazione Bush ritiene stia ammassando risorse per cambiare il terreno di gioco strategico nel Medio Oriente". [Washington Post, 16 luglio 2006]

I consigliere di Bush hanno anche accusato Siria ed Iran di sostenere i combattenti antiamericani in Iraq. Non avendo però la possibilità militare e politica di estendere il conflitto al di là dell'Iraq, l'amministrazione Bush si è rivolta a Israele e al suo nuovo primo ministro Ehud Olmert. Nell'estate del 2006 fonti israeliane riferivano di un Bush interessato a trovare un pretesto per dare un colpo a Siria e Iran.

L'occasione venne quando le tensioni di confine con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano portarono alla cattura di tre soldati israeliani e alla rapida escalation israeliana del conflitto con la campagna aerea e terrestre contro il Libano. Bush e i suoi consiglieri neocons vedevano nel conflitto israelo-libanese l'occasione per allargare le operazioni alla Siria e ottenere la sospirata caduta del regime di Damasco, questo secondo fonti israeliane. Una fonte israeliana mi ha riferito che l'interesse di Bush per l'allargamento della guerra alla Siria era considerato meno di zero da alcuni alti ufficiali israeliani, anche se il primo ministro Olmert in linea di massima condivideva la linea dura di Bush contro i militanti islamici [vedi "Bush vuole allargare la guerra" in Consortiumnews.com]

Anche il Jerusalem Post in un articolo del 30 luglio accenna alle pressioni di Bush per allargare la guerra alla Siria. "Funzionari della difesa - scrive il giornale - hanno riferito al Post che ricevevano segnali dagli USA che l'America avrebbe visto con favore un attacco israeliano alla Siria". Nell'agosto 2006 l'Inter-Press Service aggiunse maggiori dettagli riferendo che il messaggio era stato fatto pervenire a israele da Elliott Abrams, vice consigliere per la sicurezza nazionale di Bush nonchè figura centrale nello scandalo Iran-Contra degli anni '80. "Incontrando un altissimo esponente israeliano, Abrams fece sapere che Washington non avrebbe avuto niente in contrario a che Israele estendesse ulteriormente la guerra al suo vicino settentrionale, lasciando nel suo interlocutore la certezza che intendeva indicare la Siria". Così riferisce una fonte all'Inter Press Service.

Una conferma del fatto che i neocons, dentro e fuori l'amministrazione Bush, avevano sperato che Israele attaccasse la Siria pensando che questo avrebbe ridimensionato gli insorti iracheni, è venuta nel dicembre 2006 da Meyrav Wurmser, figura di rilievo tra i neocons americani sposata con un consigliere del vicepresidente Cheney per il Medio Oriente. "Se la Siria fosse stata sconfitta, la ribellione in Iraq sarebbe terminata", così si esprime la Wurmser in un'intervista con Yitzhak Benhorin del sito web Ynet. "In sostanza pensavamo che Israele dovesse combattere il nemico vero, quello che sostiene Hezbollah. Se Israele avesse colpito la Siria sarebbe stato un colpo assai duro per l'Iran, tale da indebolirlo e cambiare la carta strategica del Medio Oriente.

Ma le offensive estive di Israele a Gaza e in Libano non riuscirono a raggiungere gli obiettivi di Olmert e produssero invece la condanna internazionale di Tel Aviv per l'altissimo numero di perdite civili causate dai raid israeliani.

Leaders azzoppati

Adesso Bush e Olmert, ambedue politicamente in crisi, hanno un interesse comune a cercare di cavare qualche successo dalle loro sconfitte militari e per questo pensano a possibili mosse assai più drammatiche di semplici aggiustamenti dello status quo. I democratici e alcuni repubblicani si chiedono perchè Bush voglia mandare altri 20.000 uomini in Iraq e offrire agli iracheni qualche programma di lavoro quando tattiche simili sono già fallite in passato. Ebbene, una fonte vicina alle alte sfere di Washington e Tel Aviv riferisce che una ragione non dichiarata per l'"ondata" (surge) di truppe in Iraq decisa da Bush starebbe nel rafforzamento delle difese della Zona Verde di Bagdad in previsione di un attacco israeliano all'Iran che potrebbe scatenare l'insurrezione degli sciiti iracheni. Le due flotte portaerei USA al largo delle coste iraniane rappresenterebbero poi un deterrente contro la reazione iraniana. Ma il conflitto quasi certamente si allargherebbe comunque. Probabili lanci di missili Hezbollah contro Israele, così continua la nostra fonte, offrirebbero un altro pretesto a Israele per invadere la Siria ed eliminare gli alleati di Hezbollah a Damasco, come i neocons avevano sperato succedesse nell'estate 2006.

L'idea dei neocons è che l'allargamento della guerra potrebbe fornire un'ultima possibilità per ottenere quella trasformazione di tutta la regione che stava alla base della strategia di Bush di "democratizzazione", con la violenza se necessario, del Medio Oriente. Tra gli esperti di Medio Oriente tuttavia pochi sono disposti a credere che Bush accetterebbe i risultati di elezioni veramente democratiche nella regione, perchè quasi certamente, con il sentimento antiamericano cresciuto ancor più forte dopo l'impiccagione di Saddam a fine dicembre, le elezioni sarebbero clamorosamente vinte dai militanti islamici.

Un attacco israeliano all'Iran metterebbe anche a rischio i dittatori filo-americani della regione. In Pakistan, per esempio, i militanti islamici con legami con Al-Qaeda si sono rafforzati e potrebbero cercare di rovesciare il generale Parvez Musharraf e potrebbe anche succedere che il controllo dell'arsenale nucleare pakistano cada nelle mani di terroristi islamici. I disastri che potrebbero derivare da un attacco israeliano, appoggiato dagli USA, all'Iran sono così spaventosi che alcuni esperti americani di politica estera non credono che Bush e Olmert oseranno attuare un piano simile. Ma le azioni compiute da Bush negli ultimi due mesi, con la continua riaffermazione della determinazione a riportare "la vittoria" in Iraq, fanno capire che egli rifiuta nettamente l'"uscita morbida" che potrebbe venire da una riduzione dell'impegno militare.

Sfiducia

Bush ha puntato i piedi anche quando alcuni dei più alti responsabili dell'amministrazione hanno perso fiducia nella sua strategia.

Il 6 novembre il ministro della difesa Donald Rumsfeld ha inviato a Bush un documento in cui proponeva un "deciso cambiamento" nella condotta della guerra in Iraq ivi compresa la "riduzione rapida del numero delle basi" da 55 a 5 entro il luglio 2007, con le residue forze USA da impiegare solo nelle province irachene che lo avessero richiesto. "Se non c'è piena cooperazione da parte loro (da parte degli organi di governo locali), le forze USA dovrebbero lasciare le loro province". Così scriveva Rumsfeld. Proponendo un'opzione simile al piano enunciato dal membro democratico del Congresso John Murtha, Rumsfeld proponeva che i comandanti "ritirino le forze americane dalle posizioni vulnerabili - città, pattugliamenti, ecc. - e le riorganizzino come Forze di Reazione Rapida, basate in Iraq o in Kuwait, pronte all'impiego quando le forze di sicurezza irachene avessero bisogno del loro aiuto". Per giunta, in quella che si può leggere come una critica implicita alla nobile retorica di Bush sulla trasformazione dell'Iraq e del Medio Oriente, Rumsfeld diceva che l'amministrazione dovrebbe "riformulare la missione militare e gli obiettivi americani (il nostro modo di presentarli) in senso più minimalista" [New York Times, 3 dicembre 2006].

L'8 novembre, due giorni dopo il memorandum e un giorno dopo l'elezione di una maggioranza democratica alla Camera e al Senato, Bush ha licenziato Rumsfeld. La cosa è stata interpretata generalmente come un segnale che Bush si disponesse a moderare le sue posizioni sull'Iraq, ma i fatti stanno dimostrando che in realtà si è liberato di Rumsfeld per le sue posizioni vacillanti sulla guerra.

Il 6 dicembre quando James Baker, vecchio consigliere della famiglia Bush, pubblicò il rapporto bipartisan del Gruppo di Studio sull'Iraq in cui si sollecitava una riduzione delle truppe USA in Iraq, Bush non perse tempo a respingerlo e a parlare invece di una lunga guerra contro "estremisti e radicali islamici", con un'esacalation rispetto all'obiettivo originale formulato dopo l'11 settembre di sconfiggere "i terroristi in grado di agire su scala globale". Nella conferenza stampa del 20 dicembre Bush ha poi dipinto questa più ampia lotta contro gli islamici come una prova della virilità e della costanza americane, mostrando al nemico che "non può buttarci fuori dal Medio Oriente, non può intimidire l'America". Bush ha parlato anche di decisioni dolorose che ci attendono nel nuovo anno. "Non voglio fare predizioni su quello che il 2007 ci riserva in Iraq - ha detto Bush - ma posso dire che dovremo fare scelte difficili e ulteriori sacrifici". Invece di ridimensionare il suo sogno neocon di trasformazione del Medio Oriente, Bush prospetta un più intenso impegno militare per combattere questa lunga guerra. "Dobbiamo garantire che i nostri soldati possano continuare a combattere per molto tempo" - ha detto Bush - "non sto prevedendo uno scenario specifico, ma prevedo che ci vorrà del tempo perchè l'idea della libertà possa finalmente trionfare sull'idea dell'odio". "Siamo all'inizio di un conflitto tra ideologie che si scontrano - un conflitto da cui dipenderà la possibilità per i vostri figli di vivere in pace. Una sconfitta in Medio Oriente, per esempio, o una sconfitta in Iraq, o l'isolazionismo, condannerebbero un'intera generazione di giovani americani a subire una continua minaccia da oltremare".

Escalation

Da allora Bush ha lanciato l'idea della "ondata" di nuove truppe e ha sostituito i comandanti che non erano d'accordo con lui, inoltre ha rimosso l'ambasciatore in Iraq Zalmay Khalilzad, un musulmano sunnita che viene generalmente considerato come elemento di moderazione della politica USA e che in privato si era opposto all'idea di Bush di procedere all'impiccagione di Saddam.

Ci sono perfino segnali di tensione tra Bush e Cheney che, come il suo vecchio amico Rumsfeld, sembrerebbe aver maturato una posizione di scetticismo sulla guerra. Il 4 gennaio, in un commento che è sfuggito all'attenzione dei più, il senatore Joseph Biden, nuovo presidente della Commissione Esteri del Senato, ha detto che Cheney e Rumsfeld "sono persone molto intelligenti che hanno fatto una scommessa molto, ma molto brutta, che gli si è ritorta contro. E adesso che possono fare? Penso che siano giunti alla conclusione che non possono farci niente. Come tenere la cucitura senza sfilacciare tutto il tessuto?" [Washington Post, 5 gennaio 2007].

Ma non sembra che Bush condivida l'obiettivo di limitare i danni. Sta invece cercando il modo di raddoppiare la posta in Iraq, unendosi a Olmert e magari anche al primo ministro britannico al tramonto Tony Blair per allargare il conflitto. Dopo le elezioni parlamentari del 7 novembre i tre leaders hanno avuto una girandola di incontri che in superficie sembrano avere poco senso. Olmert ha incontrato privatamente Bush il 13 novembre; Blair ha visitato la Casa Bianca il 7 dicembre e poi ha conferito con Olmert il 18 in Israele. Secondo alcune fonti i tre leader, di fronte alla prospettiva di un pesante giudizio della storia per le loro sanguinose e azzardate avventure in Medio Oriente, sono alla ricerca frenetica di opzioni per ribaltare le loro fortune politiche.

Ma c'è anche un orologio che scandisce il tempo. Blair, che sta per passare agli annali della storia britannica come il "cagnolino di Bush", avendo accettato di dimettersi nella primavera del 2007 per le pressioni del Partito Laburista, vede avvicinarsi la fine del mandato. Se dunque il triumvirato Bush-Blair-Olmert vuole cercare di portare a temine la trasformazione neocon del Medio Oriente, il tempo stringe. Una svolta drammatica è imminente e sembra proprio che possa comportare la corsa ad Armagheddon.

Note

[1] Località della Palestina, teatro di sanguinose battaglie menzionate nell'Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento è menzionata come luogo di una apocalittica battaglia che segna la fine del mondo (Apocalisse, 16, 16) [indietro]

[2] Robert Parry è autore di molte inchieste sullo scandalo Iran-Contra negli anni '80 per la Associated Press e Newsweek. Il suo ultimo libro, Secrecy & Privilege: Rise of the Bush Dynasty from Watergate to Iraq, può essere ordinato al sito secrecyandprivilege.com oppure ad amazon.com dove si può acquistare anche il libro uscito nel 1999 Lost History: Contras, Cocaine, Press & 'Project Truth.'[indietro]


Iraq, la strategia di Bush e la Führerbunkersyndrome

[indietro]

Ezio Bonsignore

11 gennaio 2007
Fonte: www.paginedidifesa.it


 

La decisione del Presidente Bush di inviare altri 20mila soldati in Iraq (contro la volontà chiaramente espressa della maggioranza del popolo americano, contro il parere concorde di un comitato congiunto appositamente creato da tutte le parti politiche, contro i suggerimenti sempre più allarmati del suo stesso partito, contro i consigli dei vertici militari, insomma contro tutto e contro tutti, e basandosi invece esclusivamente su un uso sempre più anti-democratico delle sue prerogative di Commander-in-Chief e sulla sua profonda convinzione messianica di aver ricevuto da Dio una missione che deve essere portata a termine ad ogni costo) configura con chiarezza un caso di quella che i Tedeschi chiamano la "Führerbunkersyndrome", la sindrome del bunker del Führer.  

Un capo politico-militare isolato nel suo centro di comando perde progressivamente il contatto con la realtà e si rifiuta di riconoscere che una guerra di aggressione, che egli stesso ha scatenato senza alcuna reale necessità, è ormai persa malamente ed è persa soprattutto a causa delle sue stesse decisioni. Il capo rigetta quindi questa realtà che non gli piace e si rifugia sempre più in un suo mondo irreale, continuando a formulare strategie sempre più campate in aria e a emettere ordini sempre più insensati, ma che secondo lui dovrebbero inevitabilmente portare all'immancabile vittoria finale.  

Un corollario di questo atteggiamento è che chiunque non sia d'accordo col capo e osi formulare delle critiche viene immediatamente messo da parte. Questo è appunto quello che è successo al generale Casey e al generale Abizaid, rispettivamente comandante delle forze Usa in Iraq e comandante del Central Command, ambedue rimossi pochi giorni fa dai loro rispettivi incarichi per aver espresso la loro convinzione che l'aumento di truppe deciso dal Presidente non servirà a nulla e sarà anzi controproducente. Così, alla fine l'entourage del capo viene a essere costituito esclusivamente da persone, la cui principale se non unica qualificazione per il loro incarico consiste nella disponibilità ad accettare supinamente qualsiasi decisione venga formulata dal capo.  

Per quanto riguarda l'Iraq, per esplicita dichiarazione del presidente Bush nel suo discorso i 20mila uomini in più sono destinati soprattutto a "garantire la sicurezza di Baghdad". Si tratta cioè di condurre un massiccio rastrellamento contro la cosiddetta Sadr City, cioè la grande sezione di Baghdad con una popolazione stimata a circa due milioni di persone che è attualmente controllata dalle milizie del fondamentalismo sciita e dove né i soldati americani né le forze del governo iracheno osano da tempo mettere piede. Come il Presidente ha tranquillamente ammesso, l'operazione comporterà un bagno di sangue, il cui prezzo sarà però pagato soprattutto dalla sventurata popolazione civile irachena.  

Quella che il presidente Bush ha cercato nel suo discorso di spacciare come "una nuova strategia" per l'Iraq è quindi invece esattamente la stessa fallimentare strategia, che l'amministrazione Usa ha ostinatamente perseguito negli ultimi anni: la tragica convinzione che l'uso della forza militare sia la ricetta magica per risolvere qualsiasi difficoltà di politica internazionale e che quindi sia, ad esempio, possibile domare una rivolta generalizzata e una guerra civile esclusivamente mediante la repressione e senza alcun reale progetto politico, a parte le ormai francamente indigeribili sparate retoriche circa la riconciliazione e la democrazia in Iraq. Non per nulla il comando delle forze di terra in Iraq è ora affidato al generale Odierno, che quando era alla guida della Quarta divisione di fanteria nel 2003-2004 si fece una fama poco simpatica per la sua politica di indiscriminata brutalità contro gli Iracheni e la sua convinzione che la violenza fisica fosse l'unica cosa che essi capivano.  

Ma siccome l'esperienza e la storia dimostrano che le rivolte e le guerriglie partigiane non si domano in questo modo, la perversa ostinazione del presidente Bush avrà come unico risultato pratico quello di rendere pressoché inevitabile che l'avventura militare americana in Iraq si concluda in un fallimento molto simile al disastro in Vietnam, ma ancora più grave e dalle conseguenze strategiche incomparabilmente più serie non solo per gli Stati Uniti, ma anche per tutto il resto del mondo.  

Ma c'è anche un altro aspetto da considerare: l'allarmante percezione che gli Stati Uniti sono guidati da una persona che - diciamo - si comporta come se avesse qualche difficoltà a mantenere il proprio equilibrio mentale ha delle implicazioni che vanno bene al di là della pur gravissima situazione irachena. Bush ha ancora due anni di potere come presidente ed è assolutamente determinato a portare a termine quella che vede come la sua missione e a lasciare la sua impronta nella storia - e ci sono purtroppo delle ottime ragioni per temere che questa impronta sarà stampata nel fango e nel sangue. Le chiare minacce che il Presidente ha espresso nel suo discorso nei confronti della Siria e dell'Iran potrebbero forse, se espresse da un altro personaggio e in un contesto diverso, essere viste come un'attenta applicazione del principio del bastone e della carota, ma venendo da lui - e in questo momento - sono poco meno di una dichiarazione di guerra.  

Appare quindi pressoché inevitabile che prima della fine del suo mandato, Bush attaccherà certamente l'Iran e forse anche la Siria, in una perversa 'fuga in avanti' basata sulla convinzione che allargare un conflitto che non si riesce a vincere sia l'unico modo per vincerlo. E' un po' come Hitler che attacca la Russia, perché non riesce a piegare la Gran Bretagna.  

Il resto del mondo si trova quindi a dover decidere come affrontare e nei limiti del possibile gestire una situazione, in cui la maggiore superpotenza del globo è guidata da un George W. Bush la cui personalità sta rivelando aspetti sempre meno piacevoli. Il Presidente è chiaramente impenetrabile a qualsiasi suggerimento o pressione sul piano politico, sia che vengano dagli stessi Stati Uniti e men che meno da fuori (si guardi che fine ha fatto Tony Blair con la sua 'relazione privilegiata' con gli Usa e la sua convinzione di riuscire a influenzare Bush!). E anche se dovesse capitare qualcosa a Bush sul piano fisico o su quello legale, cadremmo dalla padella nella brace, perché il nuovo presidente sarebbe Dick Cheney, che è con tutta evidenza ancor meno equilibrato di Bush.  

Visto che il presidente Bush non può essere né convinto né fermato e viste quali sono le sue intenzioni, non si vede altra soluzione politica per i Paesi dell'Occidente che allentare deliberatamente i legami politici, strategici e militari che attualmente ci uniscono se non agli Stati Uniti in quanto tali, certo a questa amministrazione.

 

Bush steps into the abyss

[indietro]

Editoriale del settimanale Workers World

11 gennaio 2007
Fonte: www.workers.org


President George W. Bush’s decision to expand the criminal war on Iraq and the U.S. military will leave its mark on U.S. history as indelibly as Lyndon Johnson’s troop escalation in Vietnam in 1964.

Bush has once more announced a plan for “victory.” He is adding more than 21,000 troops to the U.S. contingent, even while admitting casualties will rise. Some 16,000 will go to Baghdad, to add to its agony. Another 4,000 are headed to Anbar province, where the Iraqi resistance has effective control. Some will come from the regular U.S. Army and Marine Corps. Most will be recycled from the Army Reserves and National Guard.

Bush’s generals in charge—John Abizaid and George Casey—saw an escalation as hopeless, so the president replaced them with Adm. William Fallon and Lt. Gen. David Petraeus. These officers will be willing to shed even more Iraqi and U.S. blood.

Iraqis, whose lives are hell and who have lost hundreds of thousands of loved ones to Washington’s aggression, will be left with few choices. One of the few remaining satisfactions will be to strike a blow at the hated invader, and to fight on until all invaders are driven out. All prior evidence has shown that this is exactly what the Iraqis will continue to do.

This escalation of the Iraq war is accompanied by a plan, announced by the new “defense” secretary, former CIA head Robert Gates, to add 92,000 troops to the U.S. military over the next five years—another ominous sign of what lies ahead.

The Iraq Study Group made it clear that a significant sector, perhaps a majority, of ruling-class politicians, media pundits and military figures in the U.S. realize that the Bush gang’s plan to take over Iraq has already collapsed. But they don’t know what to do. They’re not willing to give up one cent of the super-profits garnered from abroad that make their class the richest in the world. So Bush, sensing their indecision, has chosen to ignore their warning and their advice to organize a controlled withdrawal. Instead, he is betting double or nothing on a “victory” that many in his own class see as delusional.

All indications are that no capitalist politicians or officials, Democratic or Republican, will stop the Bush gang. The Democrats have so far promised only “symbolic” votes in Congress spiced with a lot of criticism of Bush’s tactics—but not of his imperial designs. Zbigniew Brzezinski, of all people, came closest to it when he said on the McNeil-Lehrer Report on Jan. 11 that the war in Iraq is a “colonial war” that cannot be won in a post-colonial era—a startling admission from the architect of the U.S.-orchestrated war on Afghanistan during the Carter administration.

None of the politicians from either party have shown the will to take responsibility for organizing a retreat from the oil-rich Middle East.

Bush’s speech raises even greater dangers for the world, as he openly threatened attacks on Iran—a country three times the size of Iraq—and on Syria. He did this while the U.S. was opening a new war front in Somalia in Africa and the Pentagon had ordered another aircraft carrier group to the Gulf region, in striking distance of both Iran and the Horn of Africa. At the same time, U.S. troops in Iraq attacked an Iranian consulate and dragged out consular officials—a direct provocation and assault on Iran’s sovereignty.

Even Republicans in the Senate are comparing the present situation to 1970, when Nixon tried to rescue the failing war against Vietnam by invading Cambodia.

For the hundreds of thousands here who have actively opposed the war, this leaves only one option: mobilize the anti-war sentiment of the mass of the people into real active resistance. The latest polls show only 12 percent of the U.S. population supporting Bush’s latest escalation. Almost 60 percent say it was a mistake to go into Iraq in the first place.

It is a moment of truth for the anti-war movement. In this context, we salute the latest call by the Troops Out Now Coalition (TONC), which recognizes that Bush has shown “once again that he doesn’t care that the majority of us want the war and occupation to end immediately; he’s going to continue the war until the people literally rise up in mass rebellion in the streets to end it.”

TONC points out: “When Congress gets President Bush’s request for $100 billion more to fund the war, it must say ‘no’ to the entire amount.” The coalition calls on people to support the planned Jan. 27 and March 17 protests in Washington and adds, “[T]o ensure that Congress does not approve another dollar for the war, on March 17 (the fourth anniversary of the war), when we march on Washington against the war, instead of getting back on our buses and heading home we must be prepared to stay in Washington to make sure that Congress votes no.”

Articles copyright © 1995-2007 Workers World. Verbatim copying and distribution of this entire article is permitted in any medium without royalty provided this notice is preserved.

Workers World, 55 W. 17 St., NY, NY 10011 Email: ww@workers.org Abbonamenti wwnews-subscribe@workersworld.net Sostegno dell'informazione indipendente: http://www.workers.org/orders/donate.php

Ritorna alla prima pagina