E' giunto il momento di sciogliere il nodo di Israele

Mauro Manno

Per una volta siamo felici di dichiararci d'accordo con il Ministro degli Esteri israeliano.

La sig.ra Tzipi Livni ha da poco sostituito agli esteri Silvan Shalom, il cui nome in ebraico vuol dire «pace», cosa in totale contraddizione con la politica di guerra del governo Sharon di cui il buon Silvan faceva parte. Ebbene, l'attuale Ministro degli Esteri ha recentemente affermato che l'ONU oggi se fosse confrontato al caso, non approverebbe la Risoluzione n° 181 del 29 novembre 1947, la quale stabilì la spartizione della Palestina, ponendo così le basi della nascita di Israele e dando inizio a quasi 60 anni di violenze, guerre e ingiustizie in tutto il Medio Oriente. Quella Risoluzione sciagurata inaugurò un periodo storico che ancora perdura, e che anzi è nuovamente suscettibile di condurre a guerre più micidiali, a sconvolgimenti economici più significativi, ad un'intensificazione dell'odio delle masse islamiche contro l'Occidente ancora più generalizzato. E mentre quest'odio prende la forma della protesta per le «vignette e le magliette satiriche», all'orizzonte si addensano le nuvole nere dell'incombente confronto tra USA e Israele (Usraele) da una parte e l'Iran dall'altra.

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Haaretz, 16 Febbraio 2006

La questione della legalità dello stato di Israele vista dalla prospettiva del giornale israeliano "Haaretz"

Dire che la Risoluzione 181 non sarebbe approvata oggi, non è una bazzecola. La 181 infatti è considerata parte della «Legalità Internazionale» per cui dire che oggi non sarebbe approvata dallo stesso ONU che l'approvò 59 anni fa, pone un problema molto serio. Ciò equivale a dire che l'ONU o sbagliò allora ad approvarla, o sbaglierebbe adesso a rigettarla. Non c'è altra via. E' quindi lecito chiedersi, a questo punto, se l'esistenza stessa di Israele sia legale o meno. Israele non sarebbe forse un errore della storia che l'ONU di oggi si guarderebbe bene dal commettere?

A nostro parere la Sig.ra ministro ha perfettamente ragione di affermare quanto afferma e le sue parole minano effettivamente alla base la cosiddetta legittimità di Israele ad esistere come stato ebraico. Perché mai, allora, lasciarsi sfuggire una simile dichiarazione? In un articolo pubblicato su Haaretz il 16 febbraio scorso, Aluf Benn afferma: «Oggi Israele lotta per mantenere la sua legittimità di esistere come stato ebraico». Lo scopo del ministro israeliano, (lo stesso del giornalista citato), non è ovviamente di dare argomenti agli avversari dello stato ebraico ma piuttosto quello di chiamarne a raccolta i sostenitori, sottolineando che il momento è grave e che vi è bisogno dell'aiuto di tutti gli amici di Israele, siano essi di destra o di sinistra (Fini e Berlusconi tra i primi, Fassino e Rutelli tra i secondi).

Non è la prima volta che da parte ebraica si nota quanto poco in relazione con la legalità internazionale sia la nascita di Israele e la Risoluzione ONU n° 181. L'evidente ingiustizia storica a danno dei palestinesi, compiuta alla fine degli anni Quaranta dalle superpotenze sotto la maschera dell'appena creata e totalmente controllata Organizzazione della Nazioni Unite, fu implicitamente riconosciuta, molto prima della Sig.ra Livni, dallo storico di origine ebraica, Jacob L. Talmon, il quale nel 1971 scrisse:

«Lo stato di Israele è stato costituito in un periodo in cui il processo di decolonizzazione era già in pieno sviluppo (in effetti il ritiro degli inglesi dalla Palestina nel 1948 era modellato sul loro ritiro dall'India avvenuto l'anno precedente). E' estremamente dubbio che la maggioranza necessaria per la risoluzione dell'ONU sulla spartizione della Palestina avrebbe potuto essere ottenuta qualche anno più tardi. Pochi o nessuno - dei nuovi stati africani e asiatici che dopo breve tempo sarebbero stati ammessi all'ONU [...] - sarebbero stati preparati allora a votare per la costituzione di uno stato ebraico». (1)

Oggi in alcuni ambienti della sinistra in Occidente e nel movimento contro la guerra, dopo il fallimento del «processo di pace», determinato non dal rifiuto dell'«offerta generosa» di Barak e Clinton ad Arafat e ai palestinesi, ma dalla volontà dei primi di cancellare completamente quanto stabilito nella Risoluzione 242 (1967) dell'ONU, si va rapidamente affermando una vecchia idea. Che cioè la soluzione vera e duratura del conflitto sia da ricercare nella natura del sionismo, nel carattere dello stato ebraico e non in trattative di «pace» che in tanti hanno portato solo all'espansione di Israele, al peggioramento continuo delle condizioni del popolo palestinese, alla crescita enorme dei rischi di un confronto globale in Medio Oriente. Dov'è infatti quello stato palestinese che doveva nascere dalla spartizione del 1947? Perché non vengono restituiti ai palestinesi almeno quei territori occupati dal 1967 ? E' chiaro che la «trattativa» è solo servita a Israele per continuare la sua espansione e colonizzazione. Se questo è lampante, allora è chiaro anche che la causa primaria di tutto risiede nella natura del sionismo; nel progetto sionista, cioè, di uno stato ebraico sulla terra palestinese dalla quale quest'ultimi dovevano essere cacciati; un progetto con dichiarati fini espansionistici di colonizzazione progressiva (2).L'attuale imprigionamento dei palestinesi nella Striscia di Gaza e nei bantustans cinti dal Muro dell'Apartheid in Cisgiordania, e contemporaneamente l'annessione di nuove terre palestinesi oltre la linea verde, a Gerusalemme Est e in tutta la valle del Giordano, questi erano gli obiettivi che Israele voleva raggiungere e ha praticamente raggiunto con l'aiuto degli Stati Uniti e dell'Europa e l'inganno delle «trattative». Quello che Israele e gli USA vogliono adesso è che L'ANP capitoli totalmente, si accontenti dei bantustans e legalizzi i confini definitivi di Israele. C'è da sospettare che se i confini voluti da Israele possano essere quelli definitivi, non si possa dire altrettanto del territorio. L'attuale imprigionamento dei palestinesi in un territorio senza terre fertili, senza acqua, senza un'economia autonoma può solo peggiorare le condizioni di vita già precarie dei palestinesi e spingerli ad emigrare dalla loro prigione verso altri paesi e quindi lasciare libero campo ad un'ulteriore, definitiva colonizzazione sionista. Sappiamo come lo stato sionista sia abile nel manovrare le leve in suo possesso per peggiorare all'inverosimile la vita dei palestinesi; e in questa direzione sembra andare anche il tentativo di affamare i palestinesi non restituendo loro i dazi doganali dovuti, questa volta con la scusa della vittoria di Hamas.

L'obiettivo dei sionisti era di impossessarsi di tutta la Palestina e la risoluzione ONU del 1947 è stato il primo passo della loro colonizzazione. Ma era un atto «legale»? Se oggi l'ONU, come dice la Livni, non voterebbe una tale risoluzione allora si trattò di un errore, di un cedimento dell'Occidente al sionismo e conseguentemente fu un tradimento, una svendita dei diritti dei palestinesi. Come fu possibile una cosa tanto barbara da parte di un organismo deputato a stabilire e applicare la «legalità internazionale»?

L'ONU nel 1947. In quell'anno, facevano parte delle Nazioni Unite solo 56 stati (sono attualmente 191). Questi stati rappresentavano meno del 20% dell'umanità, il che per un organismo con pretese universalistiche è piuttosto poco. C'è da dire poi che nel 1947 e fino al 1965 il Consiglio di Sicurezza era costituito da 11 paesi e la maggioranza necessaria ancora più ristretta di quella attuale, solo 7 paesi su 11, cioè i 5 membri permanenti + due. Ma la non democraticità di quel voto non è solo un fatto numerico. Qual'era il valore in termini di indipendenza, responsabilità e libertà di quel voto? Le Nazioni Unite erano allora completamente dominate dalle potenze che avevano vinto la guerra cioè le ex potenze coloniali di Gran Bretagna e Francia, la potenza neo-coloniale americana e dall'Unione Sovietica. Facevano parte dell'ONU alcuni altri paesi europei, riconoscenti verso gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, per essere stati «liberati». Sul territorio di alcuni di essi stazionavano ancora truppe di occupazione. La Polonia per esempio entra nell'ONU pochi mesi prima della risoluzione 181 ma non è certamente un paese sovrano. Nel 1947 poi, fanno parte dell'ONU i paesi sud e centroamericani. Alcuni di essi avevano legami così stretti con gli USA da essere in verità dei veri e propri dominions. Altri erano retti da oligarchie o dittature filoamericane. Tutti dipendevano economicamente dai finanziamenti, dagli investimenti o dal mercato nordamericano. Qualcuno potrebbe obiettare che però in quel Consiglio di Sicurezza vi era anche la Cina, la quale era addirittura membro permanente del Consiglio di Sicurezza, essendo una delle cinque potenze uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale. Ma quale Cina? Non certo la Cina popolare che nascerà il primo ottobre del 1949. A reggere il seggio della Cina all'ONU è allora il governo nazionalista filoamericano di Chiang Kai-Shek che durante la guerra si era impegnato più a combattere i comunisti (incoraggiato in questo dagli USA) che gli stessi occupanti giapponesi. Nel 1947 il governo di Chiang Kai-Shek non controllava che una piccola parte del vasto territorio cinese e si apprestava a fuggire nell'isola di Taiwan, protetto dalle cannoniere americane di Mc Arthur, senza le quali Chiang, il suo governo e la sua repubblica nazionalista sarebbero finite nell'immondezzaio della storia e l'isola di Taiwan sarebbe tornata alla madrepatria. Come poteva votare la Cina nel Consiglio di Sicurezza del 1947?

In quell'anno, inoltre, non facevano parte dell'ONU i paesi sconfitti della seconda guerra mondiale, la Germania, l'Italia, il Giappone e i loro alleati come l'Austria o la Romania, mancavano anche la Finlandia, la Svezia, la Spagna, il Portogallo, Malta, l'Irlanda, l'Islanda, che aderiranno nel 1955, mancava la Svizzera, e soprattutto mancavano tutti i paesi coloniali cioè le colonie inglesi, olandesi, francesi, portoghesi, spagnole, belghe, ecc. cioè quasi per intero l'Asia e l'Africa. C'è però un paese africano: .... il Sud Africa dell'Apartheid! In questa ONU, la risoluzione 181 è approvata con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astensioni. Questa era la «legalità internazionale» che impose ai palestinesi la distruzione della loro terra. Fu in realtà la volontà di entrambe le superpotenze, USA e URSS, le loro manovre, le loro pressioni, insieme al lavoro sotterraneo dei sionisti e all'influenza della lobby ebraica americana che decise la faccenda. Non è quindi sorprendente se gli undici commissari dell'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) incaricati di decidere il destino della Palestina seguirono la linea concordata dalle due superpotenze. Un recente libro dello storico israeliano Ilan Pappe chiarisce ulteriormente la situazione.

«Costoro - scrive Pappe degli 11 dell'UNSCOP – non avevano esperienza del Medio Oriente, né alcuna conoscenza della situazione della Palestina e inoltre avevano ispezionato molto sommariamente la zona. A quanto sembra, sarebbero rimasti più impressionati dalla deprimente visita ai campi di raccolta europei dei sopravvissuti all'Olocausto, che da quanto ebbero modo di vedere in Palestina. […] L'UNSCOP aveva ricevuto uno schema di partizione pronto all'uso dagli abili e ben preparati emissari sionisti […]. Ciò nondimeno, l'unanime e decisa opposizione dei palestinesi alla partizione era perfettamente nota all'UNSCOP. Per i palestinesi – dirigenza politica e popolazione -, la partizione era del tutto inaccettabile, e non molto dissimile, ai loro occhi, dalla divisione dell'Algeria tra coloni francesi e popolazione indigena. […] L'ultimo tentativo britannico di limitare l'immigrazione illegale degli ebrei, obbligando, di fatto, la nave Exodus, carica di scampati all'Olocausto, a ritornare in Germania, coincise con una visita in Palestina dell'UNSCOP, e ribadì, in certo qual modo, la correlazione tra Olocausto e creazione di uno Stato ebraico in Palestina». (3)

Un abile sfruttamento dell'Olocausto da parte dei sionisti, l'inettitudine dei commissari UNSCOP e la volontà delle superpotenze di imporre la spartizione decisero del futuro dei palestinesi. E tuttavia un brandello di coscienza dell'Occidente si manifestò ancora nel momento della decisione. Accanto alla proposta di spartizione voluta dai sionisti, fu presentata anche la proposta di uno stato unitario democratico. Scrive sempre Ilan Pappe:

«Il 29 novembre 1947, l'UNSCOP presentò le proprie raccomandazioni all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tre commissari furono autorizzati a formulare una raccomandazione alternativa. La relazione di maggioranza auspicava la partizione della Palestina in due Stati all'insegna dell'unione economica. […] La relazione di minoranza prevedeva uno Stato unitario in Palestina basato sul principio della democrazia. Occorsero una vasta attività di lobby degli ebrei americani, un'intensa azione diplomatica statunitense e un vigoroso intervento dell'ambasciatore sovietico alle Nazioni Unite, per raggiungere la maggioranza dei due terzi dell'Assemblea generale favorevole alla partizione. Sebbene non proprio tutti i diplomatici palestinesi e arabi si fossero impegnati a sostenere tale piano alternativo, questo ebbe un numero equivalente di favorevoli e contrari, a dimostrazione che numerosi Stati membri si rendevano conto che imporre una partizione equivaleva a schierarsi a favore di una parte contro l'altra». (4)

Ci sarebbe da discutere sulla validità numerica del voto. I due terzi di un'assemblea di 56 membri sono in verità, 37 voti, ora i voti favorevoli alla spartizione furono 33. Non fu quindi tenuto conto degli astenuti, il che non sembra veramente molto legale. Ma l'illegalità della risoluzione è un fatto ancora più sostanziale. Si decise infatti, in un'assemblea non certo universale, sotto pressione delle superpotenze, sotto l'influenza della lobby ebraica americana, di privare un popolo di oltre metà della sua terra senza che questo fosse consenziente. Fu un'imposizione bella e buona, un'imposizione imperialista. L'ONU, così poco rappresentativo allora, si schierò con una parte, la più forte, contro la più debole. L'imbarazzo era grande, tanto è vero che la raccomandazione di minoranza fu sostenuta da un ugual numero di stati di quanti si dichiararono contrari. Fu proprio la «vasta attività di lobby degli ebrei americani», la «intensa azione diplomatica statunitense» e il «vigoroso intervento dell'ambasciatore sovietico» che fecero sì che alcuni voti passassero di campo e si sommassero a quelli di chi era contrario ad un solo Stato democratico. Così si raggiunse il numero dei 33 voti favorevoli alla spartizione. Tutto si può dire di quella votazione ma, per favore e decenza, non si dica che era la manifestazione della «legalità internazionale». Tutti ebbero modo di ravvedersi da lì a poco, quando dopo la guerra del 1948 tra arabi ed ebrei, Israele estese di molto il territorio assegnatogli e cacciò da quello e dalle terre conquistate oltre 750 000 palestinesi. La risoluzione 194 (dicembre 1948) chiese a Israele di permettere il ritorno dei profughi alle case e villaggi da cui erano stati cacciati ma nessuno all'ONU si degnò di imporre allo stato sionista il ritiro entro i confini che quella incerta «legalità internazionale» gli aveva assegnato un anno prima con la 181. Lo schieramento a favore dei sionisti e contro i palestinesi da parte delle superpotenze apparve più evidente (5). Ancora più sfacciata si dimostrò la parzialità a favore dei sionisti in occasione della Risoluzione n° 273 dell'11 maggio 1949. La Risoluzione riconobbe lo stato israeliano e ne accettò la sua ammissione alle Nazioni Uniti, a condizione che esso riconoscesse la validità e si impegnasse per l'applicazione della risoluzione 181 (che stabiliva la spartizione e i confini dei due stati), nonché accettasse la risoluzione 194 (che imponeva il diritto al ritorno dei palestinesi). Israele incamerò il suo ingresso alle Nazioni Unite ma si fece beffe dei suoi obblighi internazionali. La protezione delle due superpotenze gli permisero di farla franca ancora una volta. La legalità internazionale fu formalmente rispettata con la proclamazione delle Risoluzioni 181 e 273, gli interessi banditeschi di Israele furono garantiti dalle due superpotenze con la non applicazione delle decisioni favorevoli ai palestinesi. Oltre che nella molto dubbia «legalità internazionale» della risoluzione 181, la quale prevedeva anche la partizione e l'amministrazione fiduciaria di Gerusalemme, cosa che Israele si è sempre rifiutato di fare, è proprio nella non applicazione delle risoluzioni 181 e 194 che Israele si è posto fuori della legalità internazionale. A questo riguardo, Francis Boyle, professore di diritto internazionale presso l'Università dell'Illinois ha affermato:

«La base giuridica per la sospensione de facto di Israele presso l'ONU è piuttosto semplice: come condizione per la sua ammissione nell'Organizzazione delle nazioni unite, Israele ha accettato formalmente, tra l'altro, di applicare la Risoluzione dell'assemblea generale 181 (II) (1947) (partizione e amministrazione fiduciaria di Gerusalemme) e la Risoluzione dell'assemblea generale 194 (III) (1948) (diritto al ritorno per i palestinesi). Nonostante questo, il governo di Israele ha espressamente rinnegato sia la Risoluzione 181 (II) che la Risoluzione 194 (III). Perciò?, Israele ha violato le condizioni per la sua ammissione nell'ONU e dunque deve essere sospeso su una base de facto da qualunque partecipazione all'intero sistema delle nazioni unite». (6)

Questo vada dritto a coloro che sostengono la «legalità internazionale di Israele» e il suo preteso «diritto ad esistere come stato ebraico». L'ONU, sotto il controllo del Consiglio di Sicurezza dominato dagli USA e con potere di veto, non risolverà mai la sua stessa contraddizione. Tocca ai democratici, ai militanti anti-imperialisti, al movimento contro la guerra farlo. Come? Su che parola d'ordine? Quella di un solo stato democratico, multirazziale e multireligioso in Palestina. Uno stato per i palestinesi e per gli ebrei, dove i profughi possano ritornare e vivere. Abbiamo visto che questa parola d'ordine era presente già nelle assise della riunione ONU del 29 novembre 1947. Se non fu adottata ciò avvenne per le manovre e le pressioni di USA, URSS e lobby sionista americana. La stessa parola d'ordine era al centro del programma dell'OLP prima delle «trattative» di Oslo. Essa è ancora nel programma del FPLP ed è diventata la linea d'azione degli ebrei antisionisti che hanno fondato assieme a tanti palestinesi l'Associazione per un solo Stato Democratico in Palestina/Israele. Tutti i nodi vengono al pettine. E' giunto il momento di sciogliere il nodo di Israele.

Note

(1) Jacob L. Talmon, Israele tra le Nazioni, «Comunità», gennaio 1971, p. 169. [torna al testo]

(2) Nel 1936, David Ben-Gurion, allora alla testa del movimento sionista, parlando del progetto di spartizione ebbe ad affermare: «Lo stato ebraico che oggi ci si offre non è l'obiettivo sionista. In questa ristretta regione non è possibile risolvere la questione ebraica. Ma può servire come fase decisiva sulla strada di una più sostanziale realizzazione sionista. Esso permetterà di consolidare in Palestina, nel più breve tempo possibile, quella reale forza ebraica che ci porterà al nostro obiettivo storico […] cosa accadrà, tra quindici anni (o più), quando lo Stato, limitato territorialmente, che ci viene proposto avrà raggiunto la saturazione demografica? [...] Chiunque voglia essere franco con se stesso non dovrebbe mettersi ora a profetizzare ciò che accadrà tra quindici anni. Gli avversari della spartizione avevano ragione quando sostenevano che questo paese non ci è stato dato perché lo dividessimo con qualcuno – perché esso costituisce un'unità singola, non solo storicamente, ma anche dal punto di vista naturale ed economico.” (citato in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, cap. 8, edizione on-line, http://www.marxists.de/middleast/brenner7ch08.htm . Successivamente, in una lettera al figlio egli chiariva meglio il suo pensiero: Lo stato ebraico, scriveva, avrà «un potente esercito – non dubito che il nostro esercito sarà uno dei più potenti del mondo – e così non ci si potrà impedire di stabilirci nel resto del paese, cosa che noi faremo o con accordo e mutua comprensione con i vicini arabi o altrimenti». (D Ben-Gurion, citato in Norman Finkelstein, Ibidem.) [torna al testo]

(3) Ilan Pappe, Storia della Palestina moderna, Einaudi, Torino, 2005, pp. 151-2. [torna al testo]

(4) Ibidem, p. 155. [torna al testo]

(5) Non si può addurre come scusa che l'Occidente ignorasse i piani espansionistici di Israele. Oltre alle dichiarazioni di Ben-Gurion che abbiamo riportato sopra (vedi nota 2) – ma quelle erano dichiarazioni fatte nell'ambito ristretto del movimento sionistico o in una lettera privata – lo stesso personaggio aveva dichiarato alla rivista TIME, il 16 agosto 1948, tre mesi dopo la proclamazione dello stato di Israele e quattro mesi prima della risoluzione 194 che egli aveva in progetto uno stato di 10 milioni di persone. Alla domanda se tante persone potessero essere contenute nei confini dello stato ebraico stabiliti dalla spartizione dell'ONU, egli aveva risposto: «Ne dubito» [ citato in Henry Makow, Il sionismo come paradigma mentale, www.savethemales.ca/270103.html ]. Era chiaro da molto tempo, i sionisti, nel 1948, non avevano nessuna intenzione di accontentarsi del territorio loro concesso dall'ONU e al loro interno era prevalsa la decisione di non definire i confini dello Stato: molti anni dopo sempre Ben-Gurion, in una lettera a Le Monde del 2 luglio 1969, sottolineava che neanche l'America nella sua dichiarazione di indipendenza avesse fissato frontiere”. [torna al testo]

(6) Francis Boyle, Israele fuori dall'ONU!, http://www.arabcomint.com/fuori%20dall'onu.htm. Francis Boyle è professore di diritto internazionale all'Università dell'Illinois. [torna al testo]

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