Riconoscere Israele? Sarebbe una trappola
Le ragioni di Hamas

Jonathan Cook

Counterpunch, 14 dicembre 2006
Traduzione nostra


Il problema che la leadership palestinese si trova a dover affrontare se vuole portare un po' di aiuto ai milioni di persone che vivono nei territori occupati per alleviare le loro sofferenze collettive, sembrerebbe assai semplice. Come un bambino disobbediente che deve soltanto chiedere "scusa" per poter uscire dalla stanza dove era stato messo in punizione, il governo di Hamas dovrebbe solo dire "Riconosciamo Israele", ed ecco che Cisgiordania e Gaza sarebbero inondate dagli aiuti e dai buoni propositi della comunità internazionale.

Era questo in definitiva il succo del recente discorso del primo ministro israeliano Ehud Olmert durante una visita nel Negev, in cui aveva fatto intendere che, se solo Hamas si fosse pentito, il suo paese era pronto a prestare soccorso alle masse affamate di Gaza, al di là deldeserto. "Riconosceteci e siamo pronti a parlare di pace", questo il messaggio implicito.

Il popolo palestinese è stato duramente punito per aver democraticamente scelto all'inizio dell'anno di eleggere un governo Hamas che Israele e le potenze occidentali non approvano:

- è stato imposto un blocco economico che azzera le risorse a disposizione dell'Autorità Palestinese per finanziare i servizi e pagare gli stipendi dei suoi numerosi dipendenti;
- milioni di dollari di tasse dovute ai palestinesi sono stati illegalmente trattenuti da Israele, esacerbando la crisi umanitaria; - il blocco fisico di Gaza imposto da Israele ha impedito ai palestinesi di esportare i loro prodotti, soprattutto derrate deteriorabili, e di importare beni essenziali come cibo e medicine;
- gli attacchi militari israeliani, oltre a uccidere indiscriminatamente gli abitanti, hanno danneggiato infrastrutture vitali a Gaza, comprese le forniture elettriche e idriche;
- migliaia di famiglie sono state divise perché Israele ha usato il pretesto del suo scontro con Hamas per non rinnovare i visti dei palestinesi con passaporto straniero.

Le le parole magiche "Riconosciamo Israele" potrebbero por fine a tutte queste sofferenze. Ma allora perché il primo ministro Ismail Hanyeh ha giurato la settimana scorsa che non le avrebbe mai pronunciate? Hamas è forse così pieno di odio e di ribrezzo per Israele come stato ebraico da non poter fare una semplice dichiarazione di buona volontà?

Ci si scorda facilmente del fatto che, se anche la situazione si è drammaticamente deteriorata negli ultimi mesi, i problemi dei palestinesi non sono certo iniziati con l'elezione di Hamas. L'occupazione israeliana dura da quattro decenni, e nessun esponente palestinese è mai stato in grado di strappare a Israele la promessa di uno Stato realmente sovrano in tutti i territori occupati: non i mukhtar, gli arrendevoli leader locali che per decenni, dopo l'espulsione dei dirigenti nazionali, sono stati gli unici rappresentanti palestinesi cui fosse permesso di parlare; non l'Autorità Palestinese sotto la direzione laica di Yasser Arafat, che ritornò nei territori occupati a metà degli anni Novanta dopo il riconoscimento di Israele da parte dell'OLP; non la leadership del suo successore, il "moderato" Mahmoud Abbas che ha subito chiestola fine dell'Intifada armata; e ora nemeno i dirigenti di Hamas, nonostante abbiano ripetutamente proposto una tregua di lunga durata (hudna) come prima passo per costruire la fiducia reciproca.

Ben pochi palestinesi pertanto hanno dubbi sul fatto che, se anche Hamas fosse estromesso dal governo e questo fosse sostituito da un governo di unità nazionale o di tecnocrati o dello stesso Fatah, Israele continuerebbe a rafforzare l'occupazione, proprio come ha fatto durante il preteso processo di pace negli anni di Oslo, quando il numero dei coloni ebrei nei territori occupati è raddoppiato.

Per Israele ottenere questa questa piccola concessione da Hamas è assai più importante di quanto molti osservatori non riescano a cogliere. Una dichiarazione di riconoscimento di Israele avrebbe conseguenze molto più profonde di una semplice accettazione di precondizioni poste da Israele per trattare; significherebbe che Hamas si è infilato nella stessa trappola allestita in precedenza per Arafat e Fatah, una trappola costruita per rendere impossibile una soluzione pacifica del conflitto.

La trappola raggiunge i suoi obiettivi in due modi.

In primo luogo, come molti hanno compreso, almeno tra gli osservatori più attenti, il riconoscimento da parte di Hamas del "diritto di esistere" di Israele significherebbe in realtà per il governo palestinese la rinuncia pubblica all'obiettivo di lottare per la creazione di un vero Stato palestinese.

Questo perché Israele si rifiuta di precisare i suoi futuri confini, lasciando del tutto aperto l'interrogativo della effettiva estensione della "esistenza" che chiede ad Hamas di riconoscere. Sappiamo che nessuno tra i leader israeliani parla di un ritorno di Israele entro confini uguali o anche solo prossimi a quelli precedenti alla guerra del 1967.

Ma senza il ritorno ai confini precedenti al 1967 (ivi compreso un supplemento di buona volontà da parte di Israele per assicurare il libero passaggio tra Gaza e la Cisgiordania) non esiste nessuna possibilità di veder nascere un vero Stato palestinese. Ed è chiaro che in futuro la posizione di Israele non sarà più flessibile. Tutti i dirigenti israeliani, nessuno escluso, si sono sempre rifiutati di riconoscere i palestinesi, prima come popolo e ora come nazione. E, data l'ipocrisia strutturale dell'occidente quando si tratta dei palestinesi, nessuno ha mai proposto che Israele si impegni in questo senso.

I governi israeliani hanno goduto sempre della massima comprensione per il loro rifiuto di dare ai palestinesi quello stesso riconoscimento che esigono da loro. Golda Meir, primo ministro laburista, è famosa per aver detto che i palestinesi non esistono, e per aver aggiunto, nel 1971, che "i confini dipendono dalle località dove vivono gli ebrei, non da una linea segnata su una carta geografica". E ordinò che la Linea Verde, il confine israeliano fino alla guerra del 1967, venisse cancellata da tutte le carte geografiche ufficiali. La situazione prodotta da questa decisione ha occupato le prime pagine dei giornali la settimana scorsa, quando il ministro dell'istruzione pubblica, la colomba Yuli Tamir, ha causato un putiferio per aver emanato una circolare che reintroduceva la Linea Verde nei testi scolastici israeliani. Si sono subito levate alte protesta da politici e rabbini contro la sua "ideologia di estrema sinistra".

Gli insegnanti israeliani sostengono che la possibilità di avere libri di testo che mostrino nuovamente la Linea Verde, o che evitino di parlare di "Giudea e Samaria", i nomi biblici della Cisgiordania, o riportino le città arabe nelle carte geografiche di Israele, sono pressoché nulle. Come ha detto il professor Yoram Bar-Gal, presidente del dipartimento di geografia dell'Università di Haifa, gli editori privati che stampano libri di testo potrebbero rifiutarsi di sobbarcarsi ulteriori costi per la ristampa delle carte geografiche.

Sensibile al danno che lo scontro potrebbe produrre all'immagine internazionale di Israele, e ben sapendo che la direttiva di Tamir ha assai scarse possibilità di essere applicata, Olmert ha approvato in via di principio il cambiamento. "Non c'è niente dimale ad evidenziare la Linea Verde", ha detto. Ma poi, vanificando completamente la sua approvazione, ha aggiunto che "bisogna sottolineare che la posizione del governo e l'opinione pubblica escludono un ritorno ai confini del 1967".

Il secondo elemento della trappola viene compreso con molto maggiore difficoltà. Esso spiega la strana formulazione della richiesta che Israele fa ad Hamas quando non chiede semplicemente di "riconoscere Israele", ma di riconoscere "il diritto di esistere di Israele". La differenza non è solo questione semantica. Il concetto di uno stato che avrebbe diritti non è solo strano ma estraneo al diritto internazionale. Le persone hanno diritti, non gli stati. Ed è proprio questo il punto: quando Israele chiede che venga riconosciuto il suo "diritto di esistere", è sottinteso che non stiamo parlando del riconoscimento di Israele come normale stato nazionale ma come lo stato di un popolo specifico, gli ebrei.

Pretendendo che venga riconosciuto il suo diritto di esistere, Israele si vuole garantire l'assenso palestinese a che venga scolpito nella roccia il carattere di Israele come Stato esclusivo degli ebrei, uno Stato che privilegia i diritti degli ebrei al di sopra di ogni altro gruppo etnico, religioso o nazionale presente sul territorio. Le implicazioni di un simile Stato vengono per lo più ignorate, sia in Israele che in Occidente.

Per quasi tutti gli osservatori, si tratta semplicemente del fatto che Israele deve impedire il ritorno di milioni di palestinesi che stanno languendo nei campi profughi della regione, le cui case in Israele sono state espropriate a beneficio degli ebrei. Se il ritorno dei profughi fosse consentito, la maggioranza ebraica di Israele svanirebbe in poco tempo e Israele non potrebbe più chiamarsi Stato ebraico, se non nel senso in cui il Sud Africa dell'apartheid era uno stato bianco.

Sembra che questa conclusione sia condivisa dal primo ministro italiano Romano Prodi che, dopo un tour promozionale nelle capitali europee del telegenico ministro degli esteri israeliano signora Tzipi Livni, andrebbe dicendo in privato, secondo il Jerusalem Post, che i palestinesi dovrebbero dar garanzie a Israele di non mettere mai in discussione il suo carattere ebraico. Gli esponenti israeliani si fregano le mani per quella che considerano la prima breccia nel sostegno europeo al diritto internazionale e al diritto dei profughi. "E' importante portare tutti su queste posizioni", come ha detto un esponente governativo al Jerusalem Post.

Ma in realtà le conseguenze del riconoscimento di Israele come stato ebraico da parte dei dirigenti palestinesi sono assai più profonde della questione del futuro dei profughi. Nel mio libro "Sangue e Religione", ho delineato queste gravi conseguenze sia per i palestinesi nei territori occupati che per il milione circa di palestinesi che vivono in Israele come cittadini che dovrebbero avere gli stessi diritti dei cittadini ebrei.

La mia tesi è che la necessità di mantenere a ogni costo il carattere ebraico di Israele è la causa prima del conflitto con i palestinesi. Nessuna soluzione è possibile finchè Israele insisterà nel privilegiare la cittadinanza per gli ebrei su tutti gli altri gruppi, e nel distorcere la realtà territoriale e demografica della regione, per assicurarsi che le statistiche continuino a favorire gli ebrei.

Anche se in ultima analisi il ritorno dei profughi rappresenta la minaccia più grave per la sua "esistenza", Israele ha una preoccupazione demografica assai più immediata: il rifiuto dei palestinesi della Cisgiordania di abandonare le porzioni di territorio che Israele vuole incorporare (e che chiama con i nomi biblici di Giudea e Samaria). Nell'arco di un decennio i palestinesi dei territori occupati e il milione che vive all'interno di Israele supererà per numero gli ebrei, sia quelli che vivono in israele sia i coloni della Cisgiordania. Questa è stata una delle ragioni principali per il "disimpegno" da Gaza: pur continuando a occupare militarmente quella piccola porzione di territorio, Israele ha potuto dire che non è più responsabile per la popolazione che si trova al suo interno. Ritirando qualche migliaio di coloni dalla Striscia, 1,4 milioni di palestinesi di Gaza sono stati istantaneamente cancellati dai dati demografici.

Benchè la perdita di Gaza abbia posticipato di qualche anno il pericolo di una maggioranza palestinese nello Stato ampliato a cui punta Israele, non ha però il potere magico di garantire che Israele continui a esistere come stato ebraico e ciò perché i cittadini palestinesi di Israele, pur essendo una minoranza che complessivamente non supera un quinto della popolazione israeliana, hanno in sè il potenziale per far crollare tutto il castello di carte.

Negli ultimi dieci anni hanno sempre chiesto che Israele venga trasformato da Stato ebraico, che sistematicamente li discrimina e nega la loro identità palestinese, in uno "Stato di tutti i cittadini", una democrazia liberale che garantisca a tutti i cittadini, ebrei e palestinesi, uguali diritti. La rivendicazione di uno Stato di tutti i cittadini è stata definita da Israele sovversione e tradimento, perchè si sono resi conto che, se lo Stato ebraico fosse diventato una democrazia liberale, i cittadini palestinesi avrebbero giustamente chiesto: - il diritto di sposarsi con palestinesi dei territori occupati e della diaspora, conferendo loro la cittadinanza israeliana ("un diritto al ritorno per la porta di servizio" come lo hanno definito alcuni funzionari; - il diritto di far rimpatriare in Israele i parenti palestinesi in esilio con un programma di Diritto al Ritorno che sarebbe una pallida ombra di quella Legge del Ritorno che garantisce a ogni ebreo ovunque nel mondo il diritto automatico alla cittadinanza israeliana.

Per evitare il primo pericolo, Israele ha approvato nel 2003 una legge chiaramente razzista che praticamente impedisce ai palestinesi con cittadinanza israeliana di portare un coniuge palestinese in Israele. Le coppie di questo tipo non hanno dunque altra speranza che cercare asilo all'estero, se trovano paesi disposti ad accoglierli. Ma proprio come il disimpegno da Gaza, le leggi di questo tipo sono espedienti tattici che rinviano ma non risolvono il problema dell'"esistenza" di Israele. Per questo, lontano dai riflettori, Israele ha formulato un complesso di idee che porterebbero ad allontanare dai suoi confini ampi strati di popolazione palestinese e a privare i "cittadini" che ancora rimanessero dei diritti politici, a meno che non giurino lealtà a uno "Stato democratico ebraico", rinunciando così alla rivendicazione di una democrazia liberale.

Questa è la linea del Piave per lo stato ebraico, come lo era per l'apartheid bianco in Sud Africa: se dobbiamo sopravvivere, dobbiamo fare tutto quello che è necessario per mantenere il potere, anche se ciò significa violare sistematicamente i diritti umani della popolazione che governiamo non appartenente al nostro gruppo.

In ultima analisi però, consentire che Israele rimanga uno Stato ebraico avrebbe conseguenze per noi tutti, dovunque viviamo - e non solo per le ricadute della continua e crescente rabbia nel mondo arabo e musulmano di fronte ai due pesi e alle due misure applicate dall'Occidente nel conflitto tra Israele e i palestinesi.

Dato che per Israele il problema principale non è la pace con i vicini e la soluzione dei problemi della regione ma la necessità di assicurare a tutti i costi la maggioranza ebraica per proteggere la sua "esistenza", Israele è disposto ad agire in modi che mettono a repentaglio la stabilità regionale e globale.

Un piccolo assaggio si è avuto col ruolo svolto dai sostenitori di Israele a Washington nel perorare l'invasione dell'Iraq, nonchè quest'estate con l'assalto israeliano al Libano. Ma la cosa è resa ancora più evidente dal rullar di tamburi per la guerra contro l'Iran.

Israele sta guidando i tentativi di caratterizzare il regime iraniano come profondamente antisemita, e le sue presunte ambizioni di dotarsi di armi nucleari come dirette all'unico obiettivo di "cancellare Israele dalla carta geografica", secondo la traduzione volutamente distorta di un discorso del presidente Mahmoud Ahmadinejad.

La maggior parte degli osservatori ha accettato l'idea che Israele sia veramente preoccupato per la sua sicurezza da un attacco nucleare, anche se la sola idea che anche il più fanatico dei regimi islamici possa, senza provocazione, lanciare missili nucleari contro un piccolo territorio che ospita, a Gerusalemme, alcuni dei luoghi più sacri all'Islam è del tutto fuori dalla realtà.

Ma c'è in realtà un'altra ragione che spiega la preoccupazione israeliana per un Iran dotato di armi nucleari, e non ha niente a che fare con le idee tradizionali di sicurezza.

Il mese scorso, Ephraim Sneh, uno dei generali israeliani più in vista e ora viceministro della difesa nel governo Olmert, ha rivelato che la principale preoccupazione del governo non è la minaccia che Ahmadinejad possa lanciare missili nucleari su Israele ma l'effetto che il possesso da parte dell'Iran di tali armi può avere sugli ebrei che pensano che Israele debba avere il monopolio della minaccia nucleare.

Se l'Iran si dotasse di queste armi, "la maggior parte degli israeliani preferirebbero non vivere qui; la maggior parte degli ebrei preferirebbero non venire qui con le famiglie e gli israeliani che vivono all'estero potrebberoŠ Ho paura che Ahmadinejad potrebbe uccidere il sogno Sionista senza pigiare un bottone. Ecco perché dobbiamo impedire a tutti i costi a questo regime di dotarsi di capacità nucleari".

Insomma, il governo israeliano sta pensando di sferrare un attacco preventivo contro l'Iran o di incoraggiare gli Stati Uniti a farlo - nonostante le terribili conseguenze per la sicurezza globale - semplicemente perché un Iran dotato di armi nucleari potrebbe rendere Israele un posto meno attraente in cui vivere per gli ebrei, indurre una crescente emigrazione e spostare la bilancia demografica in favore dei palestinesi.

Si potrebbe innescare una guerra regionale e forse mondiale solo per garantire la continuità dell'"esistenza" di Israele come stato che offre privilegi esclusivi agli ebrei.

Nell'interesse di tutti, dobbiamo sperare che i palestinesi e il loro governo di Hamas continuino a rifiutarsi di "riconoscere il diritto di Israele ad esistere".

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