La storia rovesciata… Sulle origini della II guerra mondiale

a cura di Andrea Catone


Pezzo dopo pezzo, anniversario dopo anniversario, i dominanti riscrivono la storia, impongono la loro narrazione degli eventi, perché essa divenga senso comune e privi le masse subalterne della loro identità di resistenza e di lotta, in modo da sradicare la possibilità stessa di una rinascita e ricostruzione comunista, indispensabile per rovesciare lo stato di cose presente segnato dal dominio pervasivo del capitale e dell’imperialismo.

In questa campagna demolitrice della storia comunista, accanto alla grande stampa borghese, si colloca in pessima compagnia anche il manifesto, che, al di fuori di qualsiasi contestualizzazione storica e di un uso rigoroso delle fonti, si appiattisce sul modello di quell’uso politico e strumentale della storia affermatosi coi libri di Pansa.

E’ necessario contrastare questa campagna, costruendo una risposta non occasionale ed episodica, in modo che il proletariato e i comunisti si riapproprino della loro storia.

Si riportano qui

AC



   

Per ricordare lo scoppio della II guerra mondiale, “il manifesto” (“giornale comunista”) non trova di meglio che pubblicare un articolo di Guido Ambrosino sul “patto scellerato” Molotov-Ribbentrop, quasi fosse esso la causa della guerra. L’articolo, senza un minimo di contestualizzazione storica, omette di citare ciò che precedette quel patto: gli anni di tentativi dell’URSS di avviare un’intesa antifascista con le democrazie europee (la politica gestita da Litvinov, poi rimosso non perché ebreo, come insinua Ambrosino, ma perché quella politica non aveva avuto buon esito e si decise di cambiarla: cfr. S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile, Einaudi 1995); la sordità dei governi “democratici” a quelle offerte, il loro tentativo di orientare verso est l’aggressività nazista (come Hitler aveva teorizzato nel Mein Kampf), lo scellerato patto di Monaco che – quello sì – diede il “via libera” all’espansionismo nazista e dunque alla guerra. L’URSS, conscia che sarebbe stata attaccata (magari su due fronti: Germania e Giappone), fu costretta all’accordo per rinviare l’evento e “guadagnare tempo cedendo spazio”; il patto le consentì di ricostruire lontano dai confini parte rilevante del suo apparato industriale e bellico, così da poter fare poi “terra bruciata” delle zone occidentali all’atto dell’invasione nazista (cfr. M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, Ed. Riuniti 1976, pp. 336-40). Quanto ai protocolli segreti, nell’imminenza e inevitabilità della guerra essi servivano a creare una zona di sicurezza spostando a ovest i confini sovietici. Certo, la cosa può apparire disdicevole e a farne le spese fu la Polonia, ma quello che era in atto era uno scontro mortale che riguardava l’intera umanità. Forse bisognerebbe pensare anche a questo, prima di tranciare giudizi morali (o moralistici) sull’“infamia” di Stalin.

Alexander Höbel


 

MEMORIA STORICA:
Quel patto scellerato fra Hitler e Stalin. Così si arrivò all'attacco alla Polonia

Il Manifesto 2 settembre 2009

Guido Ambrosino


Settanta anni fa Adolf Hitler parlò al Reichstag, il «parlamento» ridotto a scena teatrale per le sue comunicazioni: «Dalle 5.45 si risponde al fuoco». Queste parole contenevano una menzogna, perchè era stata la Wehrmacht a scatenare a freddo l'attacco. E un'imprecisione sull'ora: già alle 4.35 del primo settembre 1939 aerei tedeschi avevano sganciato le prime bombe sulla città di confine di Wielun, e alle 4.45 la nave-scuola Schleswig-Holstein aveva cominciato a cannoneggiare la guarnigione polacca sulla Westerplatte, davanti a Danzica.

L'aggressione era stata preparata con cura. I piani d'invasione della Wehrmacht erano pronti già alla fine di giugno. Mentre per motivare il pubblico tedesco, meno smanioso di guerra di quanto avrebbero voluto i capi nazisti, si inscenavano provocazioni, come la bomba piazzata il 28 agosto da agenti tedeschi alla stazione ferroviaria di Tarnow o il finto assalto di uomini delle SS in uniformi polacche alla radio di Gleiwitz il 31 agosto. Anche la favola per cui sarebbero stati i polacchi i primi a sparare era a uso e consumo della popolazione tedesca. Ovviamente Hitler non aveva trascurato di preparare il terreno anche sul piano diplomatico. Lo scellerato patto di «non aggressione» con l'Urss lo metteva al riparo da sorprese all'est.

A fine luglio del 1939 Berlino aveva segnalato a Mosca che tra il Baltico e il Mar Nero non c'erano controversie geopolitiche che non si sarebbero potute risolvere «con reciproca soddisfazione». Anche in direzione opposta erano venuti segnali concilianti, come la sostituzione del ministro degli esteri Litvinov, ebreo, con Molotov.

Il 23 agosto Molotov ricevette a Mosca il suo collega tedesco Ribbentrop, e la stessa notte i ministri firmarono due documenti passati alla storia come «patto Hitler-Stalin».

Il primo, che fu reso pubblico tra lo sconcerto degli antifascisti europei, impegnava i due stati al reciproco rispetto dei propri territori e alla neutralità, con formulazioni che lasciavano ampio spazio all'aggressione contro terzi, da parte di uno o di entrambi.

Ma nemmeno i critici antifascisti poterono allora immaginare che c'era anche un annesso segreto, la cui esistenza i sovietici riconobbero solo nel 1989. In questo secondo testo si scambiavano garanzie sulle rispettive sfere d'influenza. L'Urss vedeva riconosciute le sue pretese su territori persi dall'impero zarista in seguito alla prima guerra mondiale, anche come conseguenza della condotta di guerra tedesca in quel conflitto: Finlandia, Estonia, Littonia, Bessarabia (che grosso modo corrisponde all'attuale Moldavia) e i territori polacchi a est di una linea che passava per i fiumi Narev, Vistola e San. La Polonia a ovest di questa linea e la Lituania venivano assegnate alla «sfera d'interesse» del Reich tedesco. Si trattava di un ritorno ai piani di spartizione ottocenteschi della Polonia tra le potenze continentali. E del più vergognoso dei tradimenti delle promesse internazionaliste della rivoluzione d'Ottobre: l'Unione sovietica di Stalin era tornata a operare secondo la logia dell'impero zarista.

Nei primi giorni di settembre Stalin se ne rimase tranquillo, aspettando che i tedeschi facessero il grosso del lavoro sporco e spezzassero il nerbo delle resistenze militari. Del resto la Russia era impegnata in un conflitto in Manciuria con i giapponesi, che si concluse a vantaggio dei sovietici il 15 settembre. Solo due giorni dopo, il 17 settembre, lo stesso giorno in cui il governo polacco lasciò Varsavia per l'esilio, le truppe sovietiche invasero la Polonia da est.

Preso tra due fuochi, l'esercito polacco capitolò a Varsavia il 27 settembre. Alcune unità continuarono a resistere ancora per dieci giorni. Mentre le truppe tedesche si preparavano a entrare a Varsavia, Ribbentrop tornò a Mosca, e già il giorno seguente, il 28 settembre, si accordò con Molotov su tre emendamenti al patto territoriale segreto firmato in agosto. Stavolta la Lituania ricadeva nella «sfera d'influenza dell'Urss». In cambio la Polonia centrale passava ai tedeschi, per cui le truppe sovietiche sarebbero arretrate dalla Vistola al Bug.

I due ministri e le loro delegazioni tracciarono con matita copiativa la nuova linea di demarcazione su una carta geografica. Raggiunta l'intesa, sopraggiunse nella stanza Stalin in persona, e appose sulla carta anche la sua firma. Quella carta geografica è conservata nell'archivio del ministero degli esteri tedesco. La firma di Stalin è grossa e vistosa: indelebile marchio d'infamia apposto senza alcuna remora.

Un sondaggio ha recentemente constatato che solo 16 russi su cento sanno che il loro paese occupò mezza Polonia, in combutta con Hitler. Ancora meno sapranno di quel che successe durante quell'occupazione, o hanno sentito nominare Katyn, dove Stalin fece uccidere migliaia di ufficiali polacchi. Il 22 giugno del 1941 toccò alla Russia essere aggredita, e nella memoria collettiva è rimasto il ricordo della «Grande guerra patriottica». Ma ciò non dovrebbe far dimenticare l'infame ruolo giocato da Stalin tra il 23 agosto 1939 e l'aggressione nazista.

 

Alessandro Leoni


Il «Trattato di non aggressione, neutralità e consultazione reciproca» fra il Terzo Reich e l'URSS, del 23 agosto 1939, è argomento che necessita di attenzione, riflessione e approfondimento; non solo perché è stato un principe della propaganda antisovietica e anticomunista fino a tutt'oggi, ma anche perché, salvo rare eccezioni, argomento non sufficientemente analizzato dalla storiografia di sinistra, intendendo con tale riferimento quella che ha correttamente rifiutato ogni sia pur ambiguo rapporto con l'antisovietismo.

La storiografia di matrice comunista - e/o in ogni modo di sinistra - ha dimostrato una certa reticenza nell'affrontare con la dovuta attenzione l'argomento; ciò si spiega da una parte con la relativa facilità dell'operazione di propaganda ideologica scatenata dalle forze reazionarie e conservatrici; dall'altra con la debolezza psicologica oltre che politica della cultura storica marxista.

Eppure la tesi fondamentale della controffensiva ideologica reazionaria postbellica, ovvero l’affermazione del concetto di “totalitarismo” con cui si rimuovevano le responsabilità dei capitalisti inserendo, al loro posto, una visione superficiale, nel vero senso della parola, della realtà che accomunava dittature capitalistiche alle dittature socialiste, coglieva proprio nel cosiddetto «Patto Ribbentrop-Molotov» la manifestazione di questa intima, celata omogeneità. Da ciò non solo l’interesse, ma la necessità di affrontare l’argomento da parte di tutti coloro che respingendo l’egemonia del pensiero, dell’ideologia liberale e perciò del dominio, quello sì tendenzialmente totalitario, capitalistico, avrebbero dovuto misurarsi su questo, importante, emblematico avvenimento.

Intendiamoci, gli storici, anche quelli più ufficiali, di parte comunista hanno trattato l’argomento (dalla Storia della grande guerra patriottica, edita in URSS e tradotta in varie lingue fra le quali l’italiano, all’intelligente Roberto Battaglia, comunista e storico italiano), ma sempre, potremmo dire, di sfuggita e con un taglio iperdifensivistico che tradiva un qualche, sia pure non esplicitato, imbarazzo.

A me pare, e con il prosieguo del presente lavoro mi riservo anche di dimostrarlo, che ciò derivi dalla profonda influenza idealistica, addirittura moralistica, propria all'intero movimento comunista del ’900; il che ha di fatto impedito, fra l'altro, di rapportarsi alla realtà con quella consapevolezza che solo l'appropriarsi della dialettica può rendere effettuale.

Insomma la realtà è costituita di contraddizioni, il volerle artificiosamente cancellare porta, inevitabilmente, solo alla debolezza e alla confusione.

Non è certamente un caso che il miglior lavoro sull’argomento sia stato scritto da uno storico tedesco, d’orientamento moderato-conservatore, nella prima metà degli anni sessanta, P. Fabry.

  Affrontare l’argomento “Patto Ribbentrop-Molotov” significa avere chiaro il quadro internazionale della fine degli anni trenta.

Infatti nel 1938 la dirigenza sovietica - Stalin, in particolare – si trova di fronte a questo scenario: i Fronti Popolari sono in crisi; in Francia la spinta unitaria e progressista si è oramai arenata di fronte all'incapacità di reagire adeguatamente contro l'espansionismo fascista in Europa e nel mondo (annessione/unione tedesca dell'Austria, crisi dei Sudeti con la mutilazione cecoslovacca, partecipazione/intervento dell'Italia, della Germania, del Portogallo, nella guerra civile spagnola); in Spagna, dove lo scatenarsi della “guerra civile” ha messo in risalto la debolezza politica e culturale della classe dirigente “repubblicana”, le sue contraddizioni e soprattutto l' emblematica latitanza delle forze “democratiche” a livello internazionale (l'ipocrita politica del “non intervento” sostenuta addirittura ed in concomitanza col massiccio intervento delle potenze statuali fasciste e reazionarie).

A ciò si devono aggiungere tutta una serie di altri, evidenti, minacciosi accadimenti: sempre nel 1938 la tensione in Estremo Oriente, in crescita dal 1933, anno dello scatenamento della guerra giapponese alla Cina, si materializza con un vero e proprio attacco dell’Armata nipponica della Manciuria (divenuta “stato protetto” del Giappone) verso il retroterra della più importante città sovietica sul Pacifico, Vladivostok, con lo sconfinamento di un corpo d’armata del Sol Levante nella regione del lago Hanka (maggio/giugno/luglio 1938). Ciò causerà una vera e propria guerra locale, vinta, certo, dall’Armata Rossa, ma non senza consistenti perdite e naturali riflessioni sull’ormai permanente minaccia giapponese verso l’estremo oriente sovietico.

Se a ciò aggiungiamo l’espandersi e il coagularsi del fascismo a livello internazionale, in Europa e fuori (poco conosciuta e studiata, almeno da noi, è l’attrazione del fascismo nei paesi extraeuropei, sia in America Latina che in Asia e Medio-Oriente) si comprende facilmente la preoccupazione del gruppo dirigente sovietico dell’epoca.

Il 1938 segna in ogni modo lo spartiacque nella politica internazionale con una sicura ricaduta, anche, nell’orientamento della dirigenza sovietica dell’epoca, spinta dai fatti, ben più che dalla riflessione teorico-ideologica, a cercare una via d’uscita dalla sempre più evidente minaccia per l’esistenza stessa del primo stato degli operai e dei contadini.

In tale logica, il Patto di Monaco, del settembre 1938, si erge quale vera e propria monumentale, materiale manifestazione della volontà “occidentale” (soprattutto anglosassone) di spingere la crisi verso uno sbocco quale quello della guerra fra III Reich e URSS. Il disegno risultava fin troppo evidente. Una guerra fra Germania - magari alleata con una serie di altri stati affini per orientamento politico-ideologico e per collocazione geografica, dall’Italia, all’Ungheria, agli stati baltici, comprendendo, magari, la stessa Polonia post-pilsudskiana dei così detti “pan/colonnelli” - e URSS, non solo offriva l’opportunità di colpire a morte lo “stato-canaglia” ante litteram, l’URSS, ma permetteva, inoltre, d’ipotizzare anche l’indebolimento della potenza tedesca, concorrente strategica, all’interno del campo imperialista, delle potenze tradizionalmente egemoni (Gran Bretagna, USA e Francia). Come l’URSS riuscì ad evitare questa certamente poco entusiasmante prospettiva è merito, mai digerito dall’occidente più o meno liberale, dei nuovi dirigenti sovietici e in primo luogo di I. V. Stalin.

Questo esplicito riconoscimento di merito per il leader comunista sovietico non significa aderire ad una visione acritica dell'opera, complessivamente intesa, di Stalin né, tanto meno, resuscitare una  surrettizia liturgia da “culto della personalità”; significa, molto semplicemente, riscontrare dati di fatto, respingere ogni opportunistico allineamento all'opera demolitoria e demonizzante portata avanti, in questo ultimo mezzo secolo, nei confronti di un dirigente rivoluzionario, comunista, che s'inserisce a pieno titolo fra i grandi protagonisti della storia contemporanea.

In sintesi, dobbiamo riacquistare la libertà critica nei confronti dei fenomeni storici del ’900 e in particolare su quelli inerenti la vicenda rivoluzionaria comunista.

L'onestà, prima di ogni altra caratteristica, esclude di uniformare il proprio linguaggio a quello dei vari campioni della reazione che hanno sempre distorto e criminalizzato le esperienze rivoluzionarie non già per i loro tanti limiti e per gli errori da esse compiuti, bensì per gli innegabili pregi che quei sommovimenti di massa ebbero allora e che continuano, positivamente, ad operare anche in questa fase così contraddistinta dagli effetti della vittoriosa controrivoluzione globale determinatasi alla fine degli anni ottanta, primi anni novanta del secolo scorso.

Tornando all’analisi storica di quegli avvenimenti, dobbiamo, per efficacia descrittiva e chiarezza valutativa, ripercorrere le tappe che portarono all’intesa di agosto (Patto Sovieto-Germanico di non aggressione, neutralità e consultazione reciproca, Mosca 23 agosto 1939) e al poco successivo deflagrare del conflitto che, iniziato in Europa (1° settembre 1939) si sarebbe esteso, nel giro di 27 mesi (22 giugno 1941 attacco all’URSS; 7 dicembre 1941 attacco giapponese agli USA), a livello mondiale.

Dal Patto di Monaco (siglato da Germania, Gran Bretagna, Italia e Francia) che liquidava la Repubblica Cecoslovacca quale stato sovrano (oltre che amputarlo del territorio del Sudetenland) al così detto Patto Ribbentrop-Molotov, intercorse meno di un anno e, tuttavia, in quel breve periodo gli avvenimenti si accavallarono con tale rapidità e contraddittorietà come in pochi altri momenti della, pur mai lineare, storia umana.

A Monaco quattro potenze (due “democratiche”, Francia e Gran Bretagna, e due “fasciste”, Germania e Italia) si accordarono sul destino di uno stato sovrano, retto da un regime costituzionale-democratico, senza neppure coinvolgerlo, quanto meno formalmente, nelle trattative. La storia ci ha consegnato molte espressioni di brutale cinismo, ma a Monaco si superarono tutti i limiti immaginabili, tanto da legittimare la “cancellazione de jure” del trattato stesso (con la formula: «d’illegittimità intrinseca»), fatto unico nella storia della diplomazia europea, nella metà degli anni ’70 del secolo scorso.

Riprendendo la sistematica ricostruzione della genesi del Patto Ribbentrop-Molotov cerchiamo di definire una precisa serie di logiche domande/questioni:

- da chi partì l’iniziativa della svolta nelle relazioni bilaterali;

- quali furono gli obbiettivi comuni e particolari dei due soggetti (il III Reich e l’URSS);

- infine, il bilancio dell’intera operazione e il suo significato storico- strutturale.

Molti studiosi fanno risalire la nascita, quanto meno sul piano dell’ipotesi/progetto, dell’iniziativa finalizzata al varo di un nuovo capitolo nelle relazioni bilaterali sovieto-tedesche alla relazione che I. Stalin illustrò al XVIII congresso del PCUS (Mosca 9/12 marzo 1939), nella quale il leader sovietico esprimeva, in termini inequivocabili, la volontà dell’intero gruppo dirigente moscovita di evitare lo scontro militare con la Germania, ricordando come l’URSS non avesse mai confuso il conflitto ideologico con le relazioni interstatuali. Il concetto di “coesistenza pacifica” fra stati a ordinamenti economico-sociali e politico-istituzionali diversi era, del resto, già, da anni, parte integrante del bagaglio teorico-culturale della politica di Mosca (del resto già nel 1931 l’URSS aveva sottoscritto un trattato di regolamentazione politico-diplomatica con l’Italia di Mussolini). Per inciso possiamo rilevare un ulteriore elemento di superficiale lettura e giudizio storico-politico; quasi sempre si legge, anche su qualificati testi storici che il concetto di “coesistenza pacifica” sarebbe nato a metà degli anni ’50 quale elaborazione, autonoma, del “movimento dei non allineati” (Bandung in Indonesia, 1955), ripresa dall’URSS e dal movimento comunista internazionale dopo il XX Congresso del PCUS (1956).

Altri storici sottolineano fatti precedenti alla relazione di Stalin al XVIII congresso ricordando una serie di segnali provenienti, in questo caso, dalla parte delle autorità tedesche. Dal lungo e cordiale colloquio che il Führer-Cancelliere imbastì con l’ambasciatore sovietico al tradizionale “ricevimento” d’anno nuovo, il 12 gennaio 1939 a tutta una ulteriore serie di segnali che, fra la fine del 1938 e l’inizio del fatidico ’39, vennero emessi dalle più diverse fonti.

In realtà in tutto quel periodo (ottobre ‘38 luglio/agosto ‘39) ciò che di sicuro e documentato emerge è l’indeterminatezza della politica estera tedesca, l’ambiguità delle potenze occidentali (Londra e Parigi), il pressappochismo irresponsabile della diplomazia italiana e, per contro, la determinazione sovietica ad evitare l’isolamento totale da una parte e il coinvolgimento nella guerra (che il PCUS e L’ Internazionale Comunista davano, ormai, per certa!), dall’altra.

Il processo d’avvicinamento fra Berlino e Mosca è puntualmente ricostruito dall’ormai, certo non recente, saggio del Fabry (del 1964!), lavoro che anche con le recenti aperture degli archivi ex-sovietici non viene scalfito nella validità, anzi ne risulta rafforzato sia per il valore interpretativo che per quello descrittivo.

Vale la pena soffermarsi su un aspetto particolarmente emblematico della mistificazione e distorsione compiute dalla propaganda filo-imperialista antisovietica (di destra e di “sinistra”!): mi riferisco alla tesi, quasi universalmente accettata, riguardante il presunto esplicito accordo spartitorio della Polonia che sarebbe avvenuto, segretamente, con il «Patto di Non aggressione Neutralità e Reciproca Consultazione» siglato a Mosca il 23 agosto 1939. Di quel trattato faceva parte, sia pure a latere, il protocollo con il quale le due parti contraenti (III Reich e URSS) definivano, delimitavano le rispettive «aree di sicurezza/competenza» reciproche (la così definita «linea fluviale» che seguiva, appunto, i corsi dei fiumi: Pissa, Narew, Vistola, San) rispetto lo spazio, al momento (23 agosto 1939) esistente, fra i confini della Germania e dell’URSS; cioè lo stato polacco quale esso era uscito con i trattati parigini del 1919, che avevano concluso la “grande guerra” (1914/1918), sia con il Trattato di Riga (1921) che aveva posto fine al conflitto scatenato dalla neonata Polonia contro la giovane Repubblica Federale Sovietica Russa. Non voglio qui dedicare troppo spazio alla, pur logica, naturale considerazione circa l’irresponsabilità dello sciovinismo “grande polacco” che inseguiva l’obbiettivo di ricostruire la Polonia imperiale degli Jagelloni, dal Baltico al Mar Nero (!), approfittando della, congiunturale, debolezza dei suoi vicini, all’ovest la Germania e all’est la Russia, cioè le due nazioni maggiormente colpite, devastate dalla “prima guerra mondiale” e dalle sue conseguenze immediate (rivoluzioni, guerre civili, tensioni secessioniste, ecc.), tuttavia vale la pena ricordare come osservatori tutt’altro che filo-russi o, tanto meno filo-sovietici, quale, per esempio, lord Curzon (eminente tradizionale rappresentante della leadership imperiale britannica) esprimessero giudizi negativi e forti preoccupazioni per il futuro rispetto all’insensata espansione di Varsavia verso territori popolati a netta maggioranza da comunità ucraine, russo-bianche, rutene, lituane, ecc., fattori che non avrebbero potuto non avere conseguenze conflittuali.

Tornando al “riservato” «protocollo a latere» del Trattato Sovieto-Germanico si devono sottolineare le seguenti caratteristiche:

A. il sistematico uso del condizionale per quanto riguardavano le condizioni necessarie a mettere in pratico effetto la suddivisione delle “sfere di sicurezza e competenza” reciproche;

B. l’assenza di ogni automatismo circa l’eventuale azione spartitoria;

C. la totale assenza di ogni accordo collaborativo sul piano militare;

D. nessun preciso impegno circa la definitiva sistemazione dei territori in questione.

A tali constatazioni si devono aggiungere sia l’effettivo sviluppo delle relazioni politico-diplomatiche fra Berlino e Mosca intercorso fra il 23 agosto e il 17 settembre 1939 (giorno nel quale le unità militari sovietiche superarono la linea confinaria con la Polonia), sia la precisa individuazione degli scopi e obbiettivi che le due potenze si prefiggevano con il trattato medesimo.

La frenetica attività diplomatica che la Germania aveva sviluppato soprattutto a partire dalla primavera del ’39 individuava una serie di obbiettivi che possiamo così riassumere:

- evitare l’accerchiamento impedendo un accordo fra Londra, Parigi e Mosca;

- isolare la Polonia per costringerla a fare concessioni sulla questione del Corridoio di Danzica;

- mantenere agganciate le potenze alleate (Italia e Giappone) sia nell’azione diplomatica in corso che nell’eventualità, non cercata, non voluta, ma neppure esclusa, di un conflitto con le potenze “occidentali”.

In tale logica s’inseriscono le pressioni di Berlino nei confronti di tutta una serie di paesi (Slovacchia, Lituania, ecc.), compresa l’URSS, perché premano a loro volta per via diplomatica e/o militare (con concentramenti di truppe sulla frontiera) su Varsavia, onde determinarne il cedimento. La stessa offerta che il Reich propose a Londra, l’apertura cioè di una nuova fase di definitiva détente fra i due stati, maturata con il memorandum consegnato al governo inglese il 25 agosto, è l’evidente prova di come fino all’ultimo il governo tedesco non desse per scontato che fosse inevitabile il confronto bellico con le potenze alleate della Polonia.

Del resto, è noto come anche a Londra e Parigi fossero presenti e ben attive le forze che lavoravano in direzione di un duraturo compromesso con il III Reich. Ancora più significativo risulta essere l’atteggiamento di Berlino nei primissimi giorni del conflitto (1 e 2 settembre) quando, in assenza dell’immediata reazione delle potenze occidentali, la Germania si astenne da ogni sollecitazione nei confronti di Mosca, situazione che mutò radicalmente dopo la presentazione degli ultimatum inglese e francese il 3 settembre.

La realtà, quale emerge dai documenti, sottolinea come il “Patto” fosse nato dalla congiunturale necessità della Germania, da una parte, di evitare la guerra, quanto meno su “due” fronti, senza rinunciare all’obbiettivo minimo della soluzione della questione “Danzica/Corridoio”, e dell’URSS, dall’altra, d’evitare il coinvolgimento in un – qualsiasi - conflitto e contemporaneamente di migliorare la propria posizione strategico-difensiva soprattutto rispetto ad alcune località fondamentali per l’esistenza stessa dello stato russo-sovietico (Leningrado, Minsk, Odessa, ecc.).

L’ostilità che circondava l’URSS, l’aggressività insita nella situazione internazionale della fine degli anni trenta, così pervasi ancora dal prolungarsi degli effetti della crisi capitalistica del 1929, la relativa fragilità dello stato e della società emersi dalla rivoluzione d’ottobre (fatto di cui erano chiaramente consapevoli Stalin e il gruppo dirigente comunista dell’epoca) costituivano la base razionale sulla quale maturò la disponibilità ad un’intesa che, pur nella contraddittorietà apparente, salvaguardava l’essenziale della politica sovietica: evitare l’aggressione da parte delle potenze imperialiste nelle loro varie possibili combinazioni.

Con la svolta diplomatica dell’agosto ’39 Mosca otteneva tutta una serie di risultati impensabili fino a pochi mesi precedenti: sviluppo delle relazioni economico-commerciali con un partner altamente industrializzato, allontanamento della prospettiva di coinvolgimento in un conflitto, liquidazione, pratica, degli effetti del Patto antikomintern, isolando così, per giunta, il Giappone, potenza al momento direttamente impegnata in attività belliche contro l’URSS (giugno/agosto 1939, violenti scontri lungo la frontiera orientale della Repubblica Popolare Mongola).

Del resto, il rapido dissolversi dello stato polacco e la pratica totale passività degli eserciti alleati sul fronte occidentale dimostreranno l’inconsistenza, nel ’39, di ogni reale volontà di combattere e battere le potenze fasciste. L’autonomia dell’elaborazione politico-teorica del gruppo dirigente sovietico fu, all’epoca, fondamentale per la salvaguardia, prima, dell’URSS e per la schiacciante vittoria del 1945 poi.


  Riconsiderare la storia dell’URSS, del movimento comunista e rivoluzionario del ’900 è fondamentale, dunque, non solo per contrastare l’aggressività dell’ideologia capitalistico-imperialista, ma anche per riqualificare un pensiero teorico forte al servizio dell’emancipazione delle classi sfruttate, obbiettivo, quest’ultimo, certamente oggi non meno drammaticamente attuale rispetto al periodo in cui si svolsero quegli avvenimenti.

 

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[tratto da Problemi della transizione al socialismo in Urss (a cura di Catone A., Susca E., La Città del Sole, 2004].  


Edizioni La Città del Sole

La Repubblica dell’1 settembre riferisce che a Danzica, durante le  celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’aggressione  nazista alla Polonia e dell’inizio della seconda guerra mondiale,  Vladimir Putin ha dichiarato: "Ogni patto concluso con Hitler allora  fu immorale". Il ;premier russo non ha fatto riferimento al  vergognoso patto di Monaco né ai tanti accordi delle potenze e di  imprese occidentali che avevano prima permesso la ricostruzione del  potenziale bellico tedesco e che, l’avevano sostenuto poi anche  durante lo svolgimento stesso della guerra. Putin ha rifiutato  “però ogni tentativo di definire il Patto Molotov-Ribbentrop …  come unica causa della guerra”.

Per anni la propaganda occidentale prima e il revisionismo storico  poi hanno demonizzato il patto di non aggressione che l’Unione  Sovietica si decise a firmare con la Germania per ritardare il più  possibile la prevista invasione nazista dell’URSS. Politici,  giornalisti e storici hanno sempre sottaciuto che a questa decisione  l’Unione Sovietica fu costretta dopo aver visto fallire tutti i suoi  tentativi di sottoscrivere con Francia e Gran Bretagna un trattato di  alleanza antitedesca: in realtà le potenze occidentali speravano che  la furia hitleriana si dirigesse a oriente e spazzasse via l’odiato  e temuto nemico bolscevico.

Un uso rigoroso delle fonti basato sulla ricerca comparata e puntuale  dei documenti tratti dagli archivi delle diplomazie francese,  britannica e sovietica fa giustizia ora di affermazioni arbitrarie e  giudizi temerari della propaganda e della storiografia revisionista.  Questo lavoro è opera di Michael Jabara Carley, professore ordinario  e direttore del Dipartimento di Storia dell’Università di Montréal.

  Nella minuziosa ricostruzione storica delle modalità e delle cause  che portarono al fallimento dei tentativi di accordo tra URSS e anglo- francesi e alla decisione sovietica di siglare il patto di non  aggressione con la Germania nazista, l’autore ricorre alla analisi  comparata e contestuale delle fonti britanniche, francesi e russe,  utilizzando anche i materiali resi copiosamente – ma ancora  disordinatamente e discrezionalmente – disponibili dall’apertura e  desecretazione degli archivi sovietici dopo la fine dell’URSS. L’accesso a questo nuovo materiale sovietico d’archivio offre  alcune conferme circa le valutazioni e il comportamento dei dirigenti  dell’Unione Sovietica.

Ciò che rende particolarmente interessante il lavoro di Carley è  l’analisi contestuale di tutte le fonti. È illuminante la lettura  di quelle franco-inglesi, da cui emerge l’orientamento antisovietico  e la sostanziale diffidenza occidentale nei confronti dell’URSS, che  a sua volta ricambiava pienamente questa diffidenza. L’illusione  della diplomazia britannica di trovare ancora un appeasement con  Hitler scongiurando la guerra, e la scelta deliberata di non favorire  l’affermazione di un ruolo nuovo e importante che l’URSS avrebbe  inevitabilmente assunto nel continente europeo, divenendo un perno  essenziale dell’alleanza antitedesca (come di fatto avvenne con la  partecipazione dell’URSS nel giugno 1941 all’alleanza  antifascista), spingono la direzione sovietica a siglare il patto  Ribentropp-Molotov.

È un lavoro meticoloso, di uno storico specialista delle relazioni  internazionali tra Occidente e URSS nel periodo 1917-1945, supportato  da un ampio apparato di note e da una vasta bibliografia, scritto,  tra l’altro, in uno stile che, senza nulla togliere al rigore  scientifico, riesce a “catturare” il lettore come fosse un racconto.

Dopo la prima edizione inglese uscita a Chicago, ne è stata  pubblicata una seconda a Londra. Sono poi seguite l’edizione  francese e quella in russo. L’edizione italiana è arricchita da una presentazione dell’autore  che tiene conto di pubblicazioni successive e dibattiti tra storici  sull’argomento.

Michael Jabara Carley, professore ordinario e direttore del  Dipartimento di Storia dell’Università di Montréal, è uno  specialista delle relazioni internazionali nel XX Secolo e della  storia della Russia e dell'Unione sovietica. Ha lavorato e lavora  sulle relazioni dell'Unione Sovietica con l'Europa Occidentale e gli  Stati Uniti tra il 1917 ed il 1945, su cui ha scritto diversi libri e  articoli, pubblicati in Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e  Russia. Notevole anche la sua produzione sull’intervento straniero  contro i bolscevichi dopo l’Ottobre.

Edizioni La Città del Sole
Collana La foresta e gli alberi n. 18
Michael Jabara Carley
1939. L’alleanza che non si fece e l’origine della Seconda Guerra Mondiale ISBN 978-88-8292-370-9 cm. 13,5 x 21 360 pagine 24,00 euro

Vedi anche

Jacques R. Pauwels
PROFIT ÜBER ALLES! Le corporations americane e Hitler
Collana Univesale di Base n. 18
ISBN 978-88-8292-409-6 cm. 11x17 96 pagine 6,00 euro

Nel momento in cui i “liberatori” di ieri “esportano” oggi  “la democrazia” in mezzo mondo, questa lettura può essere  preziosa per comprendere le relazioni – di ieri e di oggi – tra  guerra e profitto: l’alta finanza e le grandi corporations degli  Stati Uniti (Standard Oil, General Motors, Ford, IBM, Coca Cola, Du  Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Goodrich,  Singer, Kodak, ITT, J. P. Morgan, etc. etc.) finanziarono l’ascesa  al potere del nazionalsocialismo, l’aiutarono a riarmarsi e a  preparare la guerra, lo sostennero nelle sue aggressioni e  continuarono a lavorare per lo sforzo bellico tedesco anche quando il  proprio paese scese in guerra contro la Germania. Business are business: e la guerra è certamente l’affare più  remunerativo che si possa immaginare, ieri come oggi.’alta finanza statunitense è stata sempre maestra in  quest’“arte” di mettere il profitto uber alles.

Nel 1941 l’allora Vice Presidente Harry Truman dichiarava: “Se la  Germania vince, dobbiamo aiutare la Russia, e se la Russia vince,  dobbiamo aiutare la Germania, affinché possiamo ottenere il massimo  vantaggio da entrambe”?

È possibile seguire un filo nero che congiunge le motivazione dei  “liberatori” della seconda guerra mondiale con gli “esportatori  di democrazia” dei giorni nostri.

È un caso che il nonno di Gorge W. Bush fosse uno dei finanziatori di  Hitler? Oppure per il nipote il profitto è, come per suo nonno,  sempre e comunque uber alles?

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