I MARXISTI E LA “SHOAH”

CINQUE BUONE RAGIONI
PER NON FARSI TRASCINARE DAL LIVORE ALTRUI
IN UNA BATTAGLIA NON SOLO ILLIBERALE MA ANCHE ANTISOCIALISTA

di Claudio Moffa


Il marxismo e i marxisti sono di tanti tipi, e come sempre ciascun indirizzo di pensiero pretende di rappresentare quello e quelli veri: ma nonostante le diversità di questo movimento di idee ancora vivo in Italia e in Occidente, riesce difficile, e anzi direi impossibile, infilarci la cosiddetta Shoah e le azioni squadriste in suo sostegno: riesce cioè difficile compatibilizzare con gli ideali socialisti, si badi bene, non i crimini del nazismo e gli stermini di ebrei durante la II guerra mondiale, ma il dogma dell'Olocausto, e il sostegno a chi impone con la violenza o con leggi di stato la censura sulla ricerca storica e sulla libertà di opinione. I motivi dell'incompatibilità fra le due weltanschauung sono almeno cinque:

1) Il dogma dell'Olocausto non si fonda solo su una pericolosa fissità dei dati storici raggiunti, a cominciare dalle cifre e dalle modalità delle stragi, ma anche sul mito razzista dell'unicità della tragedia e delle sofferenze degli ebrei durante la II guerra mondiale. Questa mistificazione storica, che si è enormemente diffusa negli ultimi due decenni man mano che cresceva a livello internazionale – dopo la scomparsa dell'Unione sovietica – il potere di condizionamento di Israele su quasi tutte le potenze e i paesi “forti” del pianeta (Urss, famiglia finanziaria di Eltsin; Usa, distruzione dell'isolazionismo e filosauditismo repubblicani, emergenza della “lobby ebraica” e strapotere massmediatico sulla Casa Bianca, dal caso Lewinsky al cristiano-sionismo di Bush jr.; Italia, tangentopoli e fine del centrosinistra Craxi-Andeotti, i due protagonisti di Sigonella; Francia, fine sostanziale del gaullismo filo arabo già negli ultimi anni di Chirac, e ancor più dopo il duello elettorale fra i filoisraeliani Sarkozy e Ségolene; Europa, posizione su Hamas; Africa, rilancio della presenza di Israele in controtendenza rispetto alla svolta del 1973, in Ruanda, Etiopia - e dunque Somalia - Eritrea, Costa d'Avorio, Uganda e – attraverso le guerriglie del Darfur – in Sudan; etc etc) ha finito per “tribalizzare” la lettura della II guerra mondiale e della stessa Resistenza italiana: due eventi storici che videro come vincitori e come vinti una pluralità di componenti, e che invece sono stati monopolizzati ormai – grazie al bombardamento mediatico quotidiano sull'Olocausto – dalla sola Shoah, e da una lettura quasi solo vittimista-concentrazionaria della stessa lotta di liberazione italiana.

Due considerazioni su quanto appena detto: la prima riguarda l'effetto simbolico di questa tendenza non solo reazionaria ma anche antiscientifica: vengono infatti offuscati dalla centralità ossessiva del cosiddetto Olocausto, il contributo dell'URSS alla lotta contro il nazismo, i 20 o forse più milioni di morti sovietici durante la II guerra mondiale, e la funzione storica della battaglia di Stalingrado. Stalin – che peraltro, dopo la visita di Golda Meir a Mosca, dedicò gli ultimi anni della sua vita a contrastare il filosionismo in Unione sovietica – si rivolterebbe nella tomba a sentire certi suoi seguaci difendere gli aggressori di Teramo.

La seconda considerazione si riassume nella seguente domanda: il ridimensionamento della centralità dell'Olocausto, la riduzione (certo non pre-stabilita, ma conseguente ad una ricerca storica onesta!) del numero delle vittime ebree fino ad esempio alle 800.000 proposte da Garaudy, minerebbero o esalterebbero il ruolo dell'Urss nella seconda guerra mondiale? Ovvero: il dogma dell'Olocausto è forse consustanziale con gli interessi del movimento operaio, qualcosa insomma la cui critica storiografica metterebbe in pericolo la sinistra e le forze democratiche? E' assurdo rispondere affermativamente a questa domanda.

2) Altrettanto assurdo sarebbe rispondere affermativamente anche a un'altra consimile domanda: il dogma dell'Olocausto è forse consustanziale alla difesa della laicità, altro valore caro a molta sinistra marxista e non? Non di certo: al contrario, a cominciare dal termine utilizzato, il mito dell'Olocausto veicola la diffusione di un micidiale integralismo ebraico che non è da meno di quelli musulmano o cattolico; e che. se da una parte è quello che impedisce una soluzione di pace giusta in Palestina, in Occidente è uno dei principali fattori della degenerazione della laicità in laicismo: una pseudolaicità che critica sempre la Chiesa e la Moschea, ma mai la Sinagoga. Un integralismo, quello sionista, che pretende di sacralizzare l'intero popolo ebraico attraverso il dogma olocaustico rendendo così ogni suo atto incriticabile, come tanti cittadini e tantissimi militanti democratici e di sinistra hanno sperimentato spesso sulla propria pelle, grazie all'accusa facile di “antisemitismo”, in questi ultimi anni.

Di nuovo, e ovviamente: questo non vuol dire che “allora” si “devono” demitizzare gli stermini di ebrei durante la II guerra mondiale dicendo falsità, perchè il prius di ogni argomentazione è una ricerca storiografica libera e onesta, tale da separare i fatti dalle opinioni. Vuol dire semplicemente che eventuali risultati controcorrente rispetto alla vulgata imposta dai poteri forti mediatici e dalle aggressioni di piazza, non costituirebbero di certo un pericolo per la sinistra, ma anzi ne libererebbero la laicità e la capacità critica.

3) Ma i revisionisti olocaustici sono onesti? Sono di destra? Sono nazisti? E se si risponde affermativamente come è possibile che siano portatori di una buona causa per la democrazia e la sinistra? Cominciamo dall'ultima domanda: Marx era un ammiratore di Balzac, storico non certo progressista per i canoni dell'epoca. Per scrivere il Capitale non si è certo autocensurato evitando di considerare attentamente i rapporti ministeriali sul lavoro nelle fabbriche o gli studi “borghesi”: al contrario, li ha saccheggiati a man bassa, rielaborandoli criticamente. Questa – al di là della veridicità di alcune sue conclusioni: i noti “errori”, e non da poco, di Marx sull'esaurimento progressivo dei conflitti nazionali e sulle prospettive rivoluzionarie in Inghilterra – è vera libertà di ricerca, questa è laicità, sempre e comunque, e non l'atteggiamento bacchettone di chi demonizza studiosi spesso molto seri, ricchi di curricula sostanziosi, portatori comunque di “unità di notizie” spesso ignote a tutti coloro che criticano, senza sapere nulla, il “negazionismo”. Se questo or ora detto fu l'atteggiamento di Marx rispetto alla ricerca economica e storica, perché mai oggi dovrebbe essere aprioristicamente rifiutato, e fino all'acclamazione delle leggi liberticide di Francia ed Europa, lo studio dei lavori dei cosiddetti negazionisti? Secondo quale logica, se non una logica autolesionista della capacità critica degli intellettuali e militanti, che dovrebbe essere il fiore all'occhiello di quale che sia marxista? Una logica “di classe”? Non credo proprio, vedi quanto argomentato al punto: l'illogica “logica” sarebbe solo di natura integralistico-religiosa.

Passiamo alle altre due iniziali domande: l'onestà la si verifica solo studiando e conoscendo i testi dei revisionisti olocaustici, e non certo accettando fideisticamente i dettami delle bolle di scomunica di chicchessia; quanto al chi sono, il Corriere della Sera intervistò nei lontani anni Ottanta Robert Faurisson, il quale dichiarò due cose: che i morti ebrei ad Auschwizt erano stati 150.000, e che lui – che rispondeva a una precisa domanda – votava socialista. Non so oggi – dopo la persecuzione giudiziaria quasi trentennale subita, soprattutto a seguito della legge del socialista Fabius e del comunista (!!) Gayssot che vieta la “negazione” dell'Olocausto – cosa lo studioso francese voti, e francamente non mi interessa. Mi interessano solo i fatti e le interpretazioni dei fatti che propone come frutto di uno studio pluridecennale: fatti e interpretazioni che poi mi ritengo libero di rielaborare. Magari aiutato da un suo contraddittòre, qualcuno che sia disposto a controbattere alle sue elaborazioni. Ma sembra che non ci sia, perché appena ci sono aperture in questo senso, il coraggioso di turno riceve email e altri segnali di minaccia. Questo è il vero fascismo della nostra epoca, e forse qualcosa di più: totalitarismo.

4) Veniamo così al quarto motivo che dovrebbe convincere certi marxisti filoisraeliani a ragionare sul revisionismo olocaustico e a rivendicare il suo diritto ad esprimersi liberamente: la presa di coscienza cioè di una calcolata demonizzazione di un qualsiasi contatto “rosso-bruno” fra destra e sinistra su queste tematiche; e nello stesso tempo la presa di coscienza delle caratteristiche della svolta epocale postbipolare.

In effetti, primo, le alleanze trasversali sono tattica tipica e reiterata di molto sionismo, fra repubblicani e democratici negli USA, fra destra e sinistra in Italia. Gli esempi sono tantissimi. Secondo, è naturale che molti revisionisti olocaustici siano di destra: non esiste storico che non abbia una propria visione del mondo (se non ce l'ha non è uno storico, ma uno pseudoenciclopedista, un raccattaaneddoti incapace a spiegare la storia), e il problema vero è se, partito dal suo input iniziale, sia poi in grado di separare i fatti dalle opinioni. All'epoca dell'Etiopia di Menghistu io ero ad esempio contrario alla secessione eritrea, e favorevole all'ipotesi – avanzata anche da Fidel Castro – di una federazione nel Corno d'Africa (per inciso, direi proprio che a conti fatti, aveva ragione Fidel Castro): mai però nei miei libri e saggi sono incappato nell'errore di considerare l'insorgenza eritrea come prodotto di “banditi” o peggio ancora come fenomeno minoritario e non di massa. Questa era la versione ufficiale etiopica (comprensibile, per un paese in guerra). I fatti erano però diversi. E dunque uno storico può essere anche “filonazista” – posizione sicuramente condannabile dal punto di vista ideologico – ma fermo restando che questo suo prius ideologico ha avuto l'effetto oggettivo di mettere in moto una ricerca storiografica controcorrente, quel che conta in ultima analisi sono i fatti che propone: che non sono né di destra né di sinistra, ma semplicemente fatti, certo strumentalizzabili da destra o da sinistra ma non per questo da occultare.

Non c'è tuttavia solo questo, ed eccoci dunque alla seconda presa di coscienza: la svolta postbipolare ha prodotto un'epocale sommovimento delle collocazioni delle forze in campo in tutto il mondo: da Milosevic alla resistenza baathista, dagli Hezbollah, ad Hamas (i quali ultimi tre non sono certo gruppi terroristi come Bin Laden, ma movimenti di liberazione nazionale ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, e come tali riconosciuti dalla Lega araba), i grandi conflitti degli anni Novanta e del nuovo secolo hanno visto la convergenza di sinistra e destra nella difesa comune della sovranità nazionale. Il che è ovvio, visto che gran parte della sinistra occidentale, all'insegna di un “diritto” di “ingerenza umanitaria” teorizzato e valorizzato persino da Le monde diplomatique (Dominique Vidal), è diventata interventista e favorevole nei fatti alla ricolonizzazione postbipolare; e vista l'aggressività finanziaria, economico-commerciale e politico-militare della cosiddetta globalizzazione, cioè quello che una volta si definiva imperialismo. Non c'è solo la classica socialdemocrazia su questa strada, ma ci sono anche ad esempio neocons, quasi tutti ebrei e quasi tutti ex trozkisti. Di fronte a questo scempio, a questa furia iconoclasta del diritto internazionale e dei più elementari concetti di democrazia internazionale, bisogna aver paura di discutere con esponenti di destra, di salire, assieme a chi di loro abbia la stessa intelligenza della svolta postbipolare, su questo o quel treno finalizzato a raggiungere un obbiettivo concreto, delimitato? Ferme restando le incancellabili diversità ideologiche, sarebbe assurdo rispondere affermativamente, in modo dogmatico e chiesastico, a questa domanda.

Come assurdo sarebbe pensare che i naziskin o i nostalgici di Mussolini o magari di Hitler siano il pericolo vero per la democrazia e persino per il socialismo (vedi le argomentazioni “terzomondiste” di un Rauti) nel nuovo secolo. Tutto, con la fine del bipolarismo, è cambiato: i “poteri forti” della nostra epoca attengono non più in modo rilevante al solo capitale industriale, ma anche e soprattutto al capitale finanziario, il cui rapporto con il primo era alla svolta del secolo di 10 a 1. Non è più l'epoca del Vietnam del preminente complesso militare-industriale, quando fra le altre cose l'intellettualità ebraica americana era schierata contro la guerra: il nuovo Bob Dylan di oggi non canta più “the answer my friend blowing in the wind”, perché la sua canzonetta pacifista è stata trasformata nel decennio scorso (forse da altri, ma è comunque il segno di tempi), in “the answer my friend is bombing Irak”.

Dentro questo nuovo ridisegnamento delle forze in campo, e in quest'epoca di guerre mostruose e senza fine condotte all'insegna dello scontro fra civiltà perseguito dai neocons ebrei e dai “cristiani”-sionisti di Bush jr, avanza in tutto l'Occidente una involuzione terribile dei diritti umani e delle libertà fondamentali, corrispettivo interno della barbarizzazione del diritto internazionale nelle relazioni fra Stati. Abu Ghreib e Guantanamo, le leggi antiterrorismo negli Stati Uniti e in molti paesi europei, le vicende dei voli segreti e delle carceri segrete della Cia in Europa, le terribili affermazioni di un ex sessantottino come Alan Dershowitz, il persecutore di Finkelstein, a favore dell'emergenza perenne contro il “terrorismo”, l'omologazione e il monopolio tribale della gran parte delle testate giornalistiche, la costruzione di grandi imperi mediatici (altro che Berlusconi!) fanno parte di uno stesso processo storico inquietante: dentro il quale, viste peraltro la politica di Israele contro i Palestinesi, il Libano, l'Iraq e l'Iran – una politica che si fa scudo del dogma dell'Olocausto - sono assolutamente da includersi le leggi liberticide “antinegazioniste” o “antiaffermazioniste” (Turchia) di questo o quel genocidio.

Negarlo in effetti sarebbe assurdo: si possono dare cinque anni di galera a Zuendel, qualsiasi cosa abbia scritto? Si può dare un anno di galera a Irving, e perseguitare per un quarto di secolo – sulla base , negli ultimi quindici anni di una norma terribile basata a sua volta sullo Statuto del Tribunale di Noirimberga –Robert Faurisson? Chi applaude contro queste misure ha forse il coraggio dei partigiani che rischiavano la vita durante la Resistenza? O il coraggio civile è di chi contesta, non certo per antisemitismo – altra ideologia reazionaria dei nostri tempi (vedi poi) – ma in difesa dei diritti umani e delle libertà costituzionali?

L'epoca in cui viviamo richiede una battaglia fondata non sulle pur legittime affiliazioni partitiche e ideologiche, ma su contenuti precisi: bisogna contrastare la tendenza all'uso dilagante di norme penali per imporre una “verità di stato”. Gli articoli 21 e 33 della nostra Costituzione vanno difesi, e chiunque sia d'accordo con questo obbiettivo – di sinistra o di destra, laico o cattolico – non può che essere benvenuto.

5) Termino anch'io rifugiandomi nello scolasticismo marxista, e nelle citazioni dei sacri testi, di cui in linea di principio non ho mai sentito alcun bisogno. Ma anche da questo punto di vista, pretendere di essere marxisti o stalinisti e avallare il totalitarismo delle norme antinegazioniste, o addirittura le aggressioni in piazza ad opera di estremisti ebrei, è fuorviante. Marx era ebreo, non a caso accusato di essere “antisemita” dai suoi consimili, eppure ha scritto parole durissime non contro il sionismo che all'epoca non era ancora ufficialmente nato, ma contro la stessa cultura e tradizione ebraica (La questione ebraica) o – come ne Le lotte di classe del 1848 – contro il predominio del capitale finanziario ebraico nella Francia di Filippo II, la “France – scriveva – des Juives et des Rothschild”, il quale mondo finanziario vessando la stessa borghesia produttiva controllava tutto, a cominciare dalle istituzioni dello Stato.

Anche Lenin era antisionista, e non a caso esaltò come opera del “grande georgiano” Il marxismo e la questione nazionale di Stalin: un libro il cui capitolo più lungo e più critico riguardava proprio il Bund, il movimento che pretendeva, rompendo “il principio dell'unione internazionale degli operai”, di essere l' “unico rappresentante del proletariato ebreo” in Russia, a discapito di tutte le altre organizzazioni proletarie non ebraiche “pure”, a cominciare dai bolscevichi; un libro la cui fine è dedicata di nuovo ad un attacco frontale al “separatismo” bundista, che reclamava fra le altre cose l'imposizione per legge della festività del sabato e non il diritto (sacrosanto) alla lingua materna, ma del “gergo” ebraico; un libro quello di Stalin, al cui inizio è dato di leggere quanto segue: “Il periodo della controrivoluzione in Russia ha portato … delusione nel movimento, sfiducia nelle forze comuni. Si era creduto in un 'avvenire luminoso' e tutti avevano lottato uniti, indipendentemente dalla nazionalità: le questioni comuni innanzitutto! Poi si insinuò negli animi il dubbio e la gente incominciò a dividersi in scompartimenti nazionali ognuno conti per se! Il “problema nazionale innanzitutto!”. Quali i movimenti pericolosi per l'unità del proletariato? Una ventina di righe dopo, così elenca, nell'ordine, Stalin: “il rafforzarsi del sionismo tra gli Ebrei, lo svilupparsi dello sciovinismo in Polonia, del panislamismo fra i Tartari, il rafforzarsi del nazionalismo tra gli Armeni, i Georgiani, gli Ucraini, la generale propensione della gente comune per l'antisemitismo, tutti questi sono fatti di dominio pubblico. L'ondata del nazionalismo avanzava sempre più fortemente, minacciando di travolgere le masse operaie ..”.

Questo scriveva Stalin: non è possibile che i marxisti e gli stalinisti di oggi non conoscano questo saggio, opera miliare che ha fatto da sfondo allo stesso sistema di relazioni internazionalitarie – rispetto delle proporzioni fra i diversi gruppi nazionali in tema di diritti sociali e posti di lavoro; e nello stesso tempo rifiuto netto del separatismo, poi scatenato da Gorbaciov – edificato nella Unione sovietica proprio sotto Stalin. Né è possibile che non siano in grado di trarre da questa opera le conseguenze per l'oggi, vista la loro abitudine a citare sempre i classici del marxismo come maestri utili anche per l'epoca attuale.

Così ragionando, non c'è dubbio che viviamo in questo inizio secolo nel mezzo di un planetario 1905, dopo la scomparsa dell'Unione sovietica – un paese certo segnato da illiberalità paurose, ma nondimeno forte di uno “stato sociale” rispettoso dei diritti sociali dei suoi cittadini, e che comunque avrebbe dovuto conoscere una transizione ben diversa da quella, terribile e terribilmente antidemocratica, della coppia Gorbaciov-Eltsin – così come non c'è dubbio che, a partire dalla fine del bipolarismo, e dalla cosiddetta crisi delle ideologie, si sono sviluppati in tutti gli angoli del pianeta gli identitarismi e nazionalismi più radicali che mai, all'insegna di un differenzialismo (Lefevbre, 1971) che pretende di presentare come di sinistra qualcosa che di sinistra non è: la ghettizzazione cioè di ogni popolo o nazione o etnia nella sua cultura, balcanizzazione culturale viatico peraltro delle balcanizzazioni territoriali con cui il nuovo colonialismo sta distruggendo o ha distrutto paesi e “nazioni forti” un tempo uniti: dalla Jugoslavia postitoista, all'Iraq di Saddam Hussein. Da che parte stia Israele in questa tendenza storica è chiarissimo. Né può essere meno chiaro da quale parte stiano gli aggressori di Teramo. Questo è il punto: o c'è qualche stalinista e qualche marxista che ritiene che gli stessi personaggi possano coerentemente essere stati “antifascisti” a Teramo, e sostenitori acritici dello Stato d'Israele in Palestina?

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