DELUSIONI

Arturo Schwarz, noto editore dei testi di Trotski in Italia, rompe con l'editore Roberto Massari perchè indignato per la sua firma alla petizione contro l'embargo genocida di Gaza [vedi il testo qui]. E' lo stesso Massari che rende pubblica la lettera indirizzatagli da Schwarz insieme a un suo appello "per riattivare il processo di pace" in cui riprende tutti gli argomenti della propaganda sionista.

Ci dispiace per il compagno Massari, ma dovrà riconoscere che il connubio tra sionismo e sinistra è ben più solido di quello che appare in superficie. La vicenda della chiusura dell'università di Teramo insegna.

Aginform



Roberto Massari rende pubblica la lettera pervenutagli da Arturo Schwarz

Invio la lettera che mi ha scritto Arturo Schwarz - uno dei massimi studiosi del surrealismo al mondo e stretto collaboratore della ErreEmme/Massari Editore - insieme al testo che ha scritto in risposta all'appello "Gaza vivrà" (un appello che avevo firmato come Utopia Rossa e come editore).

Risponderò a Schwarz secondo quanto mi detta la mia coscienza.

Resta il dolore per la rottura di un'amicizia culturale così antica e che ha prodotto alcuni importanti titoli della mia casa editrice

Per chi non lo ricordasse, Arturo Schwarz è stato il primissimo editore dell'estrema sinistra di una certa notorietà (fine anni '50 - primi anni '60), eversivo e antistaliniano, al punto che ci volle un intervento del PCI (tramite la Lega Coop) per farlo chiudere. Di lì discendono, per filiazione diretta, la Samonà & Savellii e Massari Editore.

Arturo Schwarz - uomo di molteplici interessi e di gigantesca erudizione enciclopedica - è diventato con gli anni uno dei massimi studiosi del surrealismo su scala internazionale e certamente il principale diffusore in Italia.

Inutile dire che si tratta di una perdita culturale incolmabile e che si va ad aggiungere alla morte recente di Massimo Consoli, in un quadro di degrado e disumanizzazione della ex sinistra e della ex estrema sinistra senza precedenti nella storia italiana.

Anche per questo rendo pubblica la lettera di Schwarz - invero poco cortese nei miei confronti - insieme al suo testo giustificativo dei tanti crimini che si commettono a danno del popolo palestinese.

Roberto Massari

13 novembre 2007



La lettera di Schwarz a Massari

Caro (?) Massari

Ho letto con sorpresa, in calce ad un libello degno della penna di un Goebbels la Tua firma. Ovviamente la nostra amicizia termina qui. Ma mi chiedo come l'autore di quel bel libro sul Kibbutz abbia potuto cadere così in basso.

Ti mando l'appello che ho redatto io e che sarà presto su internet.

Arturo


P.S. Ti avevo mandato IN PRESTITO l'unica copia che avevo del mio Almanacco Dada: volevi pubblicare un mio testo. Non desidero più farlo con te e ti prego comunque di restituirmi il mio libro che, essendo esauritissimo, non riesco a ricomperare.


Appello per riattivare il processo di pace

di Arturo Schwarz


A poche settimane dalla conferenza internazionale sul Medio Oriente di Annapolis, che costituisce l’ultima possibilità per riattivare il processo di pace, ci auguriamo che Ehud Olmert e Mahmud Abbas (Abu Mazen) non perdano questa occasione per avviare, su basi concrete, un negoziato il cui fine deve essere quello di realizzare le aspirazioni della maggior parte degli israeliani e dei palestinesi: quello di vivere pacificamente in due stati democratici e vitali con frontiere sicure e riconosciute dalla comunità internazionale. È quindi necessario mobilitare governi e opinione pubblica per incoraggiare e favorire un esito positivo di questa conferenza. 

A questo progetto si oppongono forze estremiste di entrambi i campi, che moltiplicano le provocazioni e gli appelli unilaterali all’odio e all’intransigenza. Ad esempio, circola su internet un appello farneticante, Gaza vivrà, dal linguaggio mutuato da quello dei negazionisti, i quali, ritenendo che Israele non abbia il diritto di esistere, non ne scrivono neppure il nome, chiamandolo “entità sionista”. Quello che stupisce è vedere che questo appello ha raccolto le firme – accanto a quelle di ben noti antisemiti quali Edoardo Sanguineti e Gianni Vattimo, esponenti di Rifondazione Comunista e di altri gruppuscoli autodefinitisi di estrema sinistra – anche di alcune persone sulla cui indipendenza intellettuale non avevo dubbi, ad esempio Bruno Caruso, Margherita Hack e Roberto Massari. S’impone quindi una replica basata sui fatti, fatti che esigono almeno una ricostruzione sommaria degli avvenimenti che hanno condotto alla situazione attuale, e che aiutino a capire la complessità dei problemi che dovranno affrontare i partecipanti alle trattative di Annapolis per avviare un negoziato che dia dei frutti concreti. 

1° La costituzione di uno stato ebraico in Palestina (allora sotto mandato britannico) è stata approvata il 29 novembre 1947, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò la risoluzione n. 181 che raccolse l’unanimità dei consensi dei membri del Consiglio di sicurezza e la maggioranza (33 favorevoli e 13 contrari) dell’assemblea. Il piano stabilito da questa risoluzione per risolvere il conflitto arabo-ebraico divideva il mandato britannico sulla Palestina in due Stati, l’uno arabo, l’altro ebraico (che prese il nome di Stato d’Israele il 15 maggio 1948). La risoluzione non fece che rattificare l’esistenza di uno stato israeliano de facto, se non de jure, sin dall’inizio del secolo precedente, riconoscendo la presenza ininterrotta del popolo ebraico in quella terra sin dalla metà del secondo millennio a.C. Il piano di spartizione fu immediatamente accettato dalle autorità israeliane, mentre l’Alto Comitato Arabo, organo rappresentativo dei Palestinesi, respinse la risoluzione e diede il via a tumulti e massacri di Ebrei ovunque questi fossero in minoranza. Quando si ritirarono le truppe britanniche, il 15 maggio 1948, le sommosse culminarono, lo stesso giorno, con l’attacco al neonato Stato d’Israele da parte degli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq. Ahlman Azzah Pascia, segretario generale della Lega Araba, chiarì subito che l’intento era quello di condurre “una guerra di sterminio e di massacro della quale si parlerà come dei massacri dei Mongoli e delle Crociate”, precisando: “Non importa quanti ebrei ci saranno, li butteremo tutti a mare”. 

2° L’armistizio di Rodi (Febbraio 1949) avrebbe potuto favorire la nascita di uno stato palestinese, ma Egitto e Giordania preferirono spartirsi i territori assegnati dall’ONU allo Stato Palestinese: l’Egitto occupò Gaza e la trasformò in un enorme campo di concentramento, mentre la Giordania si annesse la Cisgiordania e Gerusalemme-Est. 

3° Gli stati arabi decisi a cancellare Israele dalla carta del Medio Oriente non nascosero mai (ieri, come oggi Ahmadinejad) il loro progetto. Il 22 maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd al-Nasr dichiarò il suo intento di “annientare totalmente lo Stato d’Israele”. Pochi giorni dopo scoppiava la Guerra dei sei giorni. Israele attaccò le forze egiziane e siriane che la minacciavano, e offrì al governo giordano la possibilità di non essere coinvolto, ma i giordani risposero cannoneggiando Gerusalemme e Tel Aviv. In sei giorni Israele riuscì a riunificare Gerusalemme (su 250.000 abitanti 180.000 sono ebrei), occupò il Sinai (retrocesso restituito totalmente all’Egitto con la pace firmata da Menachem Begin e Anwar al-Sadat a Camp David il 26 marzo 1979), le alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Moshe Dayan, Ministro della Difesa, dichiarò che Israele era disposta a ritirarsi dai territori occupati in cambio di un trattato di pace. Questa offerta non venne accolta. Il primo ministro Levi Eshkol dichiarò allora che la Cisgiordania sarebbe rimasta sotto il controllo israeliano solo sino a quando i Paesi arabi avrebbero continuato a progettare la distruzione dello Stato di Israele. Il 3 settembre del 1967 la Lega Araba, riunita in Sudan, rispose con tre no: “No al riconoscimento di Israele, no al negoziato con Israele, no alla pace con Israele”. 

4° Perseguendo il fine di annientare Israele, il 6 ottobre 1973 (giorno in cui si celebra la cerimonia più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur) gli eserciti di Siria ed Egitto, con l’appoggio di unità saudite, irachene, kuwaitiane, libiche, marocchine, algerine e giordane, aggredirono Israele. L’esercito israeliano e la popolazione civile vennero colti di sorpresa ma, dopo una resistenza di 8 giorni, durante la quale venne organizzato il contrattacco, la III armata egiziana venne accerchiata e l’esercito israeliano si ritrovò a 100 chilometri dal Cairo e a 30 da Damasco. Ai Paesi arabi non rimase altra alternativa che chiedere un cessato il fuoco. 

Questi gli antefatti, ora veniamo alle accuse dell’appello Gaza Vive. Con riferimento alla barriera di difesa (comunemente nota come “il muro”) è indispensabile ricordare che entrambi i ‘muri’ che separano Cisgiordania e Gaza da Israele non sono tali: il primo è un muro solo per il 5% del suo sviluppo totale. Quando s’inoltra in territorio cisgiordano lo fa esclusivamente per motivi di sicurezza, e perché i confini non sono ancora stati stabiliti: questi saranno oggetto di un negoziato che contemplerà anche compensi territoriali. Questa barriera di difesa ha permesso di ridurre del 90% gli atti di terrorismo in Israele. La seconda barriera di difesa (che non è mai muro) sulla frontiera tra Gaza ed Israele, eretta nel 1995, ha avuto come risultato di ridurre quasi totalmente gli atti di terrorismo provenienti da Gaza. Non esiste nazione al mondo che non cerchi di proteggere la vita dei propri cittadini. Muro o barriera di difesa – la si chiami come si preferisce – non sarebbero stati necessari senza la costante minaccia di atti terroristici. Da notare infine che la risoluzione delle Nazioni Unite n. 338 (22 Ottobre 1973) non intimava il ritiro di Israele né da “tutti i territori occupati”, né “dai territori occupati”; prevedeva invece che i confini sarebbero stati definiti da negoziati che avrebbero contemplato rettifiche territoriali allo scopo di stabilire “frontiere sicure e riorganizzate” con il fine di permettere ad entrambi gli stati di “vivere in pace e sicurezza”. 

L’appello Gaza Vive accusa di genocidio “le autorità sioniste” (ci risiamo con il linguaggio dei negazionisti). Con quanta leggerezza questo termine terribile è utilizzato e a quante strumentalizzazioni si presta! L’appello giunge al punto di chiedere che il governo Prodi “cancelli il Trattato di cooperazione con Israele sottoscritto dal precedente”. Il ruolo primario di qualsiasi governo democratico è quello di proteggere la vita dei propri cittadini. È innegabile che per 75 anni è stato Israele ad essere stato minacciato di genocidio, che con Ahmadinejad ha preso le dimensioni di un’apocalisse nucleare. Nonostante questa situazione di pericolo mortale, nessun’altra democrazia è stata più protettiva nei confronti della vita dei civili – purtroppo costantemente utilizzati come scudo dai terroristi – come quella israeliana. Tra il 1948 e il 1967 i fedayin palestinesi, finanziati dall’Egitto e dalla Siria, hanno assassinato centinaia di civili israeliani (per lo più donne, vecchi e bambini indifesi). Nella guerra del 1967 gli eserciti arabi hanno preso di mira la popolazione israeliana in completo spregio delle leggi di guerra. Gli ordini dati alle forze aeree siriane erano di “distruggere le città, i kibbutzim, i moshavim”; la Giordania martellò Gerusalemme e i sobborghi di Tel Aviv (oltre 6000 bombe furono lanciate) e alle forze giordane fu comandato di “distruggere tutti gli edifici e uccidere tutti presenti”. I piani di battaglia egiziani prevedevano il “massacro di tutta la popolazione civile di Tel Aviv” come prima tappa alla “distruzione di Israele”. Dalla fine del 1967, l’unico obbiettivo dei terroristi palestinesi è stato la popolazione civile. 

È indispensabile ricostituire gli antefatti che hanno portato al problema dei rifugiati, uno dei problemi più spinosi che i negoziatori ad Annapolis dovranno affrontare. In primo luogo, è vero che, in conseguenza della guerra del 1947-48 (quando una coalizione di paesi arabi aggredì il neostato israeliano), 750.000 palestinesi si rifugiarono – per la maggior parte su incitamento degli aggressori arabi – volontariamente in Libano, Siria e Giordania. Ma è anche vero che la stessa guerra del 1947-48 costò l’esilio a 1.000.000 di ebrei i quali, dopo essere stati depredati da tutti i loro averi, vennero espulsi dai paesi arabi dove vivevano da generazioni. In proposito Sabri Jiryis, un avvocato arabo, già membro del Consiglio Nazionale Palestinese, ammise: “gli ebrei degli stati arabi sono stati buttati fuori dalle loro vecchie case ed espulsi dopo che tutte le loro proprietà erano state confiscate”. Ma mentre i 750.000 palestinesi furono internati dai governanti arabi in campi di fortuna, dove si moltiplicarono per arrivare oggi ad essere 4 milioni circa, il milione di ebrei cacciati dai paesi arabi trovarono in Israele un’accoglienza calorosa e furono tutti perfettamente integrati. La responsabilità della creazione del problema dei rifugiati ricade pertanto interamente sui paesi arabi. Infatti, per quasi 20 anni Giordania ed Egitto controllarono, rispettivamente, la Cisgiordania e la striscia di Gaza, ma non fecero nulla per alleviare le condizioni dei profughi e, ancor meno, per integrarli. Un osservatore delle Nazioni Unite scrisse che gli egiziani avevano trasformato Gaza in “un enorme campo egiziano di prigionia”. Anche quando, nel 1995, a seguito degli accordi di Oslo, l’Autorità Palestinese assunse il controllo di Gaza e delle maggiori città della Cisgiordania, la situazione non cambiò, e i profughi continuarono a vivere nei campi. La responsabilità dei governanti arabi fu riconosciuta persino da Mahmud Abbas (Abu Mazen), che accusò i governanti arabi di averli prima “incitati ad emigrare ed abbandonare le loro case, per poi buttarli in prigioni simili ai ghetti dove gli ebrei avevano abitato”  (Abu Mazen Charges that the Arab States Are the Cause of the Palestinian Refugee Problem” in Wall Street Journal, 5 giugno 2003). Da parte sua, il già primo ministro siriano, Khalid al-Azm, nel suo libro di memorie del 1972 conferma: “Dal 1948 siamo noi che chiediamo il ritorno dei profughi mentre siamo noi che abbiamo chiesto loro di andarsene. Li abbiamo rovinati, abituati a mendicare, abbiamo distrutto il loro morale e la loro condizione sociale, e poi li abbiamo sfruttati servendoci di loro per ragioni politiche”. 

Milano, 7 novembre 2007


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