Il programma internazionale dell'Unione:
pasticci e imbrogli

Il programma dell'Unione per le elezioni del 9-10 aprile, generico e vago nell'insieme, non esente da contraddizioni, incerto per l'applicazione, presenta nella parte internazionale aspetti e proposte che dobbiamo nel complesso energicamente respingere. Al di là di qualche considerazione generale, svolgerò però un esame specifico solo per la questione irakena.

La mitologia dell'Europa come luogo di “democrazia” e di “socialità” copre l'aspetto più inquietante della “costruzione europea”, e cioè quello della compenetrazione nel sistema imperialistico globale. La auspicata abolizione del principio di unanimità delle decisioni (come la proposta di esclusione del “veto nazionale” nelle decisioni di politica estera “europee”) significa cancellazione delle eventuali differenze di scelte nazionali di politica internazionale e quindi mortificazione del principio di sovranità popolare, sia pur solo nel senso meramente formale delle attuali Costituzioni. L'insistenza sulla “democrazia” e sui “diritti umani”, intesi nel senso dei nostri sistemi, fornisce l'ideologia “nobilitante” comune a tutto lo schieramento imperialistico e la base per gli (assolutamente illegali) “interventi umanitari” e guerre preventive: “Scegliamo di mettere al centro dell'azione dell'Italia la promozione della democrazia, dei diritti umani, politici, sociali ed economici, a cominciare dai diritti delle donne”. Bellissimi concetti che però, sganciati dai contesti e dalle storie reali, sono solo astratti, servono nel concreto a fiaccare le lotte di indipendenza e giocano come pretesto per gli interventi. Si veda ancora il cenno al “terrorismo come minaccia globale” che, nella sua apparente ovvietà, cancella ogni analisi sulle cause di fenomeni disparati racchiusi in quella denominazione sui rapporti di dominio mondiali. Non per caso manca qualunque accenno al “terrorismo di Stato”.

Può apprezzarsi quanto, a proposito dell'azione dell'ONU in base al capitolo VII, viene puntualizzato sulla necessità di distinguere “la funzione di polizia internazionale dalla guerra: il mandato dell'ONU, una forza delle Nazioni Unite, di natura tale da garantire la terzietà rispetto al paese e agli interessi in campo; la congruità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti”. Queste corrette affermazioni stigmatizzano come assolutamente illegittime, anche sotto questo specifico punto di vista, molte operazioni di guerra compiute pure sotto nominale copertura ONU (a cominciare dalla I guerra del Golfo). Avventata è poi l'interpretazione che si dà della Convenzione sul genocidio del 1948, che porrebbe ad ogni Stato un “dovere di autodifesa” nei confronti di quello che viene asserito (da parte di chi? non è detto) autore del presunto genocidio. In realtà manca qualunque più generale affermazione sull'esigenza che ogni azione delle Nazioni Unite sia legittima a termini della Carta, e non rassicura il richiamo alla risoluzione dell'Assemblea generale del 1950 “Uniting for Peace” (quella che venne utilizzata a copertura della guerra americana in Corea), una risoluzione già allora totalmente illegittima, che vorrebbe porsi a base di future azioni anche di forza. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sull'Iraq – mi riferisco qui solo a quelle dopo l'aggressione del 2003, e se ne farà ancora cenno – sono illegittime perché di fatto accettano la situazione creata dall'aggressione criminale. Assolutamente da rigettarsi è quanto viene affermato nella parte finale “Le nuove politiche di difesa”, nel senso che “non sia possibile un impegno delle Forze Armate italiane fuori dai confini nazionali senza un mandato diretto e preciso delle Nazioni Unite e della UE, e quindi nel rispetto dell'articolo 11 della Costituzione italiana”. Deve essere chiaro che le Nazioni Unite possono dare un “mandato” nel quadro stretto della legittimità della Carta; la UE non può dare alcun “mandato” rispetto a situazioni estranee al quadro europeo. Tutto il ragionamento comunque si basa implicitamente sull'accettazione, di enorme gravità per contrasto con l'art. 11 Cost. e con l'art. 80 Cost., della modifica della competenza della NATO da organizzazione di difesa a organizzazione potenzialmente di attacco e dal limite del quadro regionale nord-atlantico a tutto il pianeta, modifica effettuata con accordo informale di capi di Stato e di governo, non passato al Parlamento, nella riunione di Washington dell'aprile 1999 durante i bombardamenti alla Jugoslavia (per l'Italia, era presente Massimo D'Alema).

La parte dedicata all'Iraq è comunque quella che mostra il vero volto dell'Unione sul piano internazionale. “Consideriamo la guerra in Iraq e l'occupazione un grave errore”. No!!!! E' un crimine internazionale, e un gravissimo crimine. Non crediamo che ci si sia voluti rifare al famoso detto di Talleyrand (o di chi per lui): “E' peggio che un crimine, è un errore”. Più o meno consapevolmente, si è invece voluto derubricare il crimine. Che tale resta in base a fondamentali norme del diritto internazionale, cominciando da quelle, accettate anche da tutti gli Stati autori e compartecipi di quel crimine, contenute nella Carta N.U. e specificate da Dichiarazioni solenni dell'Assemblea generale, come quella del 1974 sulla “definizione dell'aggressione”, che è data dalla “invasione o attacco al territorio di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato o da qualunque occupazione militare, anche temporanea, risultante da una tale invasione o attacco” (quindi, anche quella italiana a Nassiryia), con la precisazione che “nessuna considerazione di qualsivoglia natura, politica, economica, militare o altro, potrebbe giustificare un'aggressione; una guerra di aggressione è un crimine contro la pace internazionale e dà luogo a responsabilità internazionale”. Aggiungiamo la Dichiarazione del 1981 sull'inammissibilità dell'intervento negli affari interni degli Stati, che, ribadito “il diritto sovrano e inalienabile di un Stato di determinare liberamente il suo sistema politico, economico, culturale e sociale, di sviluppare le proprie relazioni internazionali ed esercitare la sovranità permanente sulle sue risorse naturali senza intervento, ingerenza, sovversione ecc. dall'esterno”, riafferma il divieto di astenersi dall'uso della forza per “abbattere o cambiare il sistema politico di un altro Stato o il suo governo” e il divieto di “abuso di questioni sui diritti umani” come strumento di ingerenza. La Dichiarazione del 1984 sulla “realizzazione universale del diritto dei popoli all'autodeterminazione” riafferma “la legittimità della lotta dei popoli per la loro indipendenza, integrità territoriale, unità nazionale e liberazione dal dominio coloniale, apartheid ed occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, inclusa la lotta armata”. Abbiamo qui le coordinate fondamentali per valutare anche sotto un profilo giuridico la situazione irakena, pur se sarà necessario integrarle con ulteriori considerazioni.

Il nucleo fondamentale dell'azione criminale è stato proprio il cambio di regime e la pretesa di imporre un dato modello all'Iraq.

Il carattere specifico e l'azione politica del governo irakeno sotto la presidenza di Saddam Hussein – tesa comunque a costruire, tra mille ostacoli e difficoltà provocati anche dall'esterno, uno Stato irakeno indipendente, sovrano anche sulle risorse naturali, fortemente sociale, laico, pur con taluni aspetti ed azioni criticabili ed erronei – può certamente formare oggetto di critica politica, ma non di aggressione per il suo rovesciamento. Il governo di Saddam Hussein era (è) internazionalmente legittimo. E' escluso nel modo più assoluto che vi siano principi internazionali sui modelli di società e di governo degli Stati. La democrazia e i diritti umani intesi all'occidentale non fanno testo.

L'occupazione dell'Iraq è dunque criminalmente illecita: il c.d. processo politico “irakeno”, instaurato e incanalato dagli occupanti, avviene in regime di occupazione militare, che non consentirebbe neppure da questo punto di vista le operazioni di rifondazione di uno Stato irakeno modellato dagli occupanti. Tutto ciò non può portare, per il passato e ancor oggi, che a un regime fantoccio (quisling). Tale è anche l'attuale “governo” (considerato “non più provvisorio”) di al-Maliki.

L'esordio ad effetto del programma dell'Unione sull' “errore” in Iraq, che è un'interpretazione riduttiva ed erronea, porta all'inevitabile conseguenza di una parte propositiva del programma che, lungi dal cambiamento radicale di rotta, si iscrive nell'accettazione di fatto delle conseguenze dell'aggressione come imposte dagli aggressori, ed assume pertanto anch'essa carattere criminale. Se l'occupazione è solo un errore, che tocca il metodo dell'azione, non la sua concreta portata e le finalità (dichiarate e non: – la destituzione di Saddam Hussein, la “democrazia”, ecc.), le quali costituiscono invece la sostanza di un crimine internazionale, basta sostituire i militari con civili (peraltro da tutelarsi… militarmente) per considerarsi rientrati nella “legalità internazionale”.

L'inversione di rotta sarebbe così da realizzarsi “con la presenza di un'autorità internazionale (ONU) che superi l'attuale presenza militare e che affianchi il governo irakeno nella gestione della sicurezza, del processo di transizione democratica e della ricostruzione”. Si ignora dunque completamente la Resistenza irakena (che sarebbe poi ciò che turba la sicurezza…) ed anzi implicitamente ci si schiera contro di essa. Il richiamo al “governo irakeno”, ripetuto anche più avanti per quanto riguarda consultazioni per le modalità del ritiro delle truppe italiane, misconosce il carattere fantoccio dello stesso e rivela quindi l'adesione all'ideologia degli invasori-occupanti. Sulla auspicata presenza dell'ONU basta richiamare l'art. 78 della Carta che esclude, per gli Stati divenuti indipendenti, qualunque ritorno ad amministrazioni fiduciarie (ed evidentemente analoghe) e ricordare che il carattere assolutamente illecito delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza post-aggressione fanno anche del contesto ONU, senz'altro se fuori da un consenso pur improbabile della Resistenza, un elemento di parte e quindi giustamente osteggiato, anche con le armi, dalla Resistenza stessa.

Tutta l'operazione tratteggiata dall'Unione si incentra su “una forte iniziativa politica in modo da sostenere nel migliore dei modi la transizione democratica dell'Iraq, per contribuire ad indicare una via d'uscita che consenta all'Iraq di approdare ad una piena stabilità democratica, e a consegnare agli irakeni la piena sovranità sul loro paese… con azioni concrete per sostenere la transizione democratica e la ricostruzione economica”. Dunque, mentre si riconosce a chiare lettere che il c.d. governo irakeno attuale non è sovrano (ma non se ne traggono le conseguenze nel rapporto con la Resistenza), si centra tutta la prospettiva in un'azione assolutamente illegale di sostegno al “cambio di regime”, cioè al compiuto crimine internazionale. Tutto ciò sarebbe problematico e oggi illecito – a differenza dalla Germania del 1945 – in virtù del principio inderogabile di autodeterminazione, che legittimerebbe pienamente l'azione di “insorti” contro gli occupanti e i quisling.

Ma vi è qualcosa di più. La Resistenza irakena viene ignorata e implicitamente declassata, come del resto già nella generale presentazione mediatica, alla stregua di un coacervo di azioni violente che colpiscono indiscriminatamente anche civili innocenti, senza un centro decisionale ed obiettivi politici. Qui è l'errore, ma non solo errore, centrale: nel suo nucleo portante, quello che ne garantisce nei fatti la persistenza e la pervasività generale, essa è stata organizzata prima dell'aggressione, con l'entrata in clandestinità di quadri politici e militari irakeni e con la distribuzione e predisposizione di depositi e riserve di armi. A questi gruppi, che fanno capo soprattutto al Baath e senza dei quali non vi sarebbe potuta essere la Resistenza con le sue caratteristiche, a questi gruppi che hanno direzione ovviamente clandestina e programmi politici e indicazioni degli obiettivi degli attacchi armati (includenti ogni livello di collaboratori con l'occupante), si affiancano gruppi di diversa ispirazione, convergenti però almeno nella finalità di cacciare gli occupanti, e indispensabili per assicurare l'ampiezza e la forza reale della Resistenza e il generale appoggio popolare. Vi possono poi essere gruppi “sciolti”, o addirittura organizzati o infiltrati da servizi segreti, che sono probabilmente quelli che portano elementi di diversione, confusione, guerra civile, atti di “terrorismo” veri e propri. In un quadro del genere va valutata la presenza e l'azione degli sciiti, nelle diverse componenti, e il loro talora ambiguo rapporto con gli occupanti. Nonché il rapporto con l'Iran, che certo suscita problemi.

Le azioni fondamentali della Resistenza irakena non sono semplicemente di “insorti” (che si levano, anche per ragioni legittime o comunque condivisibili, contro una precostituita situazione legittima: è questa la costruzione ideologica, la più aperta verso la Resistenza, che porta però in definitiva a giustificare l'appoggio alle “autorità irakene” impiantate, al di là di formali schermi, dagli occupanti e da questi totalmente e vitalmente sorrette, e di cui quindi si oblitera il carattere di quisling). Questo giochino cade del tutto se si riconosce la Resistenza in quanto predisposta dallo Stato irakeno e sorretta dagli appelli a combattere in tutti i modi gli occupanti, rivolti al popolo dalle legittime autorità irakene pre-aggressione: ciò realizza gli elementi di una continuazione della guerra contro l'aggressione straniera dal lato legittimo dello Stato e del popolo irakeno, nei modi in cui, ad es., li ha definiti una sentenza della Cassazione italiana del 1999 a proposito dell'attentato di Via Rasella. Non “insorti”, ma “resistenti” contro l'aggressione e l'invasione.

La proposta programmatica dell'Unione si innesta invece, ripetiamo, nella linea criminale dell'accettazione delle conseguenze, conclamate ma non validamente conseguite, dell'aggressione (la fine del precedente Stato irakeno e il sorgere, come nella Germania 1945, di una nuova legittimità data da occupanti sovrani e dai “poteri” locali da questi instaurati, con in più la consacrazione ONU: tutti presupposti ed elementi fasulli, che prescindono dal vero carattere, dalla forza, dalla assoluta legittimità pur pienamente giuridica della Resistenza (perdurante) all'aggressione da parte dello Stato e del popolo irakeno. E' questa Resistenza che, a differenza della Germania 1945, impedisce il consolidamento definitivo dell'occupazione, la quale quindi resta di carattere puramente militare, nella permanenza della guerra.

Pensare che, in queste condizioni, sia lecito inviare “ricostruttori” civili (ma poi con tutela militare…) senza il consenso del sovrano legittimo, la Resistenza, è un assurdo, è ancora un crimine, espone quei “ricostruttori” alle legittime azioni della Resistenza irakena, che non si possono esorcizzare con costruzioni prive di base giuridica.

Aldo Bernardini

23 maggio 2006


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