MA COS’E’ QUESTA CRISI ? IL CRACK DELLA FINANZA SPIEGATO AL POPOLO

Valerio Evangelisti

30 ottobre 2008
Fonte: www.carmillaonline.com


PARTE PRIMA

1. Le rovine di Buffalo

L’anno scorso, 2007, mi trovai a viaggiare per il nord degli Stati Uniti, proveniente dal Canada, in compagnia di un amico, docente universitario a Toronto. Rimanemmo molto colpiti da ciò che vedevamo. Villaggi in rovina, quasi disabitati. Accampamenti di roulottes. Una città famosa, Buffalo, ridotta a un fantasma. Alle 18 del pomeriggio le vie erano quasi completamente deserte, a parte qualche barbone di colore, dal ventre prominente e con la bottiglia in mano. Donne obese che trascinavano la loro borsa fino alla fermata dell’autobus. Attorno, grattacieli di tipo newyorkese con una metà dei vetri rotti. La stessa Camera di Commercio, concepita a mo’ di monumento, necessitava di riparazioni. Quello che la guida proponeva come “quartiere dei divertimenti” era una sfilza di immobili cadenti e di porte sbarrate. Unica presunta attrattiva un caffè Starbuck con due tavolini all’aperto. Non c’era altro.

Questo per dire che la crisi finanziaria, cominciata negli Stati Uniti e ora estesa all’Europa e al mondo intero, non mi ha colto di sorpresa. Prima che la finanza, stava soffrendo l’economia reale, in buona parte del cosiddetto Occidente. Buffalo era stata a suo tempo città industriale, finché le sue fabbriche non furono condannate a morte, per via della “globalizzazione”, della “delocalizzazione” e dell’incapacità di reggere una concorrenza fattasi mondiale. Per i padroni una soluzione semplice: investire altrove. Per la forza-lavoro nessuna soluzione, salvo ridurre progressivamente i propri consumi. Fino a trovarsi in miseria nera, e non consumare affatto. A parte i periodi di scarse occasioni lavorative a breve termine, senza garanzie di un reddito duraturo. Il cosiddetto precariato – o, per dirla in termini moderni, la “flessibilità”. Si badi alla valenza delle parole. Quanti elogino, o abbiano elogiato in passato, la “flessibilità”, sono dall’altro lato della barricata (cioè dalla parte del padronato), quale che sia la loro bandiera. Chi aveva appartenuto alla classe media aveva spesso stipulato mutui con le banche per comperarsi una casa, nella certezza di poterli rimborsare nel tempo. Non si era atteso che l’ammontare delle rate mensili d’improvviso crescesse, fino a triplicarsi o a quadruplicarsi. Quando non ce la fece più, smise di pagare. Lasciando, giustamente, le banche stesse in mutande, e intente a vendere pacchetti di clienti morosi alle loro consorelle. Si scambiavano sacchetti di spazzatura attraverso il mondo intero, fingendo che valessero qualcosa. Mentre la loro vittima sfruttava la sua carta di credito fino all’esaurimento.

Fin qui arrivano le analisi correnti, leggibili ovunque. Occorre spingersi un poco più in là. Altrimenti sembra che la causa di tutto sia stata l’eccessiva fiducia del sistema bancario nei confronti della solvibilità di poveri cristi. Colpevoli reali, per lo meno di imprudenza, a rigor di logica.

2. L’orologio del capitalismo

Perché le rate dei mutui erano aumentate? Perché la Federal Reserve aveva, tra il 2003 e il 2007, quintuplicato il tasso di interesse, dopo averlo ridotto nel triennio precedente a un semplice 1%. Con l’abbassamento aveva sollecitato compere e investimenti, con l’innalzamento tentava di reagire al rialzo mondiale del prezzo del petrolio e di altre materie prime. In pratica, cercava di scoraggiare l’acquisto di prodotti petroliferi, rendendoli più costosi; ma così facendo, oltre a frenare gli investimenti (e a generare precariato e disoccupazione), colpiva gravemente chi fosse in posizione debitoria, come un gran numero di americani.

Va spiegato, semplificando all’estremo, che un imprenditore che voglia investire deve per forza ricorrere al prestito bancario. Se il tasso d’interesse praticato dalla banca (legato per varie vie al tasso ufficiale deciso dagli organi centrali) è alto, vi rinuncia. La sua rinuncia produrrà disoccupazione e minor consumo. Se invece è basso, vi sarà espansione. Con la conseguenza negativa che un maggior numero di occupati, elevando la domanda di merci, genererà inflazione. La piaga più temuta dal liberalismo oggi dominante. La teoria economica che ai giorni nostri, vinto il nemico “socialista” (ma anche il nemico semplicemente keynesiano), esercita la propria dittatura, ha fatto dell’inflazione uno spauracchio.

Si tratta di scegliere chi favorire. In Italia, quando l’inflazione era al 27% e vigeva la scala mobile, la classe operaia stava benissimo e pareva chiamata ad alti destini. Non appena chi diceva di rappresentarla si è adeguato alla “compatibilità”, alla “concertazione”, al “patto tra produttori”, l’inflazione è scesa, però a prezzo di un indebolimento economico e politico della classe operaia che preludeva al suo disfacimento. Gli autori del crimine hanno un nome: CGIL-CISL-UIL. La prima è caduta nel ridicolo. Snobbata dalle altre due confederazioni, oggi non è nemmeno ammessa ai tavoli di trattativa. Si è formata una nuova “triplice”, CISL-UIL-UGL (la ex Cisnal). Dal centro”sinistra” alla destra tout court. Restino sacrosanti i fischi che, nel 1977, accolsero Luciano Lama all’università La Sapienza di Roma. Osava presentarsi a proporre la fine della rivolta, o la sua canalizzazione istituzionale, contro un ordine che, prima che ingiusto, è un condensato di follia.

Il capitalismo è questo: una specie di pendolo demenziale, che deve mantenere un precario equilibrio tra grandezze contraddittorie e dotate di dinamica contrastante. Investimenti / inflazione / occupazione contro Recessione / deflazione / disoccupazione. Nei momenti estremi la scelta è puramente politica e di classe. La destra liberista (oggi dominante) pensa che il maggior nemico sia l’inflazione, e lo si vede dall’ostinazione della BCE nel non abbassare i tassi, salvo esservi costretta – in questi giorni - dalla crisi galoppante. La sinistra che si accontenta del sistema crede invece che ciò che va combattuto sia in primo luogo la disoccupazione, ma, non osando e non volendo affrontare il problema nel suo assieme, propone di detassare salari e pensioni, senza toccare i profitti, sacri e intangibili.

Inutile chiederle un’analisi più profonda. Inutile farle notare che, se c’è una questione di salari bassi, essa è legata a profitti troppo elevati, e che non ci sono espedienti per aumentare i primi (detassazioni in busta paga e simili) slegati dalla necessità di diminuire i secondi. Riconoscerlo, sarebbe fare rientrare in campo l’odiata lotta di classe.

Non sia mai. Dogma della “sinistra moderna” è che il mercato è la regola, l’inflazione è il nemico comune, il passaggio dal pubblico al privato la sola via per abbattere lo spauracchio inflazionistico, la concertazione l’unico modo per unire lavoro e capitale contro un avversario fantasmatico: il debito pubblico, lo spettro incombente.

3. Goldfinger

Ciò dovrebbe fare sorridere, invece fa sogghignare, bene che vada. Non stiamo parlando di grandezze reali, ma di grandezze virtuali. Parliamo di denaro, all’origine avatar di una qualche merce, mentre oggi non ne rappresenta alcuna, tradotto com’è in astratti ghirigori matematici. Ci fu un tempo in cui la moneta simboleggiava l’oro, ma era un’epoca remota. A parte il fatto che le riserve auree oggi esistenti non hanno alcun corrispettivo nelle monete, meno che mai nel dollaro (lo 007 di Operazione Goldfinger troverebbe ai giorni nostri, nel violare Fort Knox, pochi lingotti e molte ragnatele), se si gratta sotto i simboli monetari non si trova nulla. Né ricchezze, né produzione, né esportazione di merci. Solo scartafacci di operazioni matematiche, numeri e curve sullo schermo di un computer. I paesi più indebitati sono in realtà quelli più ricchi di beni reali. Tutta l’Africa, una parte dell’Asia, l’America Latina. Da là vengono petrolio e gas, carbone e legno, e grano e uranio e diamanti.

Quei paesi dovrebbero dominare, vista la loro supremazia in termini spendibili, reali. Invece sono i più asserviti e indebitati. Asserviti all’astrazione della moneta, prigionieri di un debito stabilito per convenzione. Mentre gli Stati Uniti non producono quasi un cazzo (fortuna che hanno un’America Latina pronta a importare orridi televisori NTSC, in cui la visione ha la qualità di una videocassetta avariata; e macchinoni ridicoli per dimensioni, nelle strade messicane o peruviane), salvo un software che in India o in Cina sono capaci di imitare in un giorno.

La sola merce esportabile dagli Usa è il dollaro, valuta universale di scambio (come lo è la lingua inglese, propagata in mille declinazioni, e sempre più lontana dall’originale). Solo che esportare moneta e importare merci, che non si è capaci di produrre da soli, può condurre a una impasse. Per motivi materiali? In parte sì, come vedremo, ma principalmente per motivi immateriali, psicologici – come è naturale, dato che stiamo parlando di astrazioni.

4. La guerra, ancora “igiene del mondo”

Può venire meno, per esempio, la fiducia nel dollaro. L’amministrazione Bush accende due o tre focolai di guerra nel mondo, confidando, come aveva fatto Bush Sr per Grenada, Panama, l’Iraq, o Clinton per i Balcani, in una rapida soluzione dei conflitti. Se va bene, è una pacchia per tutto il sistema economico occidentale. Bacini interi di materie prime sotto controllo, possibilità di investire nella ricostruzione dei paesi devastati, l’industria militare che fa da volano all’intera economia. La guerra incide anche su settori non direttamente coinvolti, da quello dell’intrattenimento (il cinema di Hollywood ha campato per un ventennio sul secondo conflitto mondiale) a quello dell’alimentazione per eserciti d’occupazione e popoli “liberati”. Più naturalmente l’onnipresente finanza, pronta a radicarsi con filiali bancarie e assicurative nei territori sottomessi.

Questo, però, in caso di vittoria. E se invece si profila una sconfitta? Se gli iracheni non si rassegnano a essere colonia, se gli afghani non si lasciano piegare (buone o cattive che siano le loro ragioni)? Se, insomma, una guerra si impantana e non procura né materie prime, né prospettive di investimenti nell’edilizia, né altri stimoli per i settori economici che vi si sono gettati? Se moltiplica i suoi costi?

La risposta era più sopra. Il prezzo del petrolio e di altre materie prime, fuori controllo, sbanda paurosamente verso l’alto. Quale reazione si alzano i tassi d’interesse, con effetti disastrosi anche sui mutui (tra molte altre variabili). Una popolazione già deprivata del salario indiretto costituito dai servizi sociali, viste le risorse illimitate destinate a guerre perse, si trova senza casa o soggetta a mutui assurdi di punto in bianco. Le banche, che per un decennio avevano giocato sui debiti dei poveri, confezionandoli in pacchetti utili allo scambio, non riescono più a continuare il gioco di prestigio. I sacchetti di spazzatura adesso sono vuoti, e ogni potenziale compratore se ne accorge con facilità. Gli istituti di credito, che di sacchetti ne avevano accumulati troppi, si ritrovano i magazzini pieni di fuffa, impossibili da far circolare.

Ma non è tutto. L’ultima frontiera della finanza è l’economia reale (come prediceva Rudolf Hilferding), a partire dal settore di base, quello alimentare. Ai primi sintomi di sisma industriale, i fondi di investimento americani, seguiti da quelli di tutto il mondo, si gettano sui cereali e su altre coltivazioni di generi commestibili, facendone aumentare il prezzo a dismisura. E’ un mercato poco controllabile, viste le miriadi di produttori individuali. Il solo mezzo per disciplinarlo sono gli OGM, che costringono chi semina a stare alle condizioni di chi vende le sementi. L’esito è chiaro agli occhi di chi acquista pasta, pane e altri generi di prima necessità. Il loro prezzo aumenta all’inverosimile. Aveva problemi irresolubili con i mutui per la casa, adesso ne avrà anche con l’alimentazione quotidiana. Beato lui se vive nel Primo o Secondo mondo, dove fa ancora, teoricamente, parte della “classe media”. Guai a lui se abita nel Terzo o nel Quarto. I mutui subprime sono al di là della sua portata. Invece vi rientra il prezzo dei cereali di cui si nutre. Impossibilitato a comperarli, cercherà di immigrare nel “ricco” Occidente. Ignaro del fatto che, se il cibo costa troppo per lui, ciò dipende da scelte operate dal fondo pensione degli insegnanti elementari statunitensi (il più forte di tutti). E che, se il suo paese è soffocato dal debito, quest’ultimo è infinitamente inferiore al debito Usa. Nascosto dall’impiego del dollaro quale valuta di scambio.

5. Viva Hilferding!

Bisognerebbe riscoprire Rudolf Hilferding, da cui Lenin attinse a piene mani, pur coprendolo di insulti per le prese di posizione contingenti dell’economista. Cosa sosteneva Hilferding, ne Il capitale monopolistico? Che il capitale astratto avrebbe progressivamente preso le redini dell’economia produttiva, fino ad assumerne il pieno controllo. Non con un atto di forza, bensì per reciproca complicità. I profitti reinvestiti nel settore finanziario, a scapito degli investimenti nella produzione di merci. Il monopolista e il banchiere che finiscono per essere una persona sola. Anzi, una non-persona: Monsieur Le Capital l’aveva chiamata Marx (e così l’avrebbe chiamata uno studioso lucidissimo, Marco Melotti, scomparso di recente). Hilferding è stato tra i pochi, seri, continuatori di Marx, al di là di scelte politiche oggettivamente discutibili, e di soluzioni controverse (secondo lui, nazionalizzando le banche, un governo socialista avrebbe automaticamente assunto il controllo delle grandi imprese). Ciò che resta valido, nel suo ragionamento, è la denuncia della tendenza del capitalismo a farsi progressivamente più evanescente, a fondarsi su un sistema simbolico sempre più distante da ciò che crea ricchezza, e cioè il lavoro.

Perduto il referente concreto, si avrà un assetto instabile, soggetto a periodiche crisi (qui non è più Hilferding che parla, ma Marx in persona). Fino alle paradossali inversioni cui il capitalismo moderno ci ha abituati. Un’azienda è tanto più sana quanti più lavoratori espelle (sì, ma quanto consumeranno dopo gli espulsi? Quale domanda solleciterà gli investimenti?). Un’economia è tanto più solida quanto più comprime la spesa (meno servizi gratuiti, minore accesso a ciò che spetterebbe di diritto: salute, casa, scuola e altri capisaldi del vivere civile. Privatizzare il privatizzabile). Un paese è tanto più povero quanto più è ricco di risorse naturali.

Su tutto, lo spettro sempiterno di minacce diaboliche e impalpabili: il debito incombente, la stramaledetta inflazione, l’eccesso di moneta sui mercati, ecc. A suo tempo, da Keynes si passò a Milton Friedman, e a lui si ispirarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher, più i loro devoti successori. Peccato che Friedman, e con lui gli economisti supply siders, mai abbiano messo assieme una dottrina organica dell’economia. Andavano a casaccio. I loro seguaci hanno messo (temporaneamente) in ginocchio il Cile e l’Argentina. Frutto dei loro esperimenti sono anche i polacchi che si offrono di pulirci i parabrezza ai semafori.

Per inciso, la non-dottrina di Friedman oggi è adottata dalla Banca Centrale Europea (l’ha inclusa anche nel progetto di Costituzione e nel patto di Lisbona) e dall’Occidente nel suo assieme. Se come teoria fa acqua, i suoi risvolti politico-sociali sono netti: smontare la classe operaia – o più in generale il proletariato – quale soggetto compatto, portatore di istanze collettive. Scinderla in individui costretti a contrattare individualmente, o a piccoli gruppi, la propria sopravvivenza. Abolire i contratti di lavoro nazionali, in modo da lasciare i soggetti deboli in balia di se stessi. Illuderli con lo specchietto di una falsa autonomia, in modo che l’azienda possa, all’occorrenza, liberarsene come facevano le antiche mongolfiere, quando staccavano e gettavano nel vuoto i sacchetti di sabbia per prendere il volo.

Un precario riesce con difficoltà a essere un soggetto antagonista: teme per il suo posto di lavoro. Idem per un falso “lavoratore autonomo”: difenderà la propria posizione individuale. Idem per un operaio o per un impiegato, circondato da un mare di precari e di disoccupati: nel timore di finire in quelle acque, accetterà ogni sorta di disciplina e di prepotenza. Peggiore di tutte è però la posizione del lavoratore subalterno che ha accettato di convertire in fondi azionari i propri risparmi o la propria pensione. Diventa oggettivamente parte marginale dell’economia astratta. Trepida per i soprassalti dei listini di borsa, che legge con fatica. Diversamente da un azionista vero, non può agire: deve solo subire. Voterà Berlusconi, l’unico che lo può salvare. Ignora infatti cosa sia la politica dell’open mouth, della “bocca aperta”, teorizzata dai supply siders e adottata da Ronald Reagan. Lanciare sorrisi e messaggi ottimistici, dire bugie per rassicurare. Convincere tutti che la povertà del presente è ricchezza futura. Chiamare a una corsa in cui i cavalli migliori potranno vincere (traggo il paragone da Martin Eden, del compagno Jack London). I cavalli in corsa non si parlano tra loro. Alcuni cadono, altri si azzoppano. Uno solo vince, ma la vittoria vera è di chi lo cavalca. Attenzione a quanti vi parlano di “merito”: hanno in mente l’ippodromo. Sono i fantini. Chi tiene assieme un proletariato sparso e incitato alla competizione reciproca dovrebbero essere i sindacati. Peccato che questi – a eccezione dei sindacati di base, e di qualche punta confederale – abbiano fatto propria l’ideologia dominante.

Si tratta di comprendere meglio la composizione attuale di classe, nel contesto dell’economia astratta. Da lì si deve ripartire, e da un quadro internazionale che offre sorprese sgradite ai monetaristi.

PARTE SECONDA

Una premessa alla seconda parte


La prima parte di questo intervento ha suscitato varie reazioni, per lo più positive. Non è però mancato qualche commentatore che ha approfittato del pezzo per attaccarmi, in genere aggrappandosi a cose che con l’articolo non avevano nulla a che vedere. Il caso più clamoroso, per poca intelligenza, è quello di un tizio che si è valso del sottotitolo – “Il crack finanziario spiegato al popolo” – per accusarmi di volermi atteggiare a intellettualino che parla ai classici “poveri ignoranti”. Non ha colto l’intenzione ironica, né l’avvertimento che la trattazione dell’argomento sarebbe stata di stile colloquiale. A parte i casi palesi di imbecillità, c’è stato anche chi, prendendo a pretesto una mia frase volutamente paradossale – sugli Stati Uniti che “non producono un cazzo” – ha voluto elencarmi tutta una serie di beni che gli Usa invece producono, dalle sigarette Marlboro, agli aerei, alle biotecnologie.

Per lo meno, in questo caso una base di ragionamento c’era, solo che l’interlocutore sottovalutava le mie conoscenze. Un paese in cui l’industria manifatturiera produce appena il 15% del PIL (nel 2002: oggi è molto meno) e le importazioni superano enormemente le esportazioni, è un paese che “non produce un cazzo”. Non lo dico io. Lo dice Emmanuel Todd in Dopo l’impero (Tropea, 2003; si vedano le pagine 75-96 dell’edizione francese, Gallimard, 2002, che è quella che ho io). Lo aveva già detto Immanuel Wallerstein in Il declino dell’America (Feltrinelli, 2004; di lui si legga anche questa recentissima intervista, in francese e in spagnolo, nonché questo intervento. Insomma, io sto cercando di far conoscere tesi altrui, non mie. Se ometto una bibliografia è solo per gli intenti divulgativi che perseguo.

Per i pignoli, considerazioni molto simili alle mie si trovano negli ultimi numeri di Proteo, la rivista quadrimestrale del Centro Studi sulle Trasformazioni Economico-Sociali, e soprattutto in questo saggio di Giorgio Gattei, da cui ho largamente attinto. E se scrivo che oggi Goldfinger, violato Fort Knox, vi troverebbe solo ragnatele, sto esponendo in linguaggio magari pittoresco una verità nota a tutti: l’attuale insufficienza delle riserve auree americane, in rapporto alla quantità di dollari in circolazione. Chi non lo sa veda di informarsi. Come veda di leggersi la semplice voce "Federal Reserve" su Wikipedia, per capire come la Fed possa modificare, attraverso il tasso ufficiale di sconto, un tasso di interesse in teoria di competenza del mercato.

Ma ora lascio le quisquilie e torno al discorso che stavo facendo.

6. La classe "smaterializzata"

Un certo Harry Braverman, operaio americano e redattore della Monthly Review, scrisse nel 1974 un libro eccellente: Lavoro e capitale monopolistico (Einaudi, 1975). In esso sosteneva che Monsieur Le Capital rimodella di continuo le classi subalterne, secondo le sue convenienze. A volte sono il classico proletariato di fabbrica. Altre volte si tratta di soggetti apparentemente autonomi (dagli impiegati, ai precari con partita IVA, ai “collaboratori esterni” così diffusi ai nostri tempi). Comunque è sempre la classe operaia ribattezzata in vari modi, senza che la sua subalternità venga meno. Gente coinvolta nella valorizzazione del capitale, in maniera diretta o indiretta, a seconda delle fasi storiche. Lungo filiere di produzione che si propagano territorialmente, nel paese d’origine o altrove.

Il “decentramento produttivo” degli anni Settanta ha avuto il suo corollario nella “delocalizzazione” degli anni Duemila. Grazie alla cosiddetta “globalizzazione”, cioè alla vittoria del capitalismo soprattutto americano sul socialismo “reale”, ogni padrone ha potuto cercare altrove manodopera a minor costo. La ha trovata in Asia, in America Latina, nei paesi dell’Europa orientale. Operai che si accontentano di un salario da due soldi, tanto per non patire la fame (sono oltre 18.000 le imprese italiane impiantate in Romania). Salari ridicoli, da filiali georgiane, moldave, polacche, persino ceche (la Cecoslovacchia, quando era unita, fu un po’ il fiore all’occhiello, sul piano della produzione industriale, del sistema sovietico). E’ ritornello insistente quello che la classe operaia sia in via di sparizione, che il lavoro “immateriale” abbia preso il suo posto, che non rimangano altro che declinazioni della classe media. In realtà, su scala mondiale, gli operai si sono moltiplicati, con una distribuzione geografica dipendente dal luogo in cui si insediano le attività produttive. Il falso lavoro autonomo, invece, prospera in tutto l’Occidente (Usa+Europa+Giappone, oltre a Canada e Australia).

Monsieur le Capital, a questi primi risultati, stappa bottiglie di champagne. Trova manodopera in condizioni quasi schiavistiche qui e là per il mondo, può dissolvere lentamente la forza-lavoro interna, “esternalizzare” rami produttivi in sovrappeso, frullare in pezzettini la classe a lui antagonista, in modo che non abbia nemmeno più la percezione di essere una classe. Soggetti sparsi, isolati, privi di identità e di connessioni, dediti alla concorrenza reciproca. Producono senza corrispettivi adeguati, e dunque consumano sempre meno. A ciò rimedia l’economia astratta, puramente monetaria. Lì finiscono i profitti. La produzione di merci a mezzo di nulla. Vuoti indici bancari o borsistici, totalmente slegati dall’economia reale. La quale resta la fucina del proletariato. Ciò che si è fatto immateriale è il capitale, non le classi subalterne!

Chi si domanda dove siano oggi “gli operai di un tempo”, in realtà si sta domandando dove sia finita la forza che questi avevano per un secolo e passa accumulato. Perché dove siano gli operai è facile scoprirlo, se si guarda al di là dei confini nazionali, oppure se, nell’ambito della stessa nazione, si getta un’occhiata nelle sedi delle infinite agenzie per il reclutamento di lavoratori interinali, sorte a ogni angolo di strada. Per non parlare del lavoro nero, o anche di larghi settori del lavoro impiegatizio, di quello detto “autonomo”, di quello terziario, del comparto dei servizi. E’ lì la classe operaia, in una fase in cui non è più conveniente radunarla in grandi complessi industriali. Oppure vive nelle mansioni semi-servili degli immigrati, variabile moderna dell’antico bracciantato senza averne la storica compattezza.

7. Povere classi medie

E’ stato ripetuto fino all’ossessione che asse centrale dell’odierno assetto produttivo sarebbero le “classi medie”. Operose, diligenti, risparmiatrici. Oggetto di libidine per tutte le forze politiche: di destra, ovviamente, ma anche di centrosinistra, di post-sinistra, persino di “sinistra radicale”. Poi basta una scommessa sbagliata dell’economia finanziaria, ed ecco che quelle classi medie si trovano con il culo per terra. Pronte a cadere, con il loro pugno di azioni che non valgono più nulla, con fondi di investimento diventati inaffidabili, con i loro mutui ormai impagabili, con generi di prima necessità dai prezzi impazziti, nel baratro sottostante.

Attenzione: non in una “classe” sottostante. Le classi esistono oggettivamente, però, soggettivamente, per esistere, bisogna che abbiano consapevolezza di se stesse. Per un lungo periodo, dal 1980 a oggi, la piccola e media borghesia ne ha avuta, certo più forte di quella degli operai e dei proletari in genere, che andava declinando. Le trombe suonate da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher chiamavano a raccolta, echeggiate dal triccheballacche di Bettino Craxi, dubbio socialista, e più tardi dall’ancor peggiore Tony Blair. Si apriva l’era storica della middle class, riluttante alla solidarietà con chi le stava sotto i piedi. Il suo valore supremo, a parte il denaro, era l’egoismo considerato virtù. La non-solidarietà. In Italia fu epocale, nel 1980, la marcia dei 40.000 quadri e impiegati della Fiat di Torino contro l’occupazione della “loro” fabbrica da parte dei lavoratori di rango inferiore, nell’ambito di una vertenza sindacale. Noi siamo “classe media”, che cazzo volete da noi? Perché mai dovremmo sentirci partecipi dei vostri problemi?

Da qui partirono il craxismo e il suo figlio deforme e cattivissimo, il berlusconismo (nella sua prima versione neoliberista, non in quella attuale, populo-fascista). Mi chiedo quanti dei 40.000, se sono ancora al mondo, non debba oggi alimentare figli maggiorenni che passano da un lavoro all’altro e vivono presso i genitori, oppure non temano per le proprie pensioni o per i propri risparmi. Quanti di essi siano più simili a chi sta loro sopra e diversi da chi sta loro sotto. Gente del genere non mi ispira la minima simpatia umana. Si sono tuffati nella piscina del padrone, solo che per loro mancava l’acqua. Hanno battuto la testa. Mi guarderò dal chiamare il Pronto Soccorso.

8. L'orologio impazzito

Torno al filone serio del discorso, e cioè al baratro improvviso che si può spalancare, e si spalanca in questi giorni, sotto i piedi della classe media, non solo negli Usa. La turbolenza è forse solo transitoria, ma i suoi effetti si protrarranno. Un’economia astratta, fattasi troppo astratta (cioè troppo lontana da là dove il lavoro dà valore alle merci), per tenersi in piedi sottrae liquidità all’economia reale. Richieste imprenditoriali di crediti per l’investimento resteranno deluse. Conseguenza, per quell’orologio impazzito che è di norma il capitalismo, rallentamento dell’innovazione e dei profitti, rivalsa sul costo del lavoro, licenziamenti, calo dei consumi (chi ha perso il suo posto di certo consuma meno), domanda bassa, discesa dei prezzi produttivi (a cominciare da quelli delle materie prime), ascesa dei generi di prima necessità (le esigenze di una forza-lavoro in crisi si spostano su beni necessari alla sopravvivenza: pane, riso, pasta, fagioli ecc., a seconda dei quadranti geografici).

Proiettiamo la cosa su scala intercontinentale. E’ una tragedia umana. Lo scemo di turno continuerà a ripetere che il capitalismo ha arricchito il mondo intero, in pochi anni di dominio assoluto. In realtà lo ha solo esposto alla capricciosità di un sistema fatto di simboli, e in cui ogni uomo è un avatar, separato dalle sue esigenze di vita. Finché il tutto non si blocca, e la finanza, in crisi debitoria, si rivale bloccando il credito alla produzione. E’ quella che viene detta “recessione”. Portato per vocazione di classe a colpire i soggetti subalterni, Monsieur Le Capital insisterà perché gli operai siano pagati meno, perché possano rivalersi solo attraverso gli straordinari (e cioè amplificando all’estremo la loro giornata lavorativa), perché rinuncino a tutto ciò che prima avevano di garantito: casa (con molti dubbi sul grado di garanzia), scuola, posto fisso di lavoro, pensione in età ancora attiva, assistenza medica e sociale. Si accuserà di fannullaggine chi godeva di qualche salvaguardia dal licenziamento immotivato. Tutto ciò che era gratis, perché ritenuto socialmente utile, per non dire spettante di diritto, dopo sarà messo in vendita. Servono liquidi da immettere sul mercato finanziario. La scuola, dalle elementari all’università, il pubblico impiego, l’elevazione dell’età pensionabile, il passaggio dal lavoro sicuro al precariato (accompagnato da opportuni slogan che esaltino la “flessibilità”) diventano oggetti di risparmio monetario, perché la finanza possa ripartire. Perché possa risanare, con i suoi tuffi e le sue giravolte, con la sua inconsistenza di fatto, le incongruenze di un dominio di classe. Unico fattore concreto in tutta questa vicenda.

9. Chi fabbrica le classi

Dunque, si dirà con scandalo, le classi esistono ancora. Certo che esistono. Cambiano forma e localizzazione perché così vuole il vero “fabbricante di classi”. Il capitale? Sì, ma non direttamente. Il capitale ha una sua estensione pratica. Il proprio “gabinetto d’affari”: lo Stato. Più i vari conglomerati statuali transnazionali che hanno preso vita nel corso dei decenni, su scala continentale e intercontinentale, a spese della democrazia. Tipo una Banca Europea che non è eletta da nessuno, e tuttavia regge attualmente il “sistema Europa”, decidendo direttamente, senza censure possibili, cosa sia meglio per i suoi cittadini. Una funzione ribadita dal recente progetto di Costituzione Europea, che santificava il libero mercato. Progetto respinto dalle cittadinanze di vari paesi (Francia, Danimarca, Irlanda), tra le poche chiamate a un voto diretto; e, poiché quel voto non era quello auspicato dalle classi dominanti, rimandate a votare come scolaretti colti in fallo, oppure aggirate a colpi di decreto e di maggioranze parlamentari. In nome della democrazia. Si dirà: ma lo Stato è democrazia. I cittadini votano i loro rappresentanti, e costoro operano scelte in nome della pubblica utilità, per il bene di tutti. Non è affatto così. Lo Stato è anzitutto economia. Può scegliere di intervenire o non intervenire, sono scelte sue. A seconda delle decisioni, attraverso i propri organi interni o collaterali, rimodella o rinomina le classi sociali, amplia o contrae i servizi, indirizza l’imposizione fiscale e, attraverso il monopolio dell’uso della forza, reprime o neutralizza i segmenti riluttanti alla sua disciplina. Lo Stato è come un lombrico: contrae o prolunga il proprio corpo. Si proclamerà in ritirata nei periodi di prosperità del capitale, si allungherà nei momenti in cui il capitale va protetto dall’ennesima turbolenza. Se la crisi è grave per davvero, si spingerà fino a nazionalizzare i settori da proteggere e salvaguardare. Fase nella quale i commentatori meno avveduti parleranno di uno Stato neoliberista che si fa keynesiano, o addirittura “socialista”.

Stronzate. Marxisti e post-marxisti, o anche marxisti “eretici”, non hanno mai parlato di “nazionalizzazione”, bensì di “socializzazione” dei mezzi di produzione. La nazionalizzazione è un mezzo fra i tanti in mano al capitale. Per fare un esempio, la Corea del Sud, durante la crisi delle “tigri asiatiche”, nazionalizzò temporaneamente il sistema bancario, che poi cedette (con lucro) ad acquirenti privati. La “socializzazione” è qualcosa di molto diverso, e implica una capacità decisionale dal basso, dagli operai che partecipano alle scelte strategiche di una direzione eletta dalla base, e dunque revocabile. Attualmente nessuna delle due alternative, nazionalizzazione o socializzazione, appare praticabile; salvo la prima, applicata occasionalmente in circostanze d’emergenza dallo stesso Stato-capitale. Ma perché insisto nel rendere indissolubile questo binomio, Stato e Capitale? Perché ritengo che entrambi diano corpo, congiuntamente, al “fabbricante di classi”? Non è lo Stato la proiezione diretta della volontà degli elettori, che, scegliendo i propri parlamentari, avvia, nei sistemi democratici, la sustanziazione di un potere decisionale che interpreta la volontà collettiva?

10. Dove sta la democrazia

No, non lo è. Intanto, l’autonomia degli eletti dagli elettori è postulata da quasi tutta la scienza politica contemporanea (Ralf Dahrendorf, Anthony Giddens e molti altri). Si rimproverano spesso gli eletti quando questi si adeguano alla volontà di chi li ha mandati in parlamento (a volte ciò è chiamato “populismo”), dando per scontata e auspicabile l’autonomia del ceto dirigente dai votanti che lo esprimono. Inoltre, sottili meccanismi di selezione, capacità diseguali di modellare l’opinione pubblica, influenze collettive di stampo culturale e/o mediatico, pure e semplici menzogne (si veda il recente studio di Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso, Derive / Approdi, 2008), conducono a una “rappresentazione” della democrazia ben diversa da come essa stessa ama definirsi, cioè proiezione di una volontà comune. Lo dimostrano molti studi sul perpetuarsi delle élites parlamentari: condivisione dinastica di un seggio, in cui ci si trasmette il potere secondo linee di sangue (Filippo Burzio è stato tra i migliori analisti di questa degenerazione); prevalere delle imposizioni di partito sull’espressione delle preferenze; accessibilità differenziata ai media e alla visibilità da parte delle masse. Aveva ragione Marx quando, ne La questione ebraica, poneva in rilievo la fondamentale ipocrisia del sistema detto impropriamente “rappresentativo”: fingere che, con l'introduzione del suffragio universale, tutti i soggetti titolari di voto abbiano eguali diritti, mentre non è affatto così. Chi è in posizione subalterna non ha modo di condizionare o di alterare il processo elettorale, mentre chi gode di uno status sovraordinato lo ha, naturalmente. Il Diritto con la D maiuscola, nel sancire che tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge, sancisce la “menzogna democratica”: l’uguaglianza che afferma di fatto non esiste, la comunicazione è in mano ai privilegiati che possono comprarsela e dominarla. Non esiste oggi nessuna democrazia reale, né in Oriente né in Occidente. Nella seconda fetta del mondo c’è ancora libertà di parola, però non tocca alcun serio processo decisionale. Si può dire di tutto (lo sto facendo), ma le parole liberamente espresse non smuovono più vento di un battito d’ali di farfalla. Sono lasciate volare perché innocue. Lo Stato non è la democrazia all’opera. E’ invece la sede di pianificazione del capitale, dove, da una prospettiva più ampia di quella aziendale, si disegnano i progetti di sfruttamento di grande portata. Si potrà decidere se stringere o allentare le redini, se è il caso di nazionalizzare o di privatizzare. Il “fabbricante di classi” non è neutrale, sa lui come gestire la subalternità e far guadagnare i fantini. Ogni tanto cade di sella, è vero. Ma nessuno si illuda che in quel momento –le crisi – batta davvero la testa, e si converta alla causa dei ronzini.

Esiste un solo evento che fonda democrazia diretta e la fa duratura. E’ quello della lotta, quando la classe operaia, pur scomposta nelle svariate denominazioni in cui il capitale l’ha frammentata (operai veri e propri, precari, impiegati “fannulloni”, ceto medio alla fame, nugoli di senza casa, lavoratori autonomi che autonomi non sono per niente, studenti riluttanti a entrare in questo bel mondo, fornitori di servizi “esternalizzati”, migranti vittime di un nuovo schiavismo, ecc.), scendono nella piazza e se la tengono. La fase acuta durerà poco, ma sedimenterà. Possono nascerne organi di decisione dal basso capaci di innescare future conflittualità.

E’ minoranza? Può darsi, ma è maggioranza tra chi è attivo, e non schiavo del voto e degli equilibri parlamentari. Contrapposto a chi è passivo e, contento di votare ogni cinque anni, per eleggere rappresentanti incontrollabili, vive solo in sondaggi regolarmente consensuali. Di peso politico e democratico analogo a chi, col televoto, decide chi resterà nell’Isola dei Famosi.

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