Otto anni di bombardamenti, torture, morte e distruzione
hanno rafforzato la resistenza contro gli occupanti

Rete nazionale 'Disarmiamoli!'

14 luglio 2009


Un paracadutista italiano morto, tre soldati feriti nell'esplosione di un ordigno che ha coinvolto il mezzo su cui transitava a circa 50 chilometri da Farah , Afghanistan. Lo ha annunciato con un comunicato il Regional Command West delle forze della NATO. L'episodio, dice la nota, è avvenuto a circa 50 chilometri a nord est di Farah.

Terminata - insieme al governo Prodi - la disgustosa retorica del peacekeeping, l’esecutivo di centro destra gestisce la partecipazione italiana all’occupazione di quel paese per quello che è: una politica di guerra, aggressiva e determinata a condividere apertamente con gli alleati continue offensive militari contro la complessa rete di resistenza, sbrigativamente classificata come “talebana”.

La prima Legge finanziaria varata dall’esecutivo berlusconiano ha praticamente raddoppiato la spesa per le missioni militari all’estero. Grandi manovre sono in atto per spostare dai vari avamposti tricolori (soprattutto dai Balcani e dal Libano) uomini e mezzi sul fronte afgano, che si rivela ogni giorno di più il tallone d’Achille della NATO.

Liberato il campo dagli oceani di retorica che contraddistinguono la gestione d’ogni operazione di guerra, emergono vieppiù le ragioni di fondo del coinvolgimento italiano in quel conflitto, per la gestione del quale ad ogni paese vanno specifiche ricompense e profitti.

La morte del caporalmaggiore Alessandro Di Lisio ha evidenziato, in questo caso, l’inadeguatezza dei mezzi da trasporto LINCE (Veicolo tattico leggero multiruolo - prodotto Iveco LMV), unici sino ad oggi in grado di garantire un alto livello di incolumità alle truppe italiane. La notizia, oltre ad indicare un salto di qualità nelle capacità militari della locale resistenza, ci rimanda ad una delle fondamentali funzioni di una guerra guerreggiata: la messa in prova in un contesto reale della più moderna e “competitiva” produzione bellica. Le recenti ed incredibili performance dell’industria militare italiana nel mondo, con una crescita 220% nella vendita di armi nel 2008, evidenziano così una delle molle fondamentali che spingono governi d’alterne coalizioni a partecipare alle varie occupazioni neocoloniali. Le commesse miliardarie strappate recentemente da Finmeccanica ed Iveco su mercati delicatissimi – USA, Israele – sono la ricompensa, più che per la qualità dei mezzi, per il servizio reso dalle truppe.

Nell’espletamento di questa “nobile” missione si può perdere la vita. I soldati di professione ne sono coscienti ed evidentemente disposti alla posta in gioco. Le migliaia di civili innocenti, massacrati dai potenti mezzi inviati dai vari Ministri della Difesa sicuramente no. Per loro non ci sono mai funerali di Stato nè parole commosse del Presidente della Repubblica di turno.

Otto anni di bombardamenti, torture, morte e distruzione hanno sortito il solo effetto di rafforzare la resistenza contro gli occupanti. Non sarà oggi più guerra a risolvere il problema. L’unica soluzione al bagno di sangue in atto in Afghanistan è il ritiro incondizionato di tutte le truppe della NATO. Per quest’obiettivo il movimento contro la guerra si è sempre battuto - contro governi di centro sinistra e di centro destra - e continuerà a battersi nel prossimo futuro.

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