NUOVO COLONIALISMO IN IRAQ (E ALTROVE)

John Galloway, il coraggioso deputato scozzese che ha da tempo abbandonato Blair, si dichiara stupefatto (“Manifesto”, 10 giugno 2006) dell'“immagine del vostro [italiano: n.d.r.] ministro degli esteri D'Alema che si abbraccia e scherza con un criminale come il ministro degli esteri del governo 'fantoccio' irakeno” nel quadro di “un'avventura neo-coloniale come quella in Iraq”. Galloway ha le idee molto chiare, come invece non sembra abbiano alti esponenti italiani e autorità spirituali, quali Napolitano, Prodi, Fassino, D'Alema, Parisi, Ratzinger ecc. … e anche Diliberto, Bertinotti, Giordano. Soprattutto intorno, ma non solo, all'episodio dell'ultimo caduto italiano a Nassiriya.

Oliviero Diliberto viene contestato dal fratello dell'ultimo caduto (“Corriere della Sera”, 9 giugno 2006) con il rimprovero che questo “politico di estrema sinistra” non comprende come il caduto stesse in Iraq per fornire aiuto agli irakeni, “non per fare la guerra”. Diliberto non ha dato nessuna risposta adeguata.

Quanto a Fausto Bertinotti, al funerale dello stesso caduto, è stato affrontato pubblicamente (“Il Messaggero”, 10 giugno 2006) dal generale D'Avossa che lo ha apostrofato come “opportunista di turno che non ha rispetto per i nostri militari caduti nell'adempimento del dovere”. Anche qui nessuna risposta pertinente.

Il messaggio del Papa per lo stesso evento parla ancora una volta di caduto per “la sicurezza, la giustizia e la pace” (“Il Messaggero”, 10 giugno 2006).

Il Presidente della Repubblica (“Il Messaggero”, 10 giugno 2006) evoca la seconda parte dell'articolo 11 Cost. per sostenere la legittimità o addirittura la doverosità di “missioni di pace” nel quadro non solo ONU, ma anche NATO o Unione Europea.

Alcune esternazioni. Fassino (“Il Corriere della Sera”, 2 giugno 2006) si inalbera perché “la sinistra rischia di regalare alla destra il tema della democrazia e dei diritti umani”: competizione dunque sul terreno della “esportazione della democrazia”, che è però inammissibile in base a norme primordiali quali l'uguale indipendenza e sovranità degli Stati, l'autodeterminazione, il divieto di mutamento di regime dall'esterno.

Prodi (“La Repubblica”, 7 giugno 2006) parla di “caduti nel servizio del dovere per la difesa della pace e contro un terrorismo fanatico che non risparmia nessuno”. Peccato che la pace viene difesa contro chi resiste all'aggressione al proprio paese e che nessun accenno viene fatto al terrorismo degli aggressori. Non sono questi ad aver rotto la pace? Per quel che è di D'Alema (“Il Corriere della Sera”, 6 giugno 2006), questi esprime solidarietà alle forze armate “ancora una volta duramente colpite nell'adempimento del loro dovere in una missione di pace”. Per il commento, vedi quanto osservato su Prodi e tutto il discorso successivo. Ma ancora D'Alema (“La Repubblica”, 7 giugno 2006) parla, a proposito del ritiro italiano, delle trattative con “un governo irakeno per la prima volta eletto democraticamente e riconosciuto come legittimo e indipendente dalla comunità internazionale”. Qui mancano gli elementi essenziali del diritto internazionale, a meno che non si ritenga che questi sono dettati dai potenti (la c.d. comunità internazionale, nozione fallace, ma abusatissima). E vedi ancora tutto il discorso successivo.

In tutti questi episodi si annida un dato di fondo che nutre l'equivoco o l'incapacità di replica: la ritenuta fondamentale giustezza (invece che criminalità!) dell'azione italiana (e degli altri occidentali) nei confronti del resto del mondo e, per ora, dei paesi islamici, criticabile magari nei mezzi (la guerra, la violenza, che però a questo punto viene rappresentata come propria a egual titolo di tutte le parti, con parificazione fra aggrediti e aggressori e anzi con privilegiamento di questi ultimi, “ricostruttori” e civilizzatori), ma non criticata nei fini. Alla base, gravi errori anche giuridici.

Cominciamo dal Presidente Napolitano, che fa ricorso all'ultima parte dell'art. 11 Cost. per giustificare le “missioni” militari all'estero, affermando che esse si fonderebbero sulle legittimazioni date nel quadro di organizzazioni internazionali ai fini della “pace e giustizia fra le nazioni”, come appunto menzionate da quella norma. E cita specificamente l'ONU, la NATO e l'Unione Europea. Ora, qui si cela, con tutto il rispetto, un primo marchiano errore. La legittimazione per operazioni del genere nel quadro di organizzazioni internazionali presuppone, come prima assoluta condizione, l'appartenenza al medesimo contesto di organizzazione internazionale di tutti gli Stati implicati nella vicenda, anzitutto di quello in qualche misura “oggetto passivo” delle misure. Solo l'ONU potrebbe rispondere, se tutti i paesi interessati ne fossero membri, a tale condizione primordiale. La NATO e l'Unione Europea non possono legittimare nulla nei confronti di paesi che ne sono estranei, come ad es. l'Iraq o l'Afghanistan. Non cambia niente sotto questo profilo se l'azione nei confronti di un dato paese estraneo al quadro organizzativo sia effettuata da uno o più Stati per conto loro o nel contesto della NATO o dell'Unione Europea.

Considerato che anche per l'ONU – che non ha sovranità e non è supergoverno mondiale – è comunque necessario il rispetto assoluto delle condizioni previste dalla Carta (oggi fin troppo spesso e molto gravemente nei fatti superate), resta poi il dato fondamentale che NATO o Unione Europea hanno ambiti regionali ben definiti e che quindi in linea di massima le operazioni fuori area sono anche contrarie ai trattati fondativi e naturalmente alle normative statali che ad essi si riferiscono. Da respingersi è pure la prassi per cui l'ONU potrebbe autorizzare organizzazioni regionali, come talora è avvenuto per la NATO, fuori area. Per quanto riguarda la NATO, ancora e per di più, la modifica intervenuta con l'accordo non formale di capi di Stato e di governo dell'aprile 1999 a Washington (per l'Italia, D'Alema) costituisce un'operazione mostruosamente anticostituzionale: anzitutto per la mutazione da trattato difensivo a trattato per la tutela degli interessi dei membri (quindi, con implicazioni anche di possibili interventi ed aggressioni: contrarietà assoluta all'art. 11 Cost.); poi, per l'estensione dell'area potenzialmente a tutto il pianeta, come vediamo attuato oggi. A parte l'osservazione già fatta sull'art. 11 Cost., la modifica del Trattato NATO per quanto ne riguarda le finalità e l'area contrasta con l'art. 80 Cost., che esige il passaggio in Parlamento di modifiche del genere, apportate a un accordo internazionale che nel 1949 era passato nel Parlamento stesso. Sul piano internazionale queste modifiche sono in ogni momento invalidabili per contrasto fondamentale con le norme statali che regolano la competenza a stipulare accordi internazionali. E' chiaro che le “missioni” basate su norme internazionali invalide o invalidabili sono di per sé illegittime e costituiscono aggiramenti dell'art. 80 Cost.: le normative che specificamente le approvano o finanziano non rappresentano sanatoria, bensì prosecuzione dell'illegittimità.

Premesse queste considerazioni sulle autorevoli ma, sempre con il rispetto per l'alta funzione, poco centrate affermazioni del Presidente Napolitano (che, insieme a molti altri, sembra ritenere che la legittimazione internazionale di un'azione militare sia data non da un quadro normativo e organizzativo condiviso con lo Stato “imputato”, bensì dalla partecipazione di più soggetti all'azione: molta brigata, vita beata…), va spesa qualche parola sulla finalità conclamata della maggior parte delle attuali azioni militari all'estero, genericamente e cumulativamente definite “missioni di pace”. Questa dizione è assolutamente impropria rispetto a quelle situazioni (Iraq senza il minimo dubbio e forse anche Afghanistan), nelle quali vi è una diffusa guerriglia che lotta per l'indipendenza e quindi l'autodeterminazione, tanto più se – così è senza alcun dubbio in Iraq, ma appare plausibile anche per l'Afghanistan – si tratta, attraverso la Resistenza, della prosecuzione della guerra contro l'aggressione allo Stato e al popolo irakeno (e afghano). Anche se sgradito a molti, va ricordato che il governo di Saddam Hussein in Iraq e quello dei talebani in Afghanistan erano (sono) i governi internazionalmente legittimi (sia pur in differente modo) e che la lotta in forma di guerriglia dei due popoli soprattutto intorno ai nuclei costituiti rispettivamente dal Baath irakeno e dai talebani è prosecuzione della difesa contro l'aggressione-occupazione, è dunque Resistenza (e non lotta di “insorti” contro un potere legittimo preesistente). Sull'Afghanistan, chiare sono le idee in proposito del generale Fabio Mini (“Il Manifesto”, 22 giugno 2006), secondo il quale “nessuno ha dichiarato la fine delle ostilità con i talebani” e quindi contro questi “la guerra si è spostata laddove si spostavano i resti del precedente regime afgano”. Le “missioni”, anche se intervenute dopo la prima fase acuta del conflitto, come quella italiana in Iraq, operano in un territorio posto sotto occupazione bellica e partecipano dunque, qualora non godano del consenso anche della Resistenza, all'occupazione stessa e pertanto all'aggressione. L'operazione NATO in Afghanistan è illegittima sotto svariati profili, alcuni dei quali sono posti bene in luce dal generale Mini. Gli irakeni (e gli afgani) che accettano di fatto l'occupazione sono collaborazionisti. Le “autorità” locali e il “processo politico” installati e iniziati per opera degli occupanti, sulla base delle normative di occupazione e del controllo da parte degli occupanti (controllo che risulta, al di là delle finzioni giuridiche, se non altro dal fatto che senza le truppe occupanti il fittizio governo irakeno – e afgano –, gli altri fittizi organismi, il fittizio “processo politico” cadrebbero immediatamente), rientrano nella problematica dei governi fantoccio o quisling, illegittimi alla stregua delle norme internazionali sull'occupazione bellica e ineffettivi (e nulla modificano i conclamati “processi elettorali” verificatisi in situazione di occupazione militare, e quindi illegittimi e non validi). Nulla rimedia la copertura da parte ONU che, essendo stata data anche a certune di tali missioni, in primis a quella in Iraq, senza condanna dell'aggressione e senza corretta considerazione della Resistenza e dunque della reale situazione giuridica, è da considerarsi totalmente invalida per contrasto con norme imperative del diritto internazionale.

Contrasta del pari frontalmente con queste l'aberrante concetto di nation-building, per cui Stati stranieri eventualmente “incaricati” dall'ONU, a tal fine del tutto incompetente (e in modo ancor più aberrante se trattisi degli Stati aggressori), si dedicano ad esportare i loro modelli istituzionali negli Stati occupati, in particolare la c.d. “democrazia”, e a congegnare, insieme ad elementi locali collaborazionisti, le strutture istituzionali degli Stati aggrediti ed occupati. Più chiaro contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli e di autocostituzione e indipendenza politica degli Stati non potrebbe darsi: ed è perfino superfluo ricordare l'art. 78 Carta ONU che per gli Stati divenuti membri delle N.U. (tali l'Iraq e l'Afghanistan) vieta le amministrazioni fiduciarie e naturalmente tutto quanto a queste sia assimilabile. Per tutti questi motivi le concezioni espresse dagli esponenti politici sopra menzionati (nel complesso facenti capo all'Unione, ma del resto condivise con il c.d. Polo delle libertà), sono espressione nuda e cruda di imperialismo e di rinnovato colonialismo, di una restaurazione del colonialismo. Proprio così Parisi (“La Repubblica”, 12 giugno 2006), ancora una volta nel quadro della “collaborazione con Baghdad” (il governo fantoccio!): “Abbiamo dato tutto il sostegno possibile per la ricostruzione economica e sociale del paese e per la costruzione della democrazia irakena” (il commento risulta da tutto quanto sinora detto). Per l'Afghanistan, Parisi rilancia (“Liberazione”, 21 giugno 2006) una missione NATO, che ormai è di guerra. Particolarmente significativa l'esternazione di Parisi sul “Corriere della Sera” del 14 giugno 2006, sia per la collaborazione con il governo fantoccio irakeno sia per la giustificatezza dell'intervento in Afghanistan “svolto dalla NATO in ottemperanza ad un mandato delle Nazioni Unite”. Anche qui vale tutto il discorso fatto.

Una parola sul neosegretario di R.c., Giordano. No ai militari, sì alla cooperazione economica e simile. Si tratta sempre di sostegno al governo fantoccio irakeno e quindi agli occupanti, caro Giordano, e dunque contro la Resistenza. Ancora: no all'Afghanistan, sì… al Darfur. Siamo in piena agenda dell'imperialismo: proprio “Liberazione” (21 marzo 2006) ci informava che “Bush preme per ottenere dalla NATO una missione in Darfur”. Ma il Sudan non è un paese sovrano? Che china scivolosa, caro Giordano (“Il Corriere della Sera”, 11 giugno 2006).

Quanto a Diliberto e a Bertinotti, la ragione dell'insignificanza assoluta delle loro “risposte” a contestazioni che essi si sono ben meritate sta nell'errore di fondo della loro condotta, che è del resto comune all'errore degli altri summenzionati esponenti. Benedetto Croce insegna che alla base dell'errore teorico è generalmente un interesse pratico: che nel caso dei due esponenti “comunisti” sta nell'indefettibile partecipazione al governo di centro-sinistra, persino di fronte alle imprese criminali (in senso anche strettamente giuridico) che questo compie o prosegue. La risposta che si sarebbe dovuta dare ai contestatori sarebbe stata una sola: al di là della pietà umana per i caduti (ma che è da esprimersi in proporzione con i numeri degli irakeni uccisi a causa dell'impresa dell'imperialismo), è solo grottesco e offensivo che si parli di “missione di pace” e di “aiuto” a un popolo aggredito e occupato da parte di chi lo ha aggredito e occupato o di chi si pone al fianco dell'aggressore e dunque contro la legittima Resistenza, che inevitabilmente fa vittime tra gli occupanti. Solo in tal modo il fratello del caduto e il generale avrebbero ricevuto la giusta e conveniente risposta. Ma né Diliberto né Bertinotti sono stati all'altezza: frutto appunto dell'errore, per cui moralisticamente rifiutano la guerra, ma rifuggendo dall'essenziale nodo giuridico e politico della questione, la sacrosanta Resistenza che prosegue la difesa dell'indipendenza contro l'aggressione.

Aldo Bernardini

Roma, 26 giugno 2006


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