Una "rivoluzione arancione" anche per la Bielorussia?

Mauro Gemma

Fonte: L'Ernesto, novembre-dicembre 2005


Con l'avvicinarsi delle elezioni presidenziali in Bielorussia (1), previste per la primavera del 2006, stiamo assistendo ad un impressionante crescendo delle pressioni esercitate da parte di numerosi paesi e istituzioni internazionali nei confronti dell'unico paese europeo che continua ad essere incluso nella "lista nera" di quelli che l'amministrazione USA ha qualificato come "paesi canaglia".

L'ultima iniziativa in questo senso risale alla fine di settembre 2005. Ed ha il sapore di un vero e proprio ultimatum che dimostra fino a che punto si sono spinte le ingerenze esterne, provocate dalla ferma determinazione dell'imperialismo (manifestata da Bush in persona) a creare a Minsk una situazione simile a quella che ha portato tra il 2004 e il 2005 alla vittoria della "rivoluzione arancione" nella confinante Ucraina.

Tutto, nella più recente occasione, è sembrato essere coordinato dalla medesima "cabina di regia". A Vilnius, in Lituania – considerata ormai, anche in virtù della scarsa considerazione delle regole democratiche da parte della sua leadership, concretizzatasi in violente persecuzioni anticomuniste, uno dei più zelanti attori dell'Alleanza Atlantica -, alla presenza di importanti personalità della Nato, si riunivano i raggruppamenti della cosiddetta "opposizione democratica" bielorussa per discutere molto concretamente e, peraltro, senza mascheramenti, dell'individuazione delle forme di lotta ("sia legali che illegali", è stato ineffabilmente riconosciuto da coloro che ritengono ormai unica norma di diritto internazionale la "legge della jungla", imposta al pianeta dall'Amministrazione USA) in grado di portare al rovesciamento del quadro istituzionale nel loro paese. Esattamente nello stesso momento, il Parlamento europeo si scagliava – come sempre in nome della difesa dei "diritti umani" e in sintonia con analoga presa di posizione della Commissione Europea, assunta il mese precedente - contro le autorità di Minsk, con toni talmente duri da provocare una secca accusa di ingerenza da parte non solo del presidente bielorusso in persona, ma anche dello stesso ministero degli esteri della Russia (2).

E questo non rappresenta altro che l'ultimo episodio di una campagna che, a più riprese, da quando, appena eletto nel 1994, il nuovo presidente della "Repubblica di Belarus" Aleksandr Lukashenko diede l'avvio ad una politica che sarebbe presto entrata in rotta di collisione con gli interessi della NATO nella regione, è stata sviluppata attraverso minacce e sanzioni decretate all'unisono da USA e alleati europei, e con almeno due tentativi di rovesciamento delle attuali autorità del paese (3). Tutto ciò è avvenuto con il sostegno esplicito (con lo stanziamento di centinaia di milioni di dollari da parte di autorità e istituzioni nordamericane, in particolare la Fondazione Soros) ad un'opposizione sparuta e inetta, priva di qualsiasi sostegno di massa, infiltrata da elementi fascisti (gli eredi di quel collaborazionismo filo-nazista, assolutamente privi di qualsiasi base di massa in una repubblica ex sovietica, che ha pagato con la vita di un quarto della sua popolazione l'eroica resistenza all'aggressione di Hitler), chiassosa e violenta, e addirittura sospettata dell'attuazione di attentati terroristici avvenuti negli ultimi mesi in alcune località del paese.

Non si può certo negare che le autorità bielorusse abbiano utilizzato a volte metodi poco "ortodossi" e deprecabili nei confronti di alcuni esponenti dell'opposizione e che le strutture dell'apparato statale siano attualmente tenute sotto un rigido controllo. O che siano state messe in atto misure pesanti di ritorsione (anch'esse deprecabili) nei confronti di giornalisti e osservatori stranieri (in particolare polacchi e statunitensi, ma anche esponenti della destra liberale russa, scoperti a trasferire finanziamenti ai loro amici bielorussi), accusati di interferire nelle questioni interne del paese. Quanto al sistema informativo, va rilevato tuttavia che, accanto a media statali largamente controllati, è consentita la libera circolazione degli organi di opposizione e la larga diffusione di giornali ed emittenti russi, nella gran parte ostili al regime bielorusso.

Per quanto riguarda poi le denunce di persecuzioni e persino di sparizioni di oppositori, le autorità di Minsk hanno sempre seccamente smentito, confortate in questo dalla testimonianza di quelle organizzazioni umanitarie occidentali che non hanno l'abitudine di ricorrere al finanziamento delle amministrazioni imperialiste (4).

Lo studioso francese Bruno Drweski, uno dei più autorevoli osservatori europei della Bielorussia (5), che non può essere certo accusato di aver risparmiato le sue critiche ai metodi utilizzati dalle autorità bielorusse, ha osservato a riguardo che "tali metodi "duri" non differiscono molto da quelli applicati nella maggioranza degli Stati post-sovietici o in altre parti del mondo e che le "rivoluzioni teledirette attraverso Interflora" non hanno cambiato molto in questo senso, come dimostra la Georgia" e che "il potere personale del presidente Lukashenko si appoggia anch'esso su una costituzione comparabile a quella in vigore a Mosca ed in molti altri Stati considerati pienamente democratici secondo i criteri che predominano oggi nel mondo"(6).

Le ragioni di tanto accanimento occidentale nei confronti delle attuali autorità bielorusse e, in particolare, di Aleksandr Lukashenko sembrano in verità essere ben altre ed avere ben poco a che vedere con la "preoccupazione per i diritti umani".

E per comprenderlo occorre sicuramente sgombrare il campo da tutte le letture propagandistiche, sia da quelle "demonizzanti", assolutamente prevalenti in Occidente (anche nella sinistra, sia moderata che "alternativa"), che da quelle, a nostro avviso francamente "mitiche", che caratterizzano alcuni settori del movimento comunista russo, per i quali la Bielorussia si presenta come una sorta di ultimo "avamposto" del socialismo.

Forse la definizione più appropriata dell'attuale esperimento bielorusso è stata fornita proprio da Drweski, quando sostiene che la longevità del governo di Lukashenko, al potere da oltre 11 anni, può essere sostanzialmente spiegata in quanto "frutto di un compromesso di fatto tra una società poco nazionalista e generalmente diffidente nei confronti del modello liberale e una nomenklatura legata a settori industriali che necessitano generalmente della partecipazione dello Stato (industria spaziale, militare, di trasformazione)"(7).

Sono le specifiche modalità, attraverso cui è avvenuta la "costruzione socialista" nella Bielorussia sovietica che permetterebbero di capire almeno in parte le ragioni dell'attuale consenso attorno al "fenomeno Lukashenko".

E' ancora Drweski a descrivere efficacemente il quadro storico che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo dell'esperienza sovietica nella piccola repubblica, essenziale per comprendere almeno in parte l'attuale situazione:

"Storicamente, la Bielorussia ha subito le conseguenze della sua situazione di passaggio aperto a Ovest verso la Polonia e l'Europa occidentale, e ad Est in direzione della Russia e della massa continentale eurasiatica. Le elites locali erano tradizionalmente polacche o russe. La società bielorussa, quasi totalmente contadina fino al 1920, era stata attirata dalla cultura russa in virtù dell'emergere al suo interno delle componenti populiste più rivoluzionarie. Le rivoluzioni russe del 1905, del febbraio 1917 e dell'ottobre 1917 non avevano incontrato un'eco particolare, sebbene contemporaneamente emergesse una corrente nazionalista.

Dopo un breve periodo di autonomia politica, negli anni '20, il potere staliniano eliminò la maggioranza delle elites letterarie della repubblica, industrializzò in maniera forzosa il paese, favorendo l'ascesa sociale di massa di quadri di origine contadina.

I massacri nazisti provocarono immediatamente un possente movimento di resistenza che ha contribuito a radicare in questa "repubblica di partigiani" un patriottismo con basi territoriali e "multinazionali".

I veterani, ricollocati nell'industria militare e nell'esercito alla fine della guerra, hanno costituito fino ai giorni nostri, un ambiente sociale dotato di grande influenza poiché hanno contribuito a legittimare il poderoso settore militare-industriale"(8).

E' proprio a partire dal secondo dopoguerra che la Bielorussia ha conosciuto uno sviluppo impetuoso che le ha addirittura permesso di sopravanzare gli standard della stessa Russia, e di trasformarsi in uno dei poli industriali di avanguardia di tutta l'Unione Sovietica.

Il dispiegarsi, a partire dal 1985, della "perestrojka" (che è stata segnata in Bielorussia dai tragici effetti della catastrofe nucleare di Chernobil, in Ucraina a pochi chilometri dal confine), e, dopo il fallimento dell'esperimento gorbacioviano, nell'agosto 1991, l'affermazione di forze nazionaliste tanto aggressive, quanto prive di un reale consenso di massa, hanno diffuso nel paese la paura della perdita definitiva di quei vincoli economici tradizionali con lo spazio sovietico – che in quel momento veniva scientemente spinto al dissolvimento dalla dissennata politica delle elites "compradore" giunte al potere in Russia, sotto la guida di Boris Eltsin - considerati vitali dalla maggioranza della società locale.

L'adesione acritica delle elites nazionaliste, impadronitesi del potere, all'ideologia neoliberale, e, allo stesso tempo, l'avvio di una politica estera improntata alla totale subalternità alle strategie di aggressiva penetrazione imperialista nel nuovo immenso mercato emerso dalle macerie dell'URSS, hanno provocato, fin dall'inizio, una resistenza sociale al "processo di riforme", sconosciuta allora nelle altre repubbliche ex sovietiche, a cominciare dalla Russia, dove neppure il Partito Comunista, messo fuorilegge senza alcuna resistenza e apparentemente in preda alla paralisi e allo sbando, sembrava in grado di prospettare alcuna alternativa alle ricette dei locali "Chicago boys".

A limitare il consenso attorno alle forze di governo, raccolte attorno al movimento separatista "Adradzennie" (Rinascita) e capeggiate dallo speaker del locale Soviet Supremo Stanislau Suskievic, contribuiva anche il loro nazionalismo esasperato, caratterizzato da un richiamo astratto ad un'identità della "Belarus", assolutamente estraneo alla stragrande maggioranza dei cittadini bielorussi, agitato fondamentalmente da movimenti dell'emigrazione antisovietica e da gruppi eredi del collaborazionismo filo-nazista, e accompagnato da un programma di violenta "derussificazione" di una società, in cui ciò avrebbe significato danneggiare quasi la metà dei nuclei famigliari. Questa nuova artificiosa "ideologia di Stato" è apparsa così improponibile per la stragrande maggioranza dei bielorussi e continua ad esserlo tuttora, nonostante tutti gli sforzi profusi dall'opposizione per tentare di convincere del contrario i propri protettori occidentali.

E' in questo contesto che ha potuto affermarsi una figura come quella di Aleksandr Lukashenko.

Lukashenko, tra i pochi coraggiosi parlamentari che, nel dicembre 1991, si erano pronunciati contro la dissoluzione dell'URSS, e noto per il suo rigore nella lotta contro la corruzione dilagante con l'avvento del nuovo regime, nelle elezioni presidenziali del 1994, sbaragliava, ottenendo l'81,7% dei voti, il suo avversario, il primo ministro Viaceslau Kiebic.

Il nuovo presidente indicava da subito quello che sarebbe stato l'obiettivo strategico di tutta la sua azione, da lui perseguito con ostinata coerenza: l'avvio del processo di ricomposizione dell'unità politica ed economica almeno delle repubbliche europee dell'ex URSS, a cominciare dalla Russia (9).

Nello stesso tempo, Lukashenko non si limitava a pronunciarsi apertamente contro il processo di allargamento della NATO ad Est, allora in pieno dispiegamento, ma denunciava il carattere aggressivo di tale alleanza, tutti i suoi tentativi di prevaricare la volontà dei popoli e degli stati che non intendono assoggettarsi al "nuovo ordine mondiale" e la sua intenzione di attentare all'integrità territoriale non solo del suo paese, ma della stessa Federazione Russa.

Nel 1995 e 1996, un vero e proprio plebiscito ha ratificato alcuni quesiti referendari da lui proposti, nei quali venivano fissati i capisaldi programmatici della nuova amministrazione.

L'80% dei bielorussi si pronunciava allora positivamente sulle richieste di unione economica con la Russia, di ripristino della simbologia sovietica, di adozione del russo quale seconda lingua ufficiale.

Lukashenko è stato rieletto alla presidenza nel 2001 e, probabilmente (ovviamente, se non saranno esercitate, come è invece prevedibile, massicce pressioni dall'esterno), verrà agevolmente riconfermato per quel terzo mandato, a cui oggi può aspirare dopo l'approvazione popolare della sua ricandidatura, ottenuta in un apposito referendum svoltosi nel 2004.

Fin dall'inizio del suo mandato, pur non interrompendo i processi di privatizzazione, Lukashenko, che può fare affidamento su un capillare apparato amministrativo di decine di migliaia di funzionari (40.000 a livello statale e 80.000 nelle amministrazioni locali), si è sforzato di mantenere sotto il controllo dello Stato le risorse strategiche ereditate dall'URSS, cercando allo stesso tempo, in un primo momento, di ripristinare e, in seguito, di rafforzare gli storici legami con il mercato dei paesi eredi dell'Unione Sovietica, tradizionale sbocco delle produzioni bielorusse.

Tale politica (che ha, ovviamente, sempre visto il presidente bielorusso attivissimo nella promozione di progetti di collaborazione economica nell'ambito della Comunità degli Stati Indipendenti) ha permesso, nell'ultimo scorcio dello scorso secolo, di contenere i costi sociali derivanti dal crollo economico seguito all'applicazione delle ricette di "liberalizzazione" e "privatizzazione" applicate nel resto dello spazio post-sovietico, e in particolare nelle vicine Russia e Ucraina.

Aleksey Prigarin, noto intellettuale marxista "critico" russo (10), nell'invitare le sinistre russe a difendere l'esperimento bielorusso "dagli attacchi dei sostenitori dell'oligarchia", ha così provato a formulare una definizione di questo esperimento: "Con Aleksandr Lukashenko in Bielorussia si è affermato il capitalismo di stato che, indubbiamente, è meglio del capitalismo oligarchico che ha prevalso nella maggioranza delle ex repubbliche sovietiche (…) Nonostante tutte le insufficienze del capitalismo di stato come sistema sociale, è comunque indispensabile considerare che esso permette di assicurare ai cittadini solide garanzie sociali e livelli di occupazione stabile. La Bielorussia, unica tra le ex repubbliche sovietiche, si inserisce tra gli stati altamente sviluppati secondo le valutazioni delle commissioni dell'ONU che si occupano degli indici dello sviluppo umano.

(...) Tale qualità della vita rappresenta un'indubbia conquista della dirigenza bielorussa che, come è noto, non può contare su significative riserve di minerali utili, ma solo sullo sviluppo dell'agricoltura e della produzione industriale.

(…) Naturalmente, la politica condotta da Lukashenko talvolta provoca critiche non prive di fondamento anche da parte delle sinistre…In Bielorussia effettivamente si è formata una società, in cui i principali strumenti di informazione e le istituzioni politiche sono controllati dalla burocrazia dominante. Tale sistema è tipico del capitalismo di stato. Ma, allo stesso tempo, non bisogna mai dimenticare che un indebolimento del controllo burocratico, nelle attuali condizioni, può solo provocare la trasformazione del capitalismo di stato in capitalismo oligarchico.

In ultima analisi, nello spazio post-sovietico, il capitalismo di stato rappresenta oggi l'unica alternativa concretamente esistente al capitalismo oligarchico. Per questo è interesse delle sinistre difendere il capitalismo di stato dagli attacchi dei sostenitori dell'oligarchia, nello stesso tempo in cui operano per preparare la coscienza sociale all'accettazione di un'alternativa socialista" (11).

Anche gli osservatori più ostili all'esperienza bielorussa (e basta scorrere la stessa stampa "liberale" di Mosca) sono costretti a riconoscere che la Bielorussia non ha mai conosciuto gli stessi livelli di degradazione dei servizi sociali, sanitari, educativi, di previdenza raggiunti nei paesi emersi dallo sfascio del "sistema socialista" in URSS e nell'est europeo.

Del resto, della devastazione prodotta dal modello adottato dai paesi ex sovietici vicini ed anche dei drammatici costi sociali dell'esperimento attuato nella confinante Polonia, è cosciente la grande maggioranza della popolazione bielorussa, in misura ben più rilevante di quanto siamo indotti a credere in Europa occidentale. E' fuori di dubbio che anche questo fattore può spiegare la relativa facilità con cui il regime di Minsk riesce a far fronte alla massiccia pressione propagandistica che viene esercitata dall'Occidente.

Ancora oggi, pur in un quadro di ripresa dell'economia del grande vicino russo, parzialmente risollevatosi dall' "abisso" eltsiniano e che può contare sulla felice congiuntura di un mercato energetico tornato in larga parte sotto controllo statale, la Bielorussia mostra risultati economici di tutto rispetto e una sostanziale tenuta dello "stato sociale".

Il già citato Prigarin, nell'analizzare le statistiche fornite dagli stessi organismi dell'ONU, afferma che la stessa Russia "stando ai risultati del 2004, segue la Bielorussia di otto posizioni, pur trovandosi in testa al gruppo dei paesi mediamente sviluppati" (12).

Tali dati sono ben conosciuti nei paesi dell'ex URSS e non mancano di suscitare le simpatie di parte considerevole della loro opinione pubblica. Ad esempio, un sondaggio, effettuato ai primi di novembre 2005 da un autorevole istituto demoscopico russo (l' "Istituto nazionale di inchieste regionali e tecnologie politiche") rilevava che, tra i cittadini della Federazione Russa, Lukashenko è attualmente di gran lunga il più popolare tra i leader dei paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti (quasi il 60% delle preferenze contro il 20% di Juschenko). Del presidente bielorusso verrebbero apprezzati proprio lo spirito di indipendenza nei confronti delle pressioni esterne, la coerenza con cui si batte per i processi di integrazione nello spazio post-sovietico e la cura con cui ha inteso preservare il sistema di garanzie sociali, ereditato dal passato sovietico.

Naturalmente le linee di politica estera della Bielorussia e le sue relazioni commerciali con il resto del mondo sono apparse pienamente coerenti con le scelte sociali ed economiche della politica interna. Anche questo contribuisce a spiegare le ragioni della dura ostilità occidentale. In un continente europeo, ormai integrato nella NATO e soggetto agli obblighi derivanti dall'adesione al sistema di alleanze dell'imperialismo, è difficile rassegnarsi alla presenza di un governo che "rifiuta di applicare una politica di privatizzazioni senza limiti e che coopera con la Russia, la Cina, l'Iran, il Vietnam, il Venezuela, che continua a produrre e ad esportare armi, pezzi per l'industria aeronautica e prodotti relativamente poco costosi per i mercati del terzo mondo"(13).

Ma, come abbiamo già detto, gli sforzi più intensi della Bielorussia sono stati comunque indirizzati alla realizzazione dell'obiettivo strategico rappresentato dal compimento del processo di unificazione con il grande vicino russo.

Gli sforzi bielorussi ottenevano un primo successo il 2 aprile 1996, con la stipula del "Trattato di Unione Russo-Bielorussa", passo fondamentale verso la realizzazione dell'unificazione politica, economica e militare tra i due paesi nell'ambito di uno stato unitario.

Al trattato sono seguiti ulteriori passi, attraverso il perfezionamento di molteplici accordi, soprattutto in materia economica e doganale, mentre è andata rafforzandosi la collaborazione anche sul piano militare, fino alla programmazione per la primavera del 2006 di imponenti manovre congiunte in territorio bielorusso.

Con tenacia, in questi anni, Lukashenko ha dovuto far fronte alle reticenze e, a volte, anche all' ostilità delle elites che si sono succedute al governo della Russia, soprattutto nella fase di avvio del processo di integrazione, quando ad opporsi duramente erano i clan oligarchici legati alla "famiglia Eltsin". Anche nel periodo dell'amministrazione Putin, soprattutto nella prima fase, la Russia non ha nascosto di preferire a Lukashenko "un dirigente più "presentabile" nell'arena internazionale, e soprattutto meno indipendente nelle sue iniziative" (14).

Ma l'evidente fallimento della politica di apertura verso gli Stati Uniti (che era sembrata affermarsi dopo il settembre 2001), specialmente dopo lo scatenamento delle "rivoluzioni colorate" nello spazio post-sovietico e l'uso strumentale della "questione cecena", ha tolto qualsiasi dubbio sulle intenzioni dell'amministrazione USA di voler puntare direttamente al rovesciamento dell'attuale leadership di Mosca, favorendo l'ascesa al potere di un regime meno indipendente, e ha contribuito a determinare un evidente riavvicinamento tra Putin e il presidente bielorusso.

Negli ultimi mesi abbiamo così assistito ad un'accelerazione del processo di unificazione. Nel settembre scorso, il progetto di costituzione dell' "Unione tra Russia e Bielorussia" è stato definito nelle sue linee essenziali e il referendum previsto per la sua approvazione potrebbe già svolgersi nell'ottobre-novembre 2006. Subito dopo, avverrebbe l'elezione del parlamento e verrebbero creati gli organi esecutivi dello stato unitario.

Sarà sufficiente tutto ciò per prevenire la realizzazione dei programmi previsti dagli USA e dalla NATO per la piccola Bielorussia? E' difficile al momento fare previsioni. Ma una cosa è certa. La Russia ha tratto lezioni esemplari dall'estendersi delle "rivoluzioni colorate", individuando le lacune e le sottovalutazioni che hanno caratterizzato la sua politica estera nei confronti degli inaffidabili interlocutori occidentali.

Ha ragione un altro studioso, Paul Labarique, quando afferma in un suo articolo apparso nel sito di "Reseau Voltaire", che per la leadership russa "la Bielorussia si presenta oggi come l'ultimo avamposto. Un avamposto solido perché ha già resistito due volte ai tentativi di rovesciamento. Ed è anche certo che Vladimir Putin è oggi alla ricerca degli strumenti che possano rafforzare ulteriormente la capacità di resistenza dei suoi alleati…E' probabile che la recente evoluzione nella regione costringa presto Mosca a sviluppare i propri mezzi di ingerenza allo scopo di conservare la propria sfera di influenza e soprattutto la propria integrità territoriale"(15).

NOTE

1) La Bielorussia (Russia Bianca), stato "cuscinetto" tra la Russia e i paesi dell'Europa orientale e baltica, si estende per 207.600 Kmq. I bielorussi, che parlano una lingua slava orientale come il russo e che praticano per l'80% la religione cristiana ortodossa, costituiscono il 78% della popolazione di circa 10 milioni di abitanti. La parte restante è rappresentata da 1.400.000 russi, da 400.000 ucraini e da alcune centinaia di migliaia di polacchi. In virtù di un plebiscitario voto referendario, il bielorusso e il russo sono considerati lingue ufficiali dello stato. Dall'agosto 1991, il paese, divenuto indipendente, ha assunto il nome di "Repubblica di Belarus". Tale denominazione, tuttora in uso, ha provocato numerose riserve, in quanto riprende la trascrizione tedesca di "Bielorussia", adottata durante l'occupazione nazista.

2) Una cronaca dettagliata di questi ultimi avvenimenti è stata fornita dalle agenzie ufficiali russe: in particolare in http://www.rian.ru e http://www.strana.ru.

3) Paul Labarique. « La Biélorussie sous pression ». 15 février 2005. http://www.voltairenet.org/article16220.html#article16220

4) Ad esempio, John Laughland, fiduciario del "British Helsinki Human Rights Group", ha dimostrato l'infondatezza delle accuse rivolte a Lukashenko di aver commissionato l'assassinio di alcuni oppositori politici, scoprendo che essi risiedevano tranquillamente a Londra. www.guardian.co.uk , 22 novembre 2002. La traduzione dell'articolo, con il titolo "Il racket di Praga" in http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – bielorussia – 16-12-02.

5) Bruno Drweski è Maitre de conférences all'Institut national des langues et civilisations orientales (INALCO). Direttore della rivista Le Pensée Libree amministratore di Réseau Voltaire. Tra i suoi lavori, La Biélorussie, PUF, Paris, 1993.

6) Bruno Drweski. « Les Biélorusses redoutent la « démocratie de marché ».28 avril 2005. http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

7) Ivi

8) Ivi

9) Lukashenko, ancora recentemente nella sede autorevole del Vertice ONU dei Capi di Stato, ha voluto esprimere un giudizio positivo in merito all'esperienza storica sovietica: "L'Unione Sovietica, nonostante tutti gli errori dei suoi dirigenti, rappresentava allora fonte di speranza e di sostegno per molti stati e popoli. L'Unione Sovietica assicurava l'equilibrio del sistema globale". Intervento di Aleksandr Lukashenko al vertice ONU, 15 settembre 2005.
http://www.un.org/webcast/summit2005/statements15/belarus0509115eng.pdf, tradotto per http://www.resistenze.org dal Centro di Cultura e Documentazione Popolare.
Affermazioni di aperto apprezzamento del passato sovietico furono fatte, alla presenza di Eltsin, dal leader bielorusso nel 1999 in un intervento davanti ai deputati della Duma di Stato della Federazione Russa, noto per la sua vis polemica nei confronti dei deputati della destra liberista: "La gente si pone un interrogativo più che logico: perché voi, politici, avete dissolto l'Unione in una sola notte, senza consultare i vostri popoli?Convenite che è un legittimo interrogativo? (…) Che cosa è stato fatto di degno per l'uomo comune nello spazio post-sovietico nei dieci anni trascorsi dalla dissoluzione dell'URSS? Ma guardiamo la verità negli occhi: non è stato fatto assolutamente nulla. Certo oggi possiamo dire che nell'URSS non tutto rappresentava l'ideale (…) Ma solo uno spudorato mentitore può affermare che oggi il popolo vive meglio che in quel paese. E' di moda sbeffeggiare i bielorussi, che avrebbero il torto di mantenere una robusta nostalgia per i tempi sovietici. Ma di ciò occorrerebbe solo essere orgogliosi".
Intervento di Aleksandr Lukashenko alla Duma della Federazione Russa. L'Ernesto. N. 1/2000. Il testo è stato ripreso in http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti –bielorussia – 21-10-04.

10) Aleksey Prigarin, organizzatore della cosiddetta "Piattaforma marxista" nel PCUS, ai tempi del suo ultimo congresso, è un economista, esponente di una tendenza marxista russa che formula un giudizio articolato e critico della complessa esperienza sovietica, mettendone in rilievo la grandezza, ma non nascondendo i limiti e gli errori che ne hanno determinato la fine.

11) http://www.atvr.ru/experts/2005/10/1/6204.html. La traduzione in Il dibattito tra i marxisti russi sull'esperienza della Bielorussia. http://www.resistenze.org/ - popoli resistenti – russia 07 -10-05.

12) Ivi

13) Bruno Drweski. « Les Bielorusses redoutent la « democratie de marché ». 28 avril 2005. http://www.voltairenet.org/article16928.html#article16928

14) Ivi

15) Paul Labarique. « Les Biélorusses défendent leurs intérets ».18 février 2005. http://www.voltairenet.org/article16277.html#article16277

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