La difesa del sionismo e del “diritto all’esistenza” di Israele
da parte del presidente Napolitano

Mauro Manno

29 novembre 2008


Il presidente ha equiparato, a suo tempo, l’antisionismo all’antisemitismo. In una lettera aperta[1] a lui indirizzata ebbi modo di fargli notare che tutti gli antisemiti della storia sono stati degli entusiastici sostenitori del sionismo, e non degli antisionisti, in quanto il sionismo aveva in programma l’allontanamento degli ebrei dai paesi europei, esattamente come i sionisti hanno sempre voluto. Storicamente, c’è stata collaborazione tra sionisti e antisemiti, non scontro né conflitto. La collaborazione avvenne anche con i nazisti e si esplicitò in patti di vario tipo, tra questi anche un patto economico finalizzato all’esportazione di ebrei e di macchinari agricoli dalla Germania verso la Palestina, in cambio di prodotti agricoli e investimenti dalla comunità coloniale ebraica (Yusciuv) nella Germania nazista (Patto di Ha’avara, 1933-1939). La tragica luna di miele con i nazisti comportò anche l’accettazione dei sionisti delle leggi razziali di Norimberga. Si trattò di una serie di accordi perversi per far avanzare i progetti sionisti a danno degli ebrei tedeschi (e non solo quelli) favorevoli all’assimilazione. Essi furono abbandonati nelle mani del nazismo in quanto “polvere, polvere economica e morale in un mondo crudele”. [2]

In quell’occasione il presidente dichiarò che l’“antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”. E io ribadisco che è giusto rigettare il sionismo, cioè “la fonte ispiratrice” dello Stato ebraico e a maggior ragione è giusto rigettare anche Israele, lo “stato ebraico” stesso che Napolitano difende a spada tratta. Allo stesso modo in cui è stato giusto rigettare l’ideologia dell’apartheid, cioè la fonte ispiratrice dello stato razzista sud africano e a maggior ragione è stato giusto rigettare lo stato dei razzisti bianchi di Pretoria. Napolitano dovrebbe consultare sull’argomento ‘Israele’ i dirigenti della lotta contro l’apartheid, Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu. In questo mese di novembre, durante il viaggio in Israele, il presidente si è spinto oltre, sostenendo che la posizione che nega a Israele il “diritto di esistere”, non ha il diritto di esistere. Egli continua ad equiparare sionismo e antisemitismo, aggiunge però che l’antisionismo sarebbe una forma “subdola”, travestita di antisemitismo. Questa posizione, definita «nuovo antisemitismo» è diventa quella ufficiale del governo israeliano per bocca di Tzipi Livni ed è stata diffusa da rappresentanti della lobby in America[3]. Quando la Chiesa d’Inghilterra deliberò di prendere le distanze da Caterpillar Inc., perché questa azienda fornisce a Israele i giganteschi bulldozer con cui gli israeliani radono al suolo le case dei palestinesi, il rabbino capo d’Inghilterra dichiarò che la decisione avrebbe “avuto ripercussioni tremende (…) nelle relazioni tra ebrei e cristiani in Gran Bretagna” e Tony Bayfield, capo del movimento degli ebrei riformatori affermò: “Ai livelli medi e bassi della Chiesa c’è un chiaro problema di antisionismo, ai limiti dell’antisemitismo”.[4]

Il presidente ha fatta sua questa posizione e adesso, dall’alto del vertice dello Stato, dà la benedizione (e presumibilmente si adopererà) a perseguitare chi non condivide questa sua (ed israeliana) nuova imposizione ideologica. Vorrei chiedere: condivide anche il vergognoso attacco alla Chiesa d’Inghilterra?

Da filosionista, il presidente è diventato un sostenitore della censura, della limitazione del diritto di parola e di pensiero sanciti dalla nostra costituzione che egli è deputato a difendere. Tutto in nome della lotta all’«antisemitismo». Hanno ragione Mearsheimer e Walt quando affermano che “l’accusa di antisemitismo è un sistema efficace” per infangare e “emarginare” chi non sta in riga e che essa “soffoca il dibattito”[5] (p. 240).

Da parte mia non posso fare altro che ribadire la totale opposizione tra antisemitismo e antisionismo. Il sionismo è una fede, un’ideologia, che può essere accettata o respinta. Come ha affermato Walter Laqueur, uno degli storici ufficiali di questa ideologia, “il sionismo ha elaborato una ideologia ma le sue pretese «scientifiche» sono inevitabilmente poco conclusive. (…) Il successo del sionismo non prova necessariamente che esso è fondato su un’analisi esatta del «problema ebraico». Nel caso dei movimenti nazionali, i miti sono sempre motivi più potenti degli argomenti razionali. È troppo presto per dire se il sionismo è un successo o un fallimento”. [6]

Contrariamente a quanto si dice, il sionismo non è favorevole all’emancipazione degli ebrei, ancor meno è favorevole alla loro assimilazione in Occidente. L’emancipazione degli ebrei è, come abbiamo detto altrove, uno dei risultati della Rivoluzione francese. L’emancipazione innescò, quasi immediatamente, un processo di assimilazione che si andò realizzando concretamente con i matrimoni misti, con l’abbandono graduale della religione ebraica, della segregazione “culturale” del ghetto e con l’accettazione della cultura europea. Questo processo era inevitabile, infatti non si è potuto evitarlo ed è ancora in corso. Anzi è prevedibile che esso assumerà estensione e velocità e ciò malgrado il sionismo e l’Olocausto. Quest’ultimo ha segnato indubbiamente una battuta di arresto, ma solo temporanea, sebbene il sionismo e gli ideologi di Israele fanno di tutto per tenere la ferita aperta e riprodurre costantemente il trauma. Attraverso la politica della «memoria» e dell’«eccezionalità» del giudeicidio.

La distinzione tra emancipazione e assimilazione è indubbiamente facile da comprendere, ma i sionisti hanno preferito non fare distinzioni chiare tra i due concetti attribuendo ad entrambi una valenza negativa, distruttrice dell’identità ebraica. Essi hanno denigrato gli ebrei della Diaspora come gente che si incammina, se rifiuta il sionismo, su una via inevitabilmente pericolosa per l’incolumità fisica e degradante moralmente. Gli ebrei che la intraprendono sono considerati, nella letteratura sionista, come “un fenomeno indesiderabile e demoralizzante.”[7] Lo scrittore Maurice Samuel ha scritto che gli ebrei della diaspora sarebbero sempre stati dei “distruttori”, che nel suo linguaggio significava, degli sradicati, dei ribelli, dei renitenti alle regole della vita dei gentili: “Noi ebrei, noi i distruttori, rimarremo dei distruttori per sempre. Nulla che voi facciate darà soddisfazione ai nostri bisogni e alle nostre esigenze. Noi distruggeremo sempre perché noi abbiamo bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo divino, che non è nella vostra natura di poter costruire ... quelli tra di noi che non riescono a capire questa verità saranno sempre gli alleati delle vostre fazioni ribelli, fin quando non giungerà la disillusione, il destino maledetto che ci sparse in mezzo a voi ci ha assegnato questo sgradito ruolo.”[8] Solo il sionismo, secondo Samuel poteva ricostruire, altrove, in Palestina, un mondo tutto ebraico, come era il ghetto, un mondo che egli definisce “divino”, in contrapposizione evidentemente col mondo prosaico, privo di spiritualità dei gentili. Non è “nella natura” dei gentili costruire un mondo spirituale come quello ebraico.

Oggi tutti possono vedere questo mondo “divino” in Israele. Egli credeva che non fosse possibile conciliare gli ebrei con i gentili. Perché? Per una questione di razza? Per una pretesa irraggiungibile superiorità ebraica? Sempre nello stesso libro egli scriveva: “Gli ebrei e i gentili costituiscono due mondi, tra voi gentili e noi ebrei c’è un incolmabile abisso (…) Ci sono due forze vitali nel mondo: gli ebrei e i gentili (…) Non credo che questa differenza originaria tra ebrei e gentili sia conciliabile”.[9] C’è da chiedersi: in che cosa questo modo di pensare si differenzia dall’antisemitismo? Non è forse il rovescio sionista dell’odio degli antisemiti per gli ebrei? La stessa idea dell’inconciliabilità tra ebrei e gentili, la stessa arroganza, lo stesso sentimento di superiorità, questa volta ebraico, nei confronti dell’altro.

Anche Max Nordau nella relazione introduttiva al I Congresso sionista[10] criticò l’emancipazione degli ebrei affermando che essa fu soltanto “il risultato del metodo di pensiero geometrico del razionalismo francese del XVIII sec., (…) un'automatica applicazione del metodo razionalista”. L’emancipazione avvenne “non per un sentimento fraterno nei confronti degli ebrei, ma perché lo richiedeva la logica”, “solo per amor di principio”, fu soltanto una di quelle “creazioni puramente intellettuali nel mondo reale” che, secondo lui caratterizzano la Rivoluzione francese. Quando poi, dalla Francia i principi della Rivoluzione si estesero sul continente, avvenne che “in Europa gli ebrei furono emancipati non per una interiore necessità, ma per imitare una moda politica”. L’emancipazione ebraica sancita dalle costituzioni democratiche fu come “un pianoforte che non può mancare in un salotto, anche se nessun membro della famiglia sa suonarlo”.

La critica tocca qui non solo l’emancipazione, ritenuta solo formale e inutile, ma tutta la Rivoluzione francese produttrice di “creazioni puramente intellettuali”. Un bell’apprezzamento dell’evoluzione storica verso l’emancipazione e la democrazia, non c’è che dire. Meglio forse il sistema feudale?

Pare proprio di sì, almeno per quanto riguarda gli ebrei. Nello stesso discorso, Nordau esaltò le virtù del ghetto in contrapposizione alla società democratica e liberale occidentale. “L'emancipazione - egli affermò - ha cambiato completamente la natura dell'ebreo, e l'ha reso un altro essere”. Ma non in senso positivo, Nordau infatti afferma: “Poi giunse l'emancipazione.” E l’ebreo si accorse che fuori dal ghetto “avrebbe perso se stesso e si sarebbe distrutto”. Mentre dentro il ghetto gli ebrei “realizzavano uno sviluppo perfetto delle loro qualità specifiche”, “erano esseri umani in armonia”, fuori dal ghetto “la maggioranza degli ebrei” divenne “una razza di mendicanti proscritti”, una razza di “mostri nel corpo e nello spirito”. Mentre l’ebreo del ghetto “sentiva di appartenere a una razza a parte, che non aveva niente in comune con gli altri abitanti dello stesso paese”, “l'ebreo emancipato” divenne “insicuro nelle relazioni con i suoi simili, timido con gli estranei, sospettoso perfino verso i sentimenti segreti degli amici. Le sue migliori energie” si esaurivano “nella repressione o almeno nel difficile occultamento del suo vero carattere”. L’anima era “avvelenata dall'ostilità verso il sangue proprio e altrui”.

Un quadro nerissimo dell’emancipazione. Essa non avrebbe liberato gli ebrei ma li avrebbe distrutti. Non dignità umana avrebbe dato loro ma degradazione morale. Un bel quadretto, indubbiamente. Certo meglio il feudalesimo.

Infine venne l’ondata di antisemitismo e Nordau descrive il periodo in questo modo: “L'ebreo poteva ancora votare per eleggere i membri del parlamento, ma era escluso dai circoli e dagli incontri dei suoi connazionali cristiani. Poteva andare dove voleva, ma ovunque si imbatteva nell'insegna: «Vietato l'ingresso agli ebrei». Aveva ancora il diritto di compiere tutti i doveri di un cittadino, ma i diritti più nobili riconosciuti al talento e al successo gli erano assolutamente negati”. “Ha perso la casa del ghetto; ma la terra in cui è nato gli è negata in quanto patria. I suoi connazionali lo respingono quando desidera associarsi a loro. Gli manca la terra sotto i piedi e non ha una comunità a cui appartenga come membro a pieno diritto.”

È indubbio che l’ondata di antisemitismo che colpì l’Europa negli anni ’80 del secolo XIX fu un’epoca di vergogna per la civiltà, ma cosa ha in comune essa con i nostri giorni, in cui il presidente difende il sionismo? Forse che ai nostri giorni la separazione tra ebrei e gentili ha qualche ragione di esistere? Forse che gli ebrei devono rifugiarsi in Israele perché sono perseguitati? Il potere della lobby in America, la sua influenza sulla politica americana non sono la prova evidente che l’antisemitismo è morto e sepolto e semmai l’Occidente è mosso da un sentimento eccessivamente filo semita e eccessivamente, per dir poco, benevolo verso uno stato che ha collezionato il maggior numero di condanne ONU per il non rispetto delle sue risoluzioni e dei diritti umani?

Nell’intervista del presidente si può anche leggere un suo arbitrario e pericoloso collegamento tra sionismo e nostro Risorgimento. “Ed è un fatto che il movimento sionista si ispirò in non piccola parte al pensiero di Giuseppe Mazzini, a una visione universalista delle aspirazioni all'indipendenza nazionale dei nostri popoli, di tutti i popoli”.

Il movimento sionista si ispirò a Mazzini? A Mazzini si ispirò, o meglio disse di ispirarsi, un grande sionista, ma il presidente mi perdoni, si trattava di Wladimir Jabotinsky, il fondatore del movimento sionista revisionista, che generò le organizzazioni terroriste dell’Irgun e della Banda Stern.

Ricordiamo al presidente alcuni fatti. Fatti veri però, perché quello che egli cita come un “fatto” (“che il movimento sionista si ispirò in non piccola parte al pensiero di Giuseppe Mazzini, a una visione universalista delle aspirazioni all'indipendenza nazionale dei nostri popoli, di tutti i popoli”) non è un fatto, come cercheremo di dimostrare, ma solo l’opinione del Sig. Giorgio Napolitano, presidente attuale della Repubblica Italiana.

I fatti dunque:

Jabotinsky si sforzò per anni di entrare in contatto con Mussolini e in generale esaltò il fascismo in numerosi suoi articoli.

In una lettera a Mussolini nel 1922, prima della Marcia su Roma, egli gli dichiara la sua ammirazione e dopo averlo messo in guardia dal pericolo che l’Italia adottasse una posizione favorevole al «panarabismo», rivolge una avance chiaramente strumentale. Propone “un’azione fra gli ebrei del mediterraneo per ristabilire il dominio della lingua Italiana”

Nel 1932 Jabotinsky stabilisce contatti concreti con il Ministero degli esteri attraverso il sionista revisionista italiano Prof. Sciaky, proponendo una collaborazione di tipo militare, cioè caldeggiando il progetto di una Scuola Centrale di Istruttori per la preparazione militare della gioventù ebraica.

Nel 1934 questi sforzi portano alla fondazione della Scuola Marittima di Civitavecchia, a disposizione dei giovani del Betar. Molti dei giovani formati a Civitavecchia emigreranno in seguito clandestinamente in Palestina a rafforzare i ranghi dell’Irgun e costituiranno poi il primo nucleo della marina militare di Israele.

Lunga e costante insistenza, dal 1932 in poi per la fondazione della precedentemente suggerita Scuola Centrale di Istruttori per la preparazione militare della gioventù ebraica, secondo passo dopo scuola marittima. Il progetto doveva formare ufficiali dell’esercito di terra e piloti dell’aviazione.

1935-36 sviluppo intenso dei rapporti tra sionisti-revisionisti e fascismo, soprattutto dopo la rottura dei revisionisti con l’Agenzia ebraica e fondazione di una loro organizzazione internazionale.

I rapporti si conclusero nel 1938.

E veniamo ora all’ideologia politica di Jabotinsky.

Nella citata lettera a Mussolini, egli scrive:

“Signor Mussolini,
mi pare che Ella non conosca l’ebreo. Forse mi sbaglio, ma mi pare ch’Ella s’immagini, quando pensa agli ebrei, un essere docile, untuoso, furbo, sempre sulla difensiva
[ma non è questo, più o meno, il ritratto che ne aveva fatto Nordau? nda] sempre proclamatore della propria lealtà all’Italia, all’ideale, ecc. ecc. Sono queste favole del secolo scorso, ed anche allora erano favole. Se vuol conoscere il grado di vitalità nostro, studi i suoi fascisti, soltanto vi aggiunga un po’ di tragedia, un po’ più di tenacia – forse anche più d’esperienza”.

Per Jabotinsky dunque l’ebreo sarebbe ancora più “fascista” diciamo, dei fascisti italiani. Fedele non all’Italia ma alla sua patria (riecheggia qui l’accusa antisemita che l’ebreo è fedele solo ai suoi; ritroviamo pure il solito disprezzo per l’ebreo assimilazionista, fedele alla patria in cui è nato). Potremmo citare tanti brani dagli scritti di Jabotinsky ma lo studioso francese Alain Dieckhoff così riassume, magistralmente, l’ideologia politica, se non fascista, comunque assai vicina al fascismo del sionista che si sarebbe “ispirato” a Mazzini. Dieckhoff scrive:

“Come Machiavelli e Hobbes, egli traccia i contorni di una politica pura, che rifiuta di entrare nel dominio, fondamentalmente estraneo alla politica, dell’etica. Questa non ha vocazione a guidare l’azione politica che risponde ad altro obiettivo: assicurare la sopravvivenza, la prosperità e la sicurezza del corpo politico, compreso attraverso mezzi moralmente discutibili (la guerra). La politica non ha niente a che vedere con il bene e il male, ma con la necessità e la contingenza”[11].

E questa sarebbe l’ispirazione di Mazzini? Siamo su due mondi diversi. I veri ispiratori di Jabotinsky son ben altri. Sorvoliamo su Machiavelli e Hobbes; quando Jabotinsky utilizzava il loro pensiero lo distorceva, trascurandone alcuni aspetti e calcandone altri. Hobbes per esempio, riteneva, è vero, che gli uomini abbiano un’inclinazione naturale a farsi del male, ma per rimediare a questo, il filosofo inglese proponeva un potere sovrano che sottomettesse tutta la comunità politica ad una legge comune. Quale legge comune proponeva Jabotinsky? Nessuna! E se ne vedono i risultati nella politica di Israele oggi: la legge comune per impedire che si realizzino nella comunità politica le tendenze naturali degli uomini (e delle nazioni) a farsi del male è quella dell’ONU. Sappiamo come Israele rispetti le risoluzioni dell’ONU.

Più di Machiavelli e Hobbes, dovremmo cercare gli ispiratori di Jabotinsky (e io direi, non solo di lui ma di gran parte dei politici israeliani, da Ben Gurion a Golda Meir, da Begin a Itzak Shamir, da Sharon a Barak, da Netaniahu a Peres, da Olmert alla Tzipi Livni) in pensatori come Moses Hess, Ludwig Gumplowitz, nei sostenitori del darwinismo sociale fin de siècle, come Walter Bagehot.

La pratica politica di Jabotinsky e dei suoi seguaci è stata coerente con la sua ideologia. La sua lotta politica ha esaltato la violenza politica, l’eliminazione fisica degli avversari e dei politici. Fu la sua organizzazione che assassinò il sionista laburista Chaim Arlosoroff, nel 1948. Furono l’Irgun e la banda Stern che nel 1944 assassinarono Lord Moyne, il responsabile britannico in Medio Oriente e in seguito, nel 1948, Folke Bernadotte, il mediatore Onu e il suo assistente francese. Furono sempre i seguaci di Jabotinsky che fecero saltare in aria l’Hotel King David a Gerusalemme uccidendo più di 80 persone. Vogliamo anche accennare alle centinaia di attentati terroristici anti palestinesi, tutti contro la popolazione civile inerme, negli anni precedenti la nascita di Israele e durante la fase della pulizia etnica. Potremmo anche ricordare al presidente Napolitano che i seguaci di Jabotinsky proposero, nel 1941, un patto di alleanza con i nazisti per combattere insieme l’impero britannico. Il patto, il cui testo integrale fu presentato ai nazisti attraverso l’ambasciata del governo di Vichy a Beirut, porta la seguente intestazione: “Proposta dell’Irgun Zvai Leumi per la soluzione della questione ebraica in Europa e partecipazione attiva dell’Irgun Zvai Leumi alla guerra a fianco della Germania”. La proposta non andò mai in porto ma è significativo che una simile cosa sia mai esistita. Anche questo può essere ascritto all’”ispirazione” di Mazzini?

Ricordiamo al presidente che se legame c’è tra gli ebrei e Mazzini, questo va proprio contro i concetti espressi da lui e il suo sostegno al sionismo.

Nella prima metà dell’800 gli ebrei italiani parteciparono alla lotta per l’indipendenza dell’Italia, nei ranghi soprattutto, della Giovine Italia mazziniana. Ma questo significa che erano patrioti, ritenevano che l’Italia, non la Palestina fosse la loro patria e per essa alcuni versarono il loro sangue. Non erano quindi sionisti, ma assimilazionisti, come Daniele Manin. A questo riguardo scrive Henry Laurens:
“Gli ebrei italiani partecipa[ro]no attivamente al movimento nazionale incarnato dai carbonari, la Giovine Italia di Mazzini. La causa dell’emancipazione è [fu] così strettamente legata a quella dell’unità italiana” [12].

Chi, come il presidente, associa il sionismo con Mazzini e il Risorgimento lo fa sulla base di una pretesa similitudine tra il nazionalismo italiano dell’800 e il nazionalismo ebraico rappresentato dal sionismo. Per noi invece l’unico nazionalismo ebraico lecito e quello degli ebrei che, come i mazziniani della Giovine Italia, si battevano per la libertà e la rinascita della loro vera patria, quella in cui erano nati. Se solo il sionismo è nazionalismo ebraico, quello dei patrioti ebrei italiani mazziniani cosa era? Tradimento? Follia? Smarrimento dell’obiettivo nazionale e della ragione politica? O forse quegli ebrei non erano ebrei?

C’è comunque una fondamentale differenza tra sionismo e Risorgimento. Il Risorgimento è la lotta di un popolo che è oppresso, sulla sua terra, da una potenza straniera occupante e imperialista. Si trattava di cacciare questa potenza straniera. Il sionismo è un “nazionalismo” molto singolare. I sionisti non vivevano sulla terra palestinese, erano loro gli invasori, i colonizzatori, come i bianchi in Sud Africa o in Rodesia agli inizi della colonizzazione europea in Africa. I sionisti occupavano la Palestina con l’aiuto di una potenza imperialista straniera, l’Impero britannico. Non lottavano contro di esso ma insieme ad esso. Chi è stato cacciato dalla Palestina, con la complicità dell’imperialismo, è solo il popolo palestinese. E mentre la nascita di un’Italia libera e indipendente non si è ottenuta a scapito di nessun popolo, la nascita dello Stato ebraico ha rappresentato la catastrofe del popolo palestinese, la sua Nabka. Non si può dire che questa sia una differenza da poco. È vergognoso attribuire all’”ispirazione” di Mazzini una catastrofe storica, la miseria di un popolo innocente, una scelta politica dei sionisti che ha infiammato da 60 anni il Medio Oriente e che continuerà ad avere conseguenze e ripercussioni per chissà quanto tempo. È questa la “visione universalista” del sionismo, “dei nostri popoli, di tutti i popoli” come dice il presidente? La “visione universalista” dei sionisti ha prodotto uno Stato per soli ebrei, dove i non ebrei sono cittadini di seconda categoria. E dov’è “la visione universalista dell’indipendenza nazionale di tutti i popoli”? Israele ha negato ai palestinesi la loro aspirazione all’indipendenza nazionale, e sulla loro stessa terra.

Sappiamo però che il presidente è un politico che opera per la pace. Egli infatti continua a proclamare la necessità della nascita di uno Stato palestinese, senza accorgersi però che Israele questo Stato non lo vuole e sta facendo di tutto affinché, se esso nascerà un giorno, nasca come una serie di piccoli bantustans circondati da muri “di sicurezza”, reticolati di filo spinato e torri di guardia. E cosa propone il presidente per i milioni di profughi palestinesi sparsi per tutta la regione mediorientale dopo la cacciata violenta dalle loro case nel 1948? Una vera soluzione mazziniana al problema israeliano, perché Israele è il problema, si trova solo nella proposta di aiutare ebrei e palestinesi a costituire uno Stato unico e democratico per tutti i suoi cittadini, su tutta la Palestina storica. Contemporaneamente dovrebbe essere finalmente realizzato il diritto al ritorno dei profughi del 1948, sancito dalla risoluzione 194 dell’ONU.

È un’utopia, ma un’utopia buona; proprio il contrario dell’utopia negativa del sionismo, cioè una distopia. La utopie e le distopie si realizzano talvolta. Il sionismo ha avuto il suo successo temporaneo, certo ma ricordiamo l’avvertimento di Walter Laqueur: “È troppo presto per dire se il sionismo è un successo o un fallimento”. Oggi sembra che questa ideologia e tutto l’esperimento dello Stato ebraico su terra araba si stia avviando al fallimento e al tramonto. Nessuno degli obiettivi iniziali dei sionisti è stato realizzato. Essi non sono riusciti a impossessarsi della Palestina nella sua interezza; non sono riusciti a far svanire il popolo palestinese, a farlo scomparire; non sono riusciti a integrarsi pacificamente nella regione e continuano a rimanerci solo grazie all’appoggio della superpotenza americana, a quella di uomini come il presidente e alla minaccia nucleare che brandiscono contro i paesi arabi e musulmani; non sono riusciti a fare del loro Stato un rifugio sicuro, e non c’è oggi posto più pericoloso al mondo per un ebreo di Israele; non sono riusciti a portare tutti gli ebrei, né la maggioranza di essi nello Stato ebraico, sembra anzi che oggi la tendenza all’emigrazione da Israele stia diventando più forte di quella all’immigrazione; non sono riusciti a unificare, in Israele, le varie componenti della società ebraica, e così askenaziti, sefarditi, ebrei russi, ortodossi, laici vivono in un crescente conflitto.

Perché allora dovremmo sostenere il “diritto di esistere” di Israele? Non saranno forse le contraddizioni interne al sionismo che porteranno alla sua morte? Perché dovremmo sostenere il sionismo, dopo quanto abbiamo detto? E dopo quanto abbiamo detto noi saremmo antisemiti?

NOTE


[1] "Lettera aperta al Presidente Napolitano"

[2] Chaim Weizmann, futuro primo presidente dello stato di Israele, nel discorso al Congresso Sionista del 1937 nel quale riporta le sue risposte davanti alla Commissione Peel a London, luglio 1937. Citato in 'Yahya', p. 55.

[3] Vedi il libro di A. Forster e B. Epstein (entrambi dell’ADL), "The New Antisemitism", Vedi Nathan Sharansky e tanti, tanti altri.

[4] Vedi Mearsheimer e Walt, "La Israel Lobby", Mondadori, Milano, 2007, p. 232.

[5] Mearsheimer e Walt, "La Israel Lobby", Mondadori, Milano, 2007, p. 234, 240.

[6] Walter Laqueur, "Histoire du Sionisme," Vol II, Gallimard, 1994, pp. 847-48.

[7] Chaim Weizmann, futuro presidente dell'Organizzazione sionista mondiale e futuro presidente dello Stato di Israele, “The letters and papers of Chaim Weizman”, Letters, 1914, Vol. 8, p. 81.

[8] Maurice Samuel, "You Gentiles", 1924, p. 155.

[9] Maurice Samuel, "You Gentiles", 1924, p. 9.

[10] Recentemente pubblicato sul sito di Arianna Editrice: www.ariannaeditrice.it"articolo.php?id_articolo=17338 .

[11] A. Dieckhoff, "L’Invention d’une nation", Gallimard, 1993, p. 252.

[12] H. Laurens, La question de Palestine, vol I, p. 35.

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