Il Capitalismo pulviscolare dei professori del Corriere della sera

Carlo Gambescia

Fonte: carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
16 gennaio 2007
Titolo nostro


Dietro le tirate liberiste dei professori del Corriere della Sera, a cominciare da Giavazzi, c’è un sogno. Quello del capitalismo pulviscolare. Che però per alcuni è un incubo. Ci spieghiamo meglio.

Tutto iniziò con la Thatcher. Non è infatti un mistero che fu la Lady di Ferro, la prima a voler trasformare la Gran Bretagna nel paradiso del lavoro indipendente e degli investitori borsistici. L’obiettivo antropologico del liberismo thatcheriano, oggi di fatto apprezzato da liberal come Giavazzi, era uno solo, risvegliare l’immonda bestia: l ' homo avidus (se ci si passa il latino maccheronico). Come? Spingendo la gente, con la scusa dell’acquisto delle azioni di imprese privatizzate, a puntare avidamente sui profitti borsistici. La cosa riuscì a metà: alcuni abboccarono, altri si bruciarono le manine, rivendendo le stesse azioni a prezzi irrisori. Dopo di che, vennero gli anni (edonistici) di Reagan, i crolli, gli scandali, la Prima Guerra del Golfo, altri scandali, commissioni di inchiesta, il crollo delle Torri Gemelle, altre guerre, e infine la melmosa crisi attuale.

Morale: chi di Borsa ferisce di Borsa perisce. Oggi, molti, ma purtroppo non quelli che contano, hanno capito che la Borsa non rende ricchi. O che premia solo chi dispone di ingenti capitali e può diversificare. Tutti gli altri, i medi e soprattutto i piccoli investitori (quelli indiretti, che ad esempio dipendono dai Fondi), se riescono a non perdere tutto il capitale investito devono ritenersi fortunati. Insomma, questo grande casinò mondiale della globalizzazione borsistica e finanziaria, è in piedi solo per la gioia di pochi ricchi. Il capitalismo pulviscolare (o diffuso) non esiste. O almeno, non è di questo mondo.

Malgrado ciò, chi comanda il vapore, continua insistere. Basta sfogliare i principali grandi giornali italiani (una volta si chiamavano padronali…) per scoprire che si brinda tutti i giorni al trionfo dei “capitalisti personali”. In sostanza, il “giavazzismo”, chiamiamolo così, è un inno al capitalismo diffuso. O se si preferisce, al capitalismo pulviscolare dei piccoli investitori famelici che crescono. Si festeggia ruffianamente il “capitalista personale”, senza pensione ma che investe in Borsa… O che rischia lavorando in proprio: autonomi, “popolo” delle partite Iva, persino i lavoratori flessibili, nei quali, come spesso di legge, collima “il fare impresa e l’essere lavoratori, il padrone e l’operaio”. Il “giavazzismo”, vero anello di congiunzione tra la Thatcher e la sinistra moderata, sogna la fine della lotta di classe, o per dirla col grande Marcello Marchesi, il “vissero felici e contanti”. Non più sindacati e scioperi, ma solo psicoterapie di massa, per aiutare i lavoratori indipendenti a ricomporre la duplice identità di padroni e operai, se dovessero all'improvviso“sbroccare”. E le pensioni? Non stiamo lì a sottilizzare…

Purtroppo le cose non stanno così: in Borsa qualche volta giocano in molti, ma vincono sempre in pochi; i pensionati al massimo giocano al Superenalotto; i lavoratori “flessibili”, da superstressati, neanche ci pensano, perché troppo impegnati a ingurgitare betabloccanti. Ma quel che fa sclerare è la visione dell’uomo che c’è dietro il capitalismo pulviscolare: quella di un essere che non ha bisogno di nessuno, perché al contempo investitore, padrone e operaio. Che non dà nulla per nulla, perché ritiene che soltanto il denaro, tanto denaro, può decidere le sorti dell’individuo. L’idea di fondo del giavazzismo (come del thatcherismo, eccetera) è che la ricchezza (e alla fin fine non importa come acquisita) permette di fare a meno degli altri. Certo, ma solo per diventare schiavi del proprio gruzzolo (grande o piccolo che sia). Per farne che cosa? Lo si chieda a Giavazzi. E magari pure alla Thatcher, il cui padre, se ricordiamo bene era commerciante. Dunque, capitalista personale. E quello di Giavazzi?

Carlo Gambescia


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