Europei senza Europa

Piero Pagliani [*]

Fonte: Megachip
Link: [qui]
20 giugno 2012


1. Darò per scontata la storia che dal dopoguerra ha visto l’allargamento dei mercati mondiali coordinato dagli Stati Uniti e la nascita dello spazio commerciale comune europeo dalla CEE fino alla UE.

Solo alcune precisazioni devono essere fatte:

1) La marcia verso l’unità europea non può essere vista unicamente come un astuto piano delle borghesie nazionali per sfruttare meglio il proprio proletariato e i popoli del Sud del mondo. Di sicuro esse hanno controllato il processo e ne hanno dato l’impronta. Ma non solo lo hanno fatto in un modo spesso contraddittorio e conflittuale, lo hanno fatto anche per contrastare, nei limiti concessi, il predominio statunitense, o meglio per fargli la fronda.

A parte alcune punte avanzate, come la Francia gaullista, non si sono mai azzardate a spingersi oltre, ma ciò non significa che i meccanismi che hanno messo in moto non siano andati al di là delle intenzioni. Per certi versi le borghesie nazionali riunite hanno sempre cercato di contrastare il predominio USA economicamente, ma non lo hanno mai fatto politicamente, con ciò azzoppando in modo metodico la loro competizione economica.

2) L’unificazione europea era anche frutto di un’ideale nato dopo le due carneficine della Prima e della Seconda Guerra Mondiale che avevano avuto come epicentro il nostro continente. Che poi questa idealità sia stata filtrata e condizionata dalla sua implementazione capitalistica non vuol dire che i calcoli fossero tutti esclusivamente economici.

3) Tanto è vero che la II Guerra Mondiale ha anche influito su alcuni difetti ab origine dell’unificazione europea. Uno tra tutti, la reticenza francese ad un apparato di difesa comune e quindi ad un riarmo della Germania, che ha portato ad una prolungata diffidenza della Francia verso una unione politica e al suo boicottaggio, invece che alla volontà di mettersi alla testa di questo processo.

4) Infine bisogna sfatare un mito. La storia economica europea del dopoguerra dimostra senza alcun dubbio che l’unificazione dei mercati è stata resa possibile da una precedente fase di consolidamento e sviluppo delle singole economie nazionali avvenuta al riparo di strumenti tutt’altro che liberistici (come il controllo sui flussi di capitale). Quindi una sequenza totalmente opposta a quello che ci raccontano gli ideologi del neo-liberismo e ripetono a pappagallo pressoché tutti i giornalisti e i commentatori.

2. La tesi che sostengo è che a partire dal Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro pronunciata il 15 agosto del 1971, e dalla conseguente sostituzione del gold-dollar exchange standard con quello che Michael Hudson ha chiamato “Treasury-bill standard” (ovvero i dollari dei Paesi in surplus erano di fatto convertibili solo in titoli del debito pubblico americano), è il punto di snodo dell’attuale crisi sistemica, oltre che esserne l’“evento spia”. Da quel momento ha inizio l’irresistibile marcia verso la finanziarizzazione del capitalismo occidentale che viene drasticamente riorganizzato in ogni singola nazione e, soprattutto, nelle sue relazioni internazionali.

Il deficit estero statunitense cambia pelle: al passivo dovuto ai dollari investiti all’estero con scopi produttivi, speculativi o fluiti all’estero per decisioni politiche (aiuti e, soprattutto, spese militari), si affianca progressivamente un enorme deficit più strettamente commerciale, specialmente per quanto riguarda le partite correnti.

Gli USA iniziano a quel punto a ricordare sempre più la vecchia Gran Bretagna del secolo d’oro ottocentesco, diventando contemporaneamente centro commerciale e bancomat del mondo, ma con almeno una fondamentale differenza. La sterlina era sostenuta da un impero formale smisurato dove vigeva tutto il contrario del libero scambio, che garantiva alla Gran Bretagna una crescente accumulazione di ricchezza da far rifluire all’estero, cioè ai Paesi facenti parte dell’impero informale inglese del libero scambio (cioè tutti i Paesi capitalistici di allora). Il dollaro, al contrario, è sostenuto da un impero semi-informale finalizzato al controllo dei flussi finanziari e di risorse fisiche, specialmente energetiche. O meglio, da un processo necessariamente crescente di accumulazione di potenza. Un impero che gli USA con le loro guerre cercano disperatamente di formalizzare, ovverosia di trasformare in una gerarchia di stati sotto il dominio statunitense [1].

La fragilità del dollaro è dovuta alla sua estrema sensibilità ad ogni variazione di questo processo di accumulazione di potenza che a sua volta espone gli USA a spese immense [2]. Un singolo inceppamento mette a nudo il fatto che il dollaro, come moneta nazionale è “fiat currency” e, soprattutto, come moneta internazionale, è “fiat money” dove il “fiat” è, per l’appunto, pronunciato dalla potenza. E quale maggiore inceppamento, secondo solo ad una sconfitta bellica, è la possibilità, se non già la capacità, di grandi economie come quelle dei BRICS di sottrarsi al controllo statunitense esercitato tramite la forza militare e la finanza internazionale? E non è un altro inceppamento, forse non del tutto intenzionale (ma il capitalismo solleva sempre qualche pietra per farsela cadere sui piedi), l’emergere dell’euro come valuta internazionale di riserva e di scambio, al punto che il valore delle obbligazioni internazionali denominate in euro ha superato quello dei bonds in dollari?

Il rischio che lo scambio virtuoso tra potere territoriale statunitense e potere del denaro si trasformi in un boomerang è quindi il problema principale che oggi gli Stati Uniti devono risolvere.

3. Il problema sopra descritto viene affrontato dagli USA con una serie di aggressioni finanziarie, militari e diplomatiche. Il problema che allora dobbiamo innanzitutto porci è come resistere a queste aggressioni in modo che la resistenza stessa ne metta allo scoperto la natura imperialistica e quindi capitalistica, così che sia possibile collegare nella pratica la lotta contro l’impero USA alla lotta contro il capitalismo realmente esistente in Europa e in Italia.

La prima scelta è il livello da considerare: nazionale o internazionale? Ho più volte argomentato che ogni lotta delle classi e dei ceti subalterni, per motivi storici, ha il suo terreno più favorevole nei singoli stati nazionali. Ma questo non significa che il livello della resistenza debba essere confinato lì.

L’indebolimento degli stati nazionali dei centri capitalistici storici, ad esclusione degli USA, è la conseguenza di elementi strutturali sui quali agisce, ovviamente, la politica internazionale. Ma non è frutto solo delle politiche di potenza (e precisamente quelle degli USA e dei suoi “agenti segreti” in Europa). Così come non è nemmeno conseguenza univoca della tendenza del capitalismo ad espandersi oltre gli spazi giurisdizionali dei singoli Stati, come pretenderebbe un certo marxismo scolastico che ricorda l’ipotesi dell’ultraimperialismo di Kautsky. Questa tendenza c’è, ma non è deterministica, perché esistono all’interno del capitalismo delle controtendenze dovute sostanzialmente alla necessità di alleanza di particolari segmenti di capitale coi singoli poteri statali. Tanto è vero che per secoli l’espansione dei mercati è avvenuta transnazionalmente e non facendo evaporare le formazioni statali. Esattamente come è successo nel “ventennio d’oro del capitalismo” seguito alla II Guerra Mondiale. Tuttavia la necessità del capitalismo di riorganizzarsi in aree sempre più vaste (che non significa assolutamente che si giungerà ad un’unica area omogenea come ad esempio pretende la teoria dell’impero di Hardt e Negri) è storicamente evidente. E lo è anche logicamente.

Il capitalismo occidentale nasce all’insegna dell’imperialismo, ovverosia della capacità di uno Stato di proiettare all’esterno la propria potenza. Senza impero britannico non ci sarebbe stata una sufficiente “raccolta finanziaria” per innescare la prima rivoluzione industriale, non ci sarebbe stata la capacità dell’Inghilterra di ripianare gli enormi debiti contratti con i banchieri olandesi, non ci sarebbe stata la sua possibilità di propagare in Europa e negli USA lo sviluppo capitalistico moderno e infine non ci sarebbe stata la possibilità di approvvigionamento a buon mercato di materie prime [3].

In altri termini lo sviluppo capitalistico occidentale è stato reso possibile dall’esistenza del più grande impero formale mai visto nella Storia e, di conseguenza, dalla possibilità per un minuscolo stato-nazione, come la Gran Bretagna, di agire come centro commerciale mondiale e bancomat mondiale.

Per entrare in competizione con questo centro che ha dominato il passato ciclo sistemico di accumulazione, gli stati-nazione si sono dovuti attrezzare ad imperi moderni, cioè con caratteri imperialistici, nel mentre sparivano gli imperi dinastici.

Impero erano gli Stati Uniti (alcuni padri fondatori usavano in modo interscambiabile il termine “impero” e il termine ”federazione”). Imperi coloniali furono conquistati dalla Francia, dal Belgio e in misura minore dall’Italia e dalla Germania, per altro già piccolo impero essa stessa, che farà il tentativo di conquistare un impero europeo scatenando due carneficine mondiali. Impero era quello del Sol Levante.

Con la seconda Guerra Mondiale si ha la dissoluzione degli imperi coloniali, voluta e perseguita dall’unico impero organico occidentale: gli Stati Uniti, che sono simultaneamente un impero e uno stato-nazione. Ad esso si oppose un altro impero-stato-nazione, l’URSS con gli esiti che conosciamo

Oggi gli attori internazionali sono tutti imperi: la Russia (17.075.200 km2 e 144.958.164 abitanti), gli USA (9.372.614 km2 e 314.551.246 abitanti), la Cina (9.596.960 km2 e 1.348.931.997 abitanti), il Brasile (8.547.906 km2 e 198.946.470 abitanti), l’India (3.287.590 km2 e 1.210.193.422 abitanti), il Sudafrica (1.219.912 km2 e 50.132.817 abitanti).

Spiattelliamo questi dati perché c’è il vizio di pensare all’economia capitalistica in termini astratti, come se si svolgesse sulla Luna, oppure considerando spazi economici, come “Cindia” (Cina + India), tanto improbabili quanto nel subconscio popolare finiscono per essere considerati come dei Godzilla e nel conscio, al contrario, vengono immaginati come dei semplici Benelux. E non si sa cosa è peggio.

Ovviamente i fattori storici e politici non sono secondari, e lo dimostra ad esempio l’emergere del Sudafrica invece che dell’Indonesia (244.870.937 abitanti per 1.919.440 km2) che da anni sta crescendo ma in modo troppo dipendente dall’Occidente.

Tuttavia appare chiaro che la dimensione geografica (estensione e tipo di territorio) e sociale (popolazione) sono fattori predominanti. E ciò non dovrebbe destare sorprese, perché l’accumulazione capitalistica richiede una crescente mobilitazione di risorse fisiche e sociali. E le risorse vengono mobilitate perché le si hanno o perché si ha la forza finanziaria, militare e politica per farlo. E le tre forze devono andare a braccetto.

In questo quadro i Paesi capitalistici storici del Vecchio Continente non possono che declinare come singole potenze. Niente di più naturale che si siano inventati un progetto di impero europeo e che questo progetto abbia subito un’accelerazione dopo i primi segnali conclamati di crisi sistemica, segnali che possiamo simbolicamente rappresentare col Nixon shock. Una crisi da cui sono emersi gli enormi competitor sopra ricordati e una crisi che nessun singolo Paese europeo giudicava di poter affrontare da solo.

Pensare che una secessione dall’Europa possa portare alla sovranità nazionale, o possa far “ri-tornare” ad una sovranità nazionale già molto dubbia anche ai “tempi d’oro” del miracolo economico, quando cioè il Paese era in decisa crescita e il movimento dei lavoratori era forte, cioè tutto il contrario di adesso, è quindi francamente opinabile, cosa che non significa assolutamente che la situazione presente sia giudicata sostenibile.

Certo, i manuali di economia politica dicono che ritornando ad una politica monetaria (teoricamente) sovrana ci sarebbe la (teorica) possibilità di riequilibrare i conti pubblici e commerciali e persino promuovere investimenti produttivi. Lo ha capito persino Berlusconi, probabilmente su imbeccata di Tremonti.

Ma i modelli di economia politica sono soggetti alle condizioni politiche. E le condizioni politiche possono ribaltare tutte le conclusioni teoriche. L’esistenza stessa degli USA, coi suoi deficit pubblici e commerciali stratosferici, è uno scandalo per l’economia politica, così come lo è il volo del calabrone per l’aerodinamica. Eppure il calabrone USA continua inspiegabilmente (per molti) a volare e a dare filo da torcere a tutti gli altri enormi contendenti con “fondamentali” economici largamente migliori dei suoi. Tanto è vero che per spiegare l’assurdo fenomeno che grazia gli Stati Uniti si usa a volte il termine “exorbitant privilege” [4].

Al contrario lo pseudo-impero europeo, prima economia mondiale ma nanerottolo politico, è sull’orlo dell’implosione.

Non illudiamoci, quindi. Non avendo noi la possibilità di conquistare nessun Palazzo d’Inverno (perché non si sa nemmeno dove sia), le secessioni dall’Europa e dall’euro o saranno imposte dall’alto o non ci saranno. E se saranno imposte dall’alto saranno secessioni americanizzate, come intenzione o come esito.

Anche l’eventuale uscita della Germania dall’euro darebbe origine a un’Europa totalmente americanizzata e, qualora sopravvivesse a se stesso, ad un euro dollarizzato.

Quando si cita il caso argentino ci si dimentica di tutti questi elementi. Ci si dimentica che l’Argentina si estende su 2.766.890 km2. E ci si dimentica che il problema era quello di de-dollarizzare una moneta sovrana, il peso, e il debito sovrano, mentre qui si tratta di de-marchizzare l’euro senza dollarizzarlo e senza dollarizzare i debiti sovrani o eventualmente le rinate monete nazionali.

Ma a quanto si capisce dai litigi tra i governanti europei, la scelta sembra invece tra la padella (euro-marco) e la brace (euro-dollaro). Teoricamente anche la scelta dei rapaci creditori degli Stati europei è quella di avere crediti denominati in euro-marchi o in euro-dollari. Ovviamente tremano all’idea di avere crediti denominati in lire, dracme, peseta, franchi, eccetera. Per quello la parola d’ordine è “salvare l’euro”. Ma la ragione più importante è che sanno che per “salvare l’euro” l’ipotesi più probabile è quella di dollarizzarlo, cioè di sottoporlo alla politica economica del loro principale alleato, gli USA (le società di rating sono lì apposta per ricordarlo fungendo da sistemi di puntamento per gli speculatori con sede a New York).

Inoltre i rapaci creditori hanno due vaschette di pratiche: quella IN dove si mettono gli attivi e quella OUT dove si mettono i passivi. Il loro problema è che quella OUT è zeppa di pratiche da smaltire e le pratiche IN non riescono a stargli dietro. L’euro-marco vale di più del dollaro, ma la politica dell’euro-marco non permette di far finire nel tritadocumenti le pratiche OUT in misura sufficiente. E’ allora preferibile un euro-dollaro più munifico, una BCE FED-izzata.

Il grande problema è che se anche si spremono gli abitanti dell’Europa come dei limoni, i libri contabili non andranno mai a posto. Lo stiamo vedendo proprio adesso con Monti. Ma non andranno a posto nemmeno se si stamperanno euro a go-go; ammesso pure che i BRICS lo permettano senza passare a rappresaglie, perché se da un lato hanno bisogno che l’Europa ritorni a crescere, dall’altro non sono molto propensi ad accettare ad libitum un dumping finanziario occidentale, innanzitutto per questioni di predominanza politica (e poi dubito che siano davvero convinti di una possibilità di ripresa stabile dell’Europa e dell’Occidente in generale, per i motivi che vedremo tra poco). Questa contraddizione dimostra ancora una volta che il capitalismo fa le pentole ma mai i coperchi, come il diavolo.

Tuttavia bisogna considerare che i libri contabili non sono di per sé pericolosi - li aveva anche Al Capone - finché qualche ispettore, con dietro la “forza pubblica” e un potere contrapposto, non viene a controllarli. Così come un bluff non è rischioso finché nessuno dirà “vedo” tenendo pronta la sei colpi.

E queste ispezioni, che sono grandi operazioni non singole speculazioni, si fanno su input politico o in base a considerazioni politiche, non perché i metafisici “mercati” si svegliano con la luna storta. Certo, cercano sempre di convertire la loro carta straccia in beni reali, dandosi battaglia con le mergers & acquisitions o andando alla conquista dei domini pubblici degli Stati o seguendo come avvoltoi la distruzione bellica di Stati deboli. Ma questa “truffa a mano armata”, quando prende di mira gli Stati oltre ad un certo punto ha bisogno dell’assenso politico e deve ragionare politicamente. Tanto è vero che prende di mira Eurolandia che è messa di gran lunga meglio degli USA e della Gran Bretagna e persino del Giappone. E lo fa facendo leva sulle contraddizioni indotte dall’euro-marco.

E’ quindi con dietro una più ampia strategia che i “mercati finanziari” sono venuti dagli USA e UK a controllare i libri contabili dell’eurozona: perché oramai deve essere risolta la scelta tripartita a cui la logica capitalistica ha da sempre messo di fronte la costruzione europea, ovvero: a) Europa globalizzata ed americanizzata, b) Europa tedesca, c) dissoluzione. E deve essere risolta urgentemente, perché lo impone la debolezza economica degli USA e la pressione crescente per il controllo dei mercati finanziari da parte dei BRICS (che vantano “collaterali” ben più appetibili di quelli occidentali) con tanto di minaccia di spaccare in due il mercato mondiale delle merci e della finanza. Ovvero, perché i giganteschi “competitor” a loro volta minacciano di voler vedere i libri contabili degli USA. Una volontà politica prima e solo in seconda istanza economica (perché se è vero che l’occasione ai BRICS viene dalla loro strabiliante crescita economica e dall’accumulazione di ricchezza, è anche vero che il coraggio gli viene dal fatto che bene o male tre di questi giocatori sono potenze atomiche).

4. A questo punto la scelta è: Europa unita americanizzata o Europa dissolta americanizzata.

Una Europa tedesca americanizzata sembra invece improbabile. La normalizzazione della Germania potrebbe passare grazie ad un compromesso: mollare la presa sull’Europa del Sud in cambio della mano libera sui Balcani e l’Europa dell’Est. Ma questa è un’area geostrategicamente molto, troppo sensibile. Il rischio sarebbe lastricare la strada all’Ostopolitik tedesca, alla millenaria Drang nach Osten della Germania, resa urgente dalle contraddizioni capitalistiche mondiali. Ed è dubbio che gli USA lo possano permettere.

In tutti i casi ogni risultato non sarà mai un nostro risultato. Possono infiocchettare questa o quella soluzione con il nastro consunto della “ripresa”, della “crescita”, del “progresso”, ma il risultato sarà un disastro per i popoli europei. E non solo.

La soluzione che vorremmo è un’altra: un’Europa neutrale, disaccoppiata dalla globalizzazione neoliberista e dalla sua finanziarizzazione targata USA, collaborativa con l’Africa, l’ALBA latino americana, i Paesi arabi e l’Asia, e soprattutto con i loro popoli.

Un’Europa tutta il contrario di quanto è realmente, ma non più utopica di un’Italia - necessariamente bolscevica - politicamente e monetariamente sovrana; e con in più il vantaggio di essere concepita nella dimensione giusta, quella che esporrebbe di meno alle mire egemoniche degli altri grandi attori, a partire dagli USA.

La definanziarizzazione dell’economia europea è un passaggio necessario. Ma attenzione, è un passaggio politico necessario nella misura in cui la finanza mondiale è politicamente alleata con gli Stati Uniti; non è un passaggio necessario perché la finanziarizzazione avvilirebbe un potenziale produttivo sottostante. Produttivo nel capitalismo è ciò che produce profitto. Ma la finanziarizzazione è nata proprio dalla crisi strutturale dei profitti industriali in Occidente. Quindi non basta una riforma della sfera della circolazione (più o meno all’insegna di ricette keynesiane) per lasciare esprimere una potenzialità produttiva che non c’è più. O meglio, che è confinata a settori come quelli degli armamenti (come sempre), dell’energia, delle biotecnologie, delle nanotecnologie e pochi altri (settori fortemente soggetti alle ripartizioni, soggette alle politiche di potenza, della divisione internazionale del lavoro).

Allo stesso modo le proposte per misure di ridistribuzione del reddito non devono essere contrabbandate per soluzioni per aumentare la mitica “domanda aggregata”, ma per quello che sono e devono essere: misure di giustizia sociale. L’effetto sulla domanda aggregata è secondario sia in termini materiali sia in termini politici e persino ideali (se per caso la disoccupazione strutturale di un settore della popolazione favorisse lo “sviluppo” del resto, che faremmo?).

La neutralità dell’Europa è una condizione complementare necessaria.

I governanti europei hanno una grande responsabilità: aver costruito un ibrido mostruoso che ha sottratto sovranità nazionale ai Paesi membri senza ricostruirla a più alto livello, aver smantellato industrie e settori produttivi nazionali a favore dell’accumulazione per spoliazione globalizzata invece di costruire un sistema industriale europeo. Avere in parte fatto - e avere in progetto di condurre a termine - la stessa cosa per i servizi sociali e tutto il dominio pubblico dei Paesi membri. Aver reso ineffettivi e privi di sostanza i livelli decisionali democratici dei Paesi membri senza averli ricostruiti a livello europeo (anzi, stando molto attenti a non farlo).

Infine aver suscitato il fantasma di una moneta unica senza proteggerla bensì mettendola alla mercé della finanza internazionale con scelte monetariste suicide in generale e in particolare dettate dagli egoismi della Germania.

5. Il monetarismo si basa sull’assunto che la moneta sia una merce. Per Marx è anche una merce, ma una merce che va oltre se stessa a causa delle sue funzioni nel modo di produzione capitalistico. Invece il monetarismo ragiona come se ci fosse un barriera metallica mentre i rapporti sociali di produzione capitalistici costantemente abbattono tutte le barriere metalliche.

In realtà la “barriera metallica” cui il monetarismo fa riferimento è solo la rappresentazione ideologica dell’alleanza tra la finanza e il potere territoriale. E’ quindi solo l’espressione di rapporti di forza storici. Se guardiamo alla storia della base aurea nei Paesi capitalistici occidentali si vede subito che essa segue quella della potenza dei sistemi statali che vi hanno aderito e l’inconvertibilità del dollaro, ovvero della moneta mondiale, è stata il più chiaro disvelamento di questa contraddizione storico-logica. Con essa si è detto chiaramente che la misura del potere monetario mondiale è il potere mondiale tout court, l’unico che poteva uccidere il re precedente, il sistema aureo. E lo ha fatto perché ha riconosciuto che un sistema aureo, per quanto mediato dalla propria moneta nazionale, era un vincolo al potere monetario [5].

Se al posto di “sistema aureo” si mette “tassi di cambio fissi”, allora si vede chiaramente che il Nixon shock era l’unico modo degli Stati Uniti per non rimanere intrappolati nel famoso Triangolo Impossibile di Mundell-Fleming, che dice che è impossibile avere contemporaneamente autonomia della politica monetaria, piena mobilità dei capitali e un sistema di cambi fissi (non a caso Mundell e Fleming avevano indipendentemente elaborato il loro modello nella prima parte degli anni Sessanta, quando queste incompatibilità stavano emergendo con evidenza empirica [6]).

Incidentalmente la crisi dell’Eurozona dimostra proprio la correttezza di quel trilemma, nel senso che l’Europa non ha una politica monetaria sovrana, ma ce l’ha di fatto solo una sua componente, la Germania, che la possiede perché con la sua politica neomercantilistica centrata sulla gabbia dell’euro-marco scarica sui Paesi periferici e semiperiferici dell’Europa (i PIIGS) le contraddizioni che nascono dalla volontà di mantenere contemporaneamente tutte e tre le scelte del trilemma, che invece sono a due a due incompatibili, così come l’inconvertibilità del dollaro in oro ha permesso finora di fare la stessa cosa agli USA che ha via via scaricato sul resto del mondo le contraddizioni che si creavano.

Il problema è che ora gli USA devono scaricare queste contraddizioni sull’Europa, nel duplice senso che devono riportarla sotto la stretta sorveglianza della politica economica statunitense e all’ortodossia atlantica senza se e senza ma. Si noti che la prima manovra segue la seconda.

I mal di pancia della Francia ma anche dell’Italia per la guerra in Iraq si sono ribaltati nei recenti entusiasmi bombardatori contro la Libia e in quelli futuri contro la Siria e forse l’Iran. Entusiasmo trascinato dalle sinistre europee ancor più che dalle destre.

E l’attacco speculativo all’Italia è seguito alla sua massiccia partecipazione alla guerra Libica voluta da Napolitano e imposta alla destra tramite la pressione della sinistra. Infatti questo rinnovato giuramento di fedeltà atlantica è stato il segnale che all’attacco speculativo sul debito pubblico del nostro Paese avrebbe risposto un governo che avrebbe accettato il ricatto senza fiatare. Anzi, addirittura sarebbe stato compartecipe del ricatto stesso (emblematico è Monti, che massacra il Paese per rispondere all’innalzamento dello spread causato dai giudizi di agenzie di rating di cui fa parte).

La Germania sulla Libia ha invece resistito. Non a caso, perché ha capito questa relazione tra fedeltà atlantica e blocco di ogni possibilità di disaccoppiamento dalla politica economica americana, comprendendo benissimo che l’attacco alle periferie europee, e specialmente all’Italia, Paese cruciale per l’Europa, sarebbe stato il percorso più ovvio e di minor resistenza per attaccare il “suo” euro-marco. Sulla Siria invece si mostra possibilista. Vuole solo prendere tempo? Ha capito che alla fine dovrà cedere all’attacco di Obama coadiuvato da Hollande, Monti e Cameron? Sta ricevendo delle promesse da parte americana? Non lo sappiamo.

6. D’altra parte questo era quanto poteva fare nel quadro delle logiche economiche, finanziarie e politiche capitalistiche una congerie di governi, di destra e di sinistra, in parte incapaci, in parte miopi, in parte litigiosi, in parte vigliacchi, in parte servili, in parte iper-realisti e quindi propensi al compromesso permanente con gli USA e i suoi “poteri forti”. Difetti che sono prepotentemente emersi con la crisi finanziaria, mentre finché il vento tirava erano in qualche modo assopiti o arrecavano danni aggiustabili. Difetti che se all’inizio derivavano da reali vicende storiche e quindi erano scusabili o capibili, in seguito si sono corrotti in calcoli meschini fino a ribaltare la frittata, come ha fatto la Francia del marito di Carla Bruni col suo gaullismo all’incontrario.

Ora questa congerie inqualificabile si è messa da sola di fronte al dilemma che abbiamo sopra illustrato: morire tutti insieme americani o morire separatamente americani.

Purtroppo a fare le spese per primi di questa non-scelta saranno i popoli europei, a partire dagli strati sociali più deboli e dalle classi subalterne.

A questo esito dovremo opporci, quale che sia la scelta che faranno nella stanza dei bottoni questi decisori che non appaiono egoisti solo quando devono servire gli interessi di altri. Dobbiamo opporci con tutte le nostre forze proclamando chiaramente che nessuna delle loro decisioni sarà la nostra.

L’Europa che vogliamo non è a portata di mano. Ma l’opposizione all’Europa di adesso ne deve essere in parte una prefigurazione. Su di essa dobbiamo far convergere le forze di un blocco sociale tutto da individuare e organizzare.

Per far questo occorre una manovra bidirezionale: partire contemporaneamente dal basso, cioè dai bisogni reali e dai conflitti sociali indotti dalla crisi, e dall’alto, ovvero da una visione e da un orizzonte alternativi a quelli che ci hanno condotto a questa insostenibile situazione, pericolosissima perché non ha sbocchi se non catastrofici. In mezzo dobbiamo prevedere i punti in cui i percorsi dal basso e quelli d’alto si congiungeranno. Tecnicamente si chiamano “pietre miliari”. Per noi saranno dei test politici.

Per quanto detto, uno dei test politici, al quale dobbiamo sottoporre tutte le proposte che continuano a provenire da più parti, riguarda la collocazione internazionale dell’Italia e dell’Europa. Un tema toccato da pochissimi.

Da ciò che si pensa su questo punto si può dedurre con precisione come una forza politica intende muoversi anche in tema di politica economica (a meno che sia totalmente schizofrenica, e allora è pericolosa).

Un secondo test riguarda il riconoscimento che l’attuale crisi sistemica è innanzitutto una crisi di profittabilità dell’economia reale. Cioè è una crisi derivante dai rapporti sociali capitalistici (sintetizzabili nella coppia “forma merce/plusvalore”). Fermarsi alla denuncia della finanziarizzazione è come diagnosticare un sintomo gravissimo ma non l’origine della malattia. La mera denuncia della finanziarizzazione (così come quella dell’imperialismo) è alla portata anche di alcuni settori della destra (che dipingono spesso il “signoraggio” e l’usura come la causa di tutti i mali e il cui supporto analitico si può sintetizzare nella categoria di “nazionalismo” a volte complementata dall’antisemitismo). Ma non è assolutamente alla portata della destra la denuncia dei rapporti sociali capitalistici, che sono invece alla base della crisi.

Tuttavia la definanziarizzazione dell’economia è parte integrante della politica di disaccoppiamento dalle politiche imperiali degli USA. Così come viceversa è pura utopia pensare di definanziarizzare l’economia europea senza opporsi a quelle politiche imperiali.

Ma sotto la finanza in Occidente non c’è quasi più nulla, o meglio c’è la prospettiva di una lunga depressione, e in Europa c’è solo, parzialmente, la potenza economica tedesca, che però continua ancora oggi a voler giocare per proprio conto imponendo ai Paesi attaccati dalla speculazione a guida laser statunitense una austerità non meno depressiva. In questo modo cerca di utilizzarli né più né meno che come “Paesi cuscinetto”, dimenticandosi, o facendo finta di dimenticarsi, non si sa, che invece sono innanzitutto bersagli che essa stessa ha disegnato sulla propria schiena a beneficio degli impallinatori d’oltre Altlantico.

In teoria la posizione tedesca potrebbe non essere così irragionevole. Dice in sostanza: depressione per depressione, piuttosto che una depressione europeo-americana è meglio una depressione europeo-tedesca perché lascerebbe spazi di manovra geopolitici che possono essere giocati utilmente per uscire dalla depressione stessa e per costringere gli USA ad accettare un riordino mondiale dell’economia capitalistica e dei rapporti di forza internazionali. Ma che questa sia una lettura molto ottimistica della posizione di resistenza della Germania lo dicono molte cose: il fatto che alla bisogna gli USA possono sempre ricordare alla Germania il suo stato di Paese sconfitto e occupato militarmente, poi il metodico ritardo dei tedeschi a capire le situazioni, il metodico ritardo nell’avanzare soluzioni, il fatto che queste tardive soluzioni denotano che le preoccupazioni per la Germania vengono prima di quelle per l’Europa, segnalando così una miopia che sicuramente non fa di nessun politico tedesco attuale, né di destra né di sinistra, un’erede di Carlomagno. Infine, anche nelle migliori delle ipotesi la lettura ottimistica potrebbe essere giustificata solo da ottimistiche previsioni sulla possibilità di rilanciare impetuosamente, diciamo così in Eurasia tanto per intenderci con una nota area geopolitica, lo sviluppo materiale capitalistico. Ma non credo che tale ottimismo possa essere giustificato.

Infatti, anche se fosse possibile una nuova fiammata essa brucerebbe ancor più velocemente di quella precedente le risorse fisiche e sociali mobilitate (in questo ciclo sistemico sono state bruciate in meno di venti anni, mentre in quello precedente la fase propulsiva durò circa novanta anni, dalla fine delle guerre anglo-olandesi all’inizio della Grande Depressione nel 1873).

Se ciò è vero, abbiamo all’ordine del giorno la questione della transizione ad un sistema non capitalistico.

Cosa ciò significhi è tutto da capire. Non è però difficile da capire che non sarà nemmeno possibile impostare il discorso se non si fissano le coordinate sulla collocazione internazionale dell’Italia e dell’Europa e sulla vera natura della crisi.

Altrimenti qualsiasi proposta, ad esempio sul lavoro, l’occupazione, il reddito di cittadinanza, la riconversione ecologica, eccetera, sarà solo un pour parler.

[1] O più precisamente, tentano di ri-formalizzare, dato che dal dopoguerra al 1971 era vigente proprio una tale gerarchia, per altro sanzionata a Bretton Woods e i cui pilastri erano la Nato e il sistema gerarchico ramificato di banche centrali subordinate alla FED che doveva controllare politicamente la creazione e distribuzione del denaro mondiale. Incidentalmente, pensare al ventennio d’oro del capitalismo come ad un’epoca di “sovranità” perché c’era una moneta nazionale, è un po’ azzardato.

[2] Si pensi ai tre trilioni di dollari per la sola guerra in Iraq calcolati nel 2008 da Joseph Stiglitz e Linda Bilmes e ai sei trilioni di dollari di perdite che sempre secondo Stiglitz l’umanità dovrà pagare come conseguenza diretta o indiretta (per avere un’idea, sei trilioni di dollari corrispondono alle riserve in oro e valuta di tutti i Paesi del mondo e a metà del PIL annuo degli Stati Uniti).

[3] Chi fece le spese feroci e dirette di queste magnifiche sorti furono gli abitanti del subcontinente indiano, rapinati a mano armata, e i neri africani usati come merce di base nel commercio triangolare atlantico i cui vertici erano Africa, America e Inghilterra.

[4] Non inaspettatamente di origine gaullista: Valéry Giscard d'Estaing nel 1960.

[5] Anzi, la mediazione del dollaro aggravava la situazione, come previsto dal paradosso di Triffin: se una moneta nazionale deve agire come moneta mondiale, la nazione emettitrice per rifornire di tale moneta le altre nazioni è costretta ad un deficit della bilancia dei pagamenti, in particolare in conto corrente, cioè nelle transazioni che non rappresentano un’attività finanziaria. Ma tale deficit alla lunga crea una sfiducia nella moneta mondiale. Ovviamente questo paradosso, benché formulato successivamente, era ben presente alla mente di Harry Dexter White, il capo delegazione americano a Bretton Woods. Tuttavia egli convinse la maggioranza dei Paesi presenti alla conferenza a rifiutare la proposta di Keynes del “bancor”, cioè di una moneta virtuale (papergold) non basata su nessuna valuta chiave. I motivi del rifiuto di Dexter White e la sua insistenza per un gold-dollar exchange standard (che di fatto esisteva fin dagli anni Trenta) erano evidentemente di ordine politico, perché in questo modo gli USA potevano controllare finanziariamente l’economia mondiale. Il comportamento degli USA nel dopoguerra dimostra che le autorità americane cercavano di non far scattare il paradosso di Triffin con l’ausilio dell’FMI e della Banca Mondiale (entrambe controllate dagli USA e nate proprio su proposta di Dexter White, come risposta al bancor di Keynes) e con i prestiti diretti (nell’ambito del Piano Marshall e più ancora della Guerra Fredda). Ma col rafforzarsi dell’Europa e del Giappone come “opifici del mondo” a scapito degli USA, Washington per contrastare l’indebolimento del dollaro cercò ripetutamente di limitare i deficit commerciali ponendo limitazioni persino sugli investimenti di portafoglio all’estero (erano sostanzialmente ammessi solo quelli che generavano flussi immediati di ritorno o inducevano un controllo maggiore del 10% - Interest Equalization Tax introdotta dall’Amministrazione Kennedy nel Luglio del 1963). Ma incorsero in un altro paradosso triangolare, squisitamente politico e finora mai formalizzato, quello tra politiche non depressive, stabilità monetaria e politiche di potenza (tenere insieme i tre corni del trilemma era quanto cercò di fare l’ultimo Kennedy e poi Johnson con il suo progetto di Great Society). Quel che successe in seguito, fino al Nixon Shock è noto. Per certi versi gli USA si “adeguarono” al paradosso di Triffin sfruttandolo a fini di potenza incorrendo però negli intrecci tra il Triangolo Impossibile di Mundell e Fleming (vedi oltre) e quello della Great Society, da cui cercarono di evadere con la globalizzazione.

[6] Il modello di Mundell e Fleming, denotato come IS-LM-BP, è un’estensione del modello di origine keynesiana IS-LM Per una storia di quel periodo, dei suoi antefatti e delle sue conseguenze dal punto di vista dei rapporti finanziari intergovernativi, insuperabile è il libro di Michael Hudson “Super Imperialism: The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance”, 2nd ed., London: Pluto Press, 2003.

[*] Membro dell'Ufficio Centrale di Alternativa.

Ritorna alla prima pagina