Che gran pezzi ... di giornalismo

Felice Fortunaci

Fonte: Megachip
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29 agosto 2012


In Iran si è iniziato lo scorso 26 agosto il vertice del Movimento dei Paesi non allineati, NAM, nel quale sono rappresentati due terzi dei membri delle Nazioni Unite e il 55% della popolazione mondiale. L’Iran ha assunto per tre anni la presidenza di tale movimento e tanto basterebbe per sfatare il mito dell’isolamento della Repubblica Islamica da parte della “comunità internazionale”. Per parare il colpo, il giornalismo di guerra ha provato alcuni escamotage.

La Repubblica, leader italiano indiscusso in questo tipo di giornalismo, il giorno 28 agosto scorso ha relegato in un brevissimo articolo a pagina 12 la notizia sul vertice, ma in compenso ha pubblicato in prima pagina, con continuazione all’interno, un lungo pezzo di Moisés Naím, un giornalista venezuelano di origine libica, che parlava di mafia. Beh, che c’entra? Intanto Naím non è un giornalista qualunque.

È stato ministro venezuelano del Commercio e dell’Industria durante il sanguinario secondo mandato del presidente Carlos Andrés Pérez (un ex progressista asservito al Washington Consensus e ora in esilio dorato a Miami perché condannato per corruzione nel suo Paese), un governo cioè che è passato alla storia per il massacro della rivolta popolare del 1989 contro le privatizzazioni selvagge di cui Naím era fiero assertore. Si calcolano fino a 3.000 morti.

Uomo della Banca Mondiale di cui è stato Direttore Esecutivo, collaboratore della CIA come membro del board of directors del National Endowment for Democracy, nemico giurato di Hugo Chávez (probabilmente anche perché durante i massacri del 1989 fu uno degli ufficiali che si rifiutarono di sparare sulla folla), Naím è, conseguentemente, un ospite permanente del gruppo Espresso-La Repubblica.

Ebbene, cosa ci viene a dire questo figuro in prima pagina sul noto quotidiano “progressista”? Che ci sono Stati dove al potere c’è la mafia. I principali sarebbero, Guinea-Bissau, Montenegro, Myanmar (Birmania), l’Ucraina, Bolivia, Corea del Nord e, last but not least, ovviamente il Venezuela.

Una lista che inizia in sordina e finisce con ben cinque nazioni direttamente nel mirino degli USA. Tutti, guarda caso, appartenenti al NAM, tranne l’Ucraina che è però odiata per essere troppo filorussa. Sull’Afghanistan, Naím fa solo vaghi cenni sul traffico d’oppio, senza spiegare nulla in merito al ruolo giocato in questo traffico immane dagli occupanti sotto l’ombrello NATO.

Una lista di bersagli, dunque, che commenta da sola la serietà e gli intenti sia del giornalista sia del foglio che lo ospita. Il quale ultimo ha per altro una notevolissima faccia di bronzo dato che solo pochi giorni fa ha pubblicato un editoriale del suo fondatore, Eugenio Scalfari, che sosteneva la legittimità della trattativa tra Stato e mafia durante la stagione delle stragi mafiose del 1992.

Nella stessa edizione, la sezione affari internazionali di «Repubblica» si è impegnata a controbilanciare la notizia dell’attacco contro i soldati italiani in Afghanistan con un articolo intitolato “Cantano e ballano, 17 decapitati in Afghanistan il terrore dei Taliban”.

Quindi: che a nessuno venga in mente di parlare di un nostro ritiro. Tanto valeva che intitolassero direttamente: “I Taliban sono cattivi”. Senza però scrivere niente. Così per lo meno non sarebbero incorsi in smentite: Afghanistan, dietro alle decapitazioni una faida tra famiglie rivali.

La stessa sezione ci informa infine che il progressista François Hollande ha avvertito: «Se Assad usa armi chimiche sì all’intervento». Ora, che in una guerra (su commissione) dove si combatte strada per strada si possano usare armi chimiche è già un’idiozia. Sembrerebbe idiota anche ricominciare a menarla con la storia delle armi non convenzionali che già si rivelò una solenne menzogna nel caso dell’Iraq. Ma in definitiva, dato che allora in qualche modo pagò, perché non riciclarla adesso per la Siria? Chi darebbe la notizia eventuale di un utilizzo di armi chimiche? L’Esercito Siriano Libero. Chi la controllerebbe? L’Osservatorio siriano dei diritti umani, con sede, guarda un po’, a Londra.

Come sempre.

Ma ecco che c’è chi dà credito all’idiozia: è stata sempre la prima pagina del quotidiano fondato da Scalfari a ospitare il 23 agosto un pensoso articolo sulla Siria del ministro degli esteri italiano, Giulio Maria Terzi di Sant'Agata, che alla locomotiva del suo interminabile nome attacca anche una vagonata di titoli: marchese, conte, barone, cavaliere del Sacro romano impero e Signore di Sant'Agata.

Siccome il quotidiano si chiama tuttora «la Repubblica» (ma non siamo sicuri che il nome duri, visto il suo crepuscolo reazionario), e siccome nelle edicole stanno uscendo di nuovo i DVD di Fantozzi, il ministro si è firmato appena Giulio Terzi. Ma il suo articolo ha estratto lo stesso l’anima del conte, del barone, del cavaliere e anche del lup. mann. figl. di putt.

Il titolare della Farnesina strilla infatti contro «il pericolo della proliferazione di armi di distruzione di massa (la Siria possiede il maggior arsenale di armi chimiche e biologiche in Medio Oriente)».

Curioso: Terzi, che fu per anni ambasciatore in Israele (che se non sbaglio è in Medio Oriente) non ha mai fatto una dichiarazione a proposito delle centinaia di armi nucleari israeliane (ben proliferate, e ben capaci di distruzione di massa).

Il resto dell’articolo è una valanga di foglie di fico per giustificare gli aiuti ai ribelli in Siria nascondendone le implicazioni militari. Il nostro cavaliere del Sacro romano impero dichiara che sta «considerando, sulla scia di alcuni nostri principali alleati, la fornitura all'opposizione di strumenti di comunicazione utili per poter prevenire attacchi contro civili, soprattutto donne e bambini». Non è un’amore? E non tanto per il suo tenero pensiero rivolto ai bambini, ma soprattutto per quel suo stare «sulla scia», come un drone. Magari come uno di quelli che «alcuni nostri principali alleati» scagliano quotidianamente sui bambini del Pakistan e dell’Afghanistan, e un domani, con una No Fly Zone, anche in Siria. Dove, però, si va solo con la "responsabilità di proteggere", non sia mai altrimenti: il tutto in compagnia dei piranhas del Qatar e di Riyad, anzi, «sulla scia» delle loro forniture.

I giornali di mezzo mondo stanno via via sbugiardando queste pretese, e spazzano via almeno le foglie più indecenti usate dai governi. Ma con «Repubblica» il ministro va sul sicuro, e si sdraia come un pascià. Non gli faranno mai domande, laggiù. Sanno quali sono le fonti gradite al potere.

In un articolo di Venerdì 2 marzo 2012, apparso su «la Repubblica» a firma di Alberto Stabile, si parlava della drammaticità della battaglia di Bab Amro, «il quartiere simbolo della resistenza contro la brutale repressione della protesta siriana». Ora, una  battaglia contro una protesta non l’ha mai fatta nemmeno Hitler. Ma tant’è. Il punto di vista di Stabile coincideva curiosamente con quello dei cosiddetti “ribelli”, dato che lui stesso poco dopo ci informava: «Sono stati gli stessi ribelli ad offrire un quadro drammatico della situazione».

E quali altre fonti ha mai utilizzato «la Repubblica» e tutto il mainstream? Rileggetevi i vari non-reportage: è tutto un “ha dichiarato un portavoce dei rivoltosi”, “ha detto il Consiglio Nazionale Siriano”, “fonti dell’opposizione”, eccetera. Infatti, coerentemente, poche righe dopo un’ulteriore “informazione” inizia con «Secondo notizie diffuse dalle organizzazioni dell’opposizione».

Le fonti “alternative” sono Al Arabiya e Al Jazeera, ovvero i media delle petromonarchie, cioè degli autocrati che non governano i loro Paesi ma li hanno in uso come proprietà personali, e che reprimono gli oppositori con una ferocia che riesce a guadagnarsi solo distratti trafiletti sulla declinante gazzetta che ci fa da «Pravda».

Gran bei pezzi di giornalismo, insomma.

È la stampa di guerra, bellezza! Quella della Terza Guerra Mondiale ormai in atto.

Come direbbe Altan, il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno. Men che meno agli affezionati lettori, già progressisti, de «La Repubblica» ai quali magari luccicano ancora gli occhi quando sentono parlare di Che Guevara (che dal canto suo riteneva gli USA un pericolo mortale per l’umanità). Sanno che è diventato un giornale illeggibile ma si ostinano a comprarlo per inerzia e perché magari si consolano con qualche notizia di cultura o semi-cultura qua e là. Insomma, per una sorta di nostalgia e di narcisismo semicolto riflesso.

Nostalgia, inerzia e narcisismo semicolto riflesso che però lavorano sulle capacità critiche, che in tempo di guerra devono essere azzerate: Credere, Obbedire, Combattere!

Un ordine che si accompagna all’altro, ben noto, del capitalismo: “Accumulate, accumulate! Questa è la Legge e questo dicono i profeti!”.

La nuova catechesi del giornalismo “progressista” italiano e occidentale?

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