La crisi

Raniero La Valle

Articolo della rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca@cittadella.org )
Fonte: Lista Peacelink Pace


 

Nel dicembre scorso, dopo una inondazione che aveva devastato lo Stato messicano del Tabasco, colpendo un milione di persone e travolgendo 80.000 abitazioni, il comandante zapatista Marcos disse una verità su quanto era successo. In un discorso tenuto a San Cristobal de Las Casas, nel Chiapas, pubblicato ora dalla bella rivista friulana “L’ippogrifo”, Marcos spiegò che la catastrofe non era affatto avvenuta per cause naturali, come sosteneva il presidente Calderon che ne attribuiva la responsabilità al cambiamento climatico inteso come “una tragedia quasi divina”, ma era il frutto di precise politiche pubbliche dettate dall’imperativo economico di “convertire tutto in  merce e questa in profitto”.

Se questo si può dire credibilmente a proposito di inondazioni e altre “catastrofi naturali”, tanto più si può dire a proposito del collasso dell’intero edificio economico e creditizio costruito dalle nostre classi dirigenti negli ultimi decenni. Sono state loro a buttare a mare Bretton Woods e tutti gli strumenti di salvaguardia apprestati nel dopoguerra, per imporre la “deregulation”, l’ultima ideologia novecentesca che ha scacciato e soppiantato le precedenti ideologie politiche; sono loro che hanno abbandonato a se stessa l’economia reale – con cui la gente mangia e vive – per celebrare i fasti dell’economia monetaria, per la quale tre persone da sole possono godere del reddito di tutta l’Africa; sono state loro, alla testa del Fondo Monetario Internazionale, che hanno imposto ai Paesi poveri i “piani di aggiustamento strutturale”, una sorta di ascesi economica a compenso degli stravizi dei Paesi ricchi; sono state loro che hanno distrutto il diritto e la politica, per mettere tutto nelle mani invisibili del Mercato, mani che afferrano ma non edificano; sono loro che hanno costretto il mondo intero – amici e nemici – ad accollarsi l’enorme debito degli Stati Uniti e a finanziarne perfino le guerre; sono loro che hanno stabilito parametri, governato e sostituito monete, evangelizzato la competizione; sono loro che hanno privatizzato, liberalizzato, detassato, decurtato i redditi da lavoro, diffamato fisco e intervento pubblico e infine trasformato ogni cosa in azienda – scuole, ospedali e aeroporti – per portarne poi i libri in tribunale. E sono loro che, per non farsi invidiare le loro ricchezze, hanno rivolto alle masse una parola d’ordine che era un insulto: “arricchitevi tutti”; una parola nata all’inizio come rivoluzionaria, e diventata poi l’alibi del mercato selvaggio.

È come conclusione di tutto ciò che, come dice ora lo stesso Fondo Monetario Internazionale, l’intero sistema mondiale è “sull’orlo del collasso”, ed è stato fermato proprio sul baratro con i nostri soldi, con i soldi che non c’erano per i maestri, ma che senza limiti sono stati dati alle banche; e intanto il Presidente della Banca Mondiale annuncia che quest’anno ci saranno cento milioni di nuovi poveri. Il Dio Mammona ci ha tradito.

Questo significa che l’intera “governance” del mondo, a partire almeno dalla rimozione del muro di Berlino dell’89, ha fallito, trascinando nella crisi l’intera ideologia dell’Occidente, il suo “nomos”; che la grande pensata di risolvere tutto di nuovo con la guerra era un delitto; e che tutta la sicurezza ostentata dal potere galleggiava su una bolla. Ma se a portarne la responsabilità sono le classi dirigenti, politiche ed economiche, queste classi dirigenti vanno cambiate. Certo non subito, e non tutte insieme, perché altre non ce ne sono, non sono pronte: tagliare la testa degli uni, non significa che altri ce l’abbiano sulle spalle.

Ma sicuramente il vero compito che la crisi ci pone davanti, è di preparare nuove leve di uomini e donne capaci di ripristinare la politica come arte del vivere insieme, il diritto come essere per gli altri, la giustizia come dare a ciascuno ciò che non è già suo, se si tratta del pane, del lavoro, della vita, l’economia come scienza della comunione e della giusta attribuzione dei beni, per tenere in ordine la casa e la terra. Queste nuove classi dirigenti dovranno essere informate dei fatti e dotate di tutte le competenze e la sapienza necessarie; esse dovranno essere preparate non nei consigli di amministrazione e nelle accademie, ma nel cuore vivo della società, nell’esercizio della vita quotidiana e comune, nel lavoro, nelle comunità e nelle chiese, e nella scuola di tutti, con dentro gli stranieri e i disabili, i borghesi e i proletari, i capaci e gli immeritevoli. Non la scuola della Gelmini.

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